Sempre
più crudeli, più efferati nell’infliggere torture, mutilazioni,
umiliazioni, sofferenze. Tutti, senza distinzione: non c’è salvezza, non c’è
redenzione nell’atroce scia di sangue che Il cartello si
lascia alle spalle. E’ una vera e propria guerra, spietata e
insensata che, come tutte le guerre moderne dal ventesimo in secolo
in poi, non distingue tra soldati e civili, chiunque è un
bersaglio, anche se mascherati come vittima collaterale o qualsiasi
altro eufemismo venga usato. La vendetta è tutto, il potere della
morte è tutto e quello che resta è il deserto e città popolate da
fantasmi, con Ciudad Juárez in cima alla lista. Don Winslow spiega
molto bene come nasce la guerra per e contro il traffico di droga, la
condizione apocalittica del Messico moderno (né più né meno di
quello antico) e l’attinenza alla cronaca e alla realtà (Il
cartello è, de facto, un romanzo storico) colpisce, insieme
all’abilità di rendere intellegibili i modus operandi dei
cartelli, dei trafficanti, delle forze di polizia, dell’esercito,
delle agenzie federali degli Stati Uniti, degli agenti sotto
copertura, dei cambiamenti di ruolo e di strategia, delle
trasformazioni delle alleanze, delle tregue e degli scontri in
un’orgia di inaudita violenza. Senza fine e senza senso perché,
come si era già capito con Il potere del cane e come diventa
ridondante con Il cartello, puoi anche vincere una guerra, ed
essere il più potente, ma non sarai mai al sicuro. Art Keller non è
estraneo alla sete di morte, alla devozione ai meccanismi (senza
ritorno) della vendetta perché la guerra è in sé una vendetta, e
soltanto quello. Ha varcato il confine già con Il potere del
cane, mentre Il cartello porta lo porta un passo più in
là. Avrebbe voluto restare nel suo buen retiro, ad allevare le api,
ma sapeva che il passato, quel passato che non passa mai, l’avrebbe
richiamato. Teneva una pistola nascosta tra le arnie ed è così che
“Keller è diventato un blues, uno dei perdenti di Tom Waits, uno
dei santi di Kerouac, un eroe di Springsteen sotto le luci delle
autostrade americane e i neon dei locali. Un fuggiasco, un
bracciante, un vagabondo, un cowboy che, pur sapendo di essere
arrivato alla fine della prateria, continua a galoppare, perché non
c’è altro da fare”. Quando Adán Barrera, il señor, torna in
Messico, è chiaro che la lotta riprenderà: il traffico di droga, la
malefica rotta dal produttore al consumatore, diventa (persino)
relativo. E’ paradossale, ma è proprio così, Il cartello mostra
una dimensione differente, e più allarmante. L’obiettivo è una
forma di controllo del territorio e (quindi) di governo, con le sue
suddivisioni (le plaza) e le sue tasse (il piso).
Questo è il messaggio che si allunga attraverso Il cartello.
E’ una partita a scacchi, fragile e pericolosa, che si allarga a
macchia d’olio dal Messico, anche se l’epicentro resta lì. Solo
che è una scacchiera dove la separazione tra i bianchi e i neri non
è così chiara e le mosse delle pedine non sono mai corrette. Non si
tratta (soltanto) delle zone d’ombra: è che capita con una certa
frequenza che i bianchi diventino neri e i neri diventino bianchi. I
ribaltamenti di fronte sono repentini: con un cambio di alleanza, un
matrimonio, una fuga, un accordo, un tradimento. L’unico aspetto
che rimane inalterato è il nodo che unisce Art Keller e Adán
Barrera, visto che uno è la nemesi dell’altro. Art Keller lo
insegue come una vocazione, un’ossessione, una meta che è lo scopo
della sua vita e su cui giocare la carta della morte, la sua e quella
di Adán Barrera. Attorno agli opposti estremi, Don Winslow vira
tutto con il ritmo forsennato di un thriller che lascia senza fiato:
spietato, serrato, trascinante Il cartello è un romanzo epico
che racconta una realtà tragica.
domenica 27 dicembre 2015
lunedì 21 dicembre 2015
Jason Starr
Westchester,
poco a sud di New York, è una delle contee più agiate degli Stati
Uniti e con il suo country club, la sua esclusività, la sua opulenza
è qualcosa in più di una (ricca) zona residenziale: è un modo di
esprimere un tenore di vita. Per dire, Mark e Deb Berman sono reduci
dalla festa d’inaugurazione di una villa da qualche milione di
dollari e stanno litigando perché lei lo ha visto un po’ troppo
vicino a Karen Daily, amica e vicina di casa. E’ da quell’equivoco
che si genera tutta la cupa storia di Savage
Lane. La famiglia di
Mark Berman è speculare a quella di Karen (figli compresi), ma in
modi diversi lui e lei infrangono le regole e l’equilibrio di
Savage Lane,
per quanto ipocrita e superficiale possa essere. Mark proietta le sue
illusioni senza sosta, credendo all’infinito (e oltre) nell’amore
di Karen, che è inesistente. Questo è il primo detonatore perché
la sua insistenza non tiene conto del paradigma di Savage
Lane reso esplicito
da Jason Starr: “Le fantasie sembrano meravigliose, ma sono solo
una droga di passaggio. Ne hai bisogno sempre di più e alla fine,
quando subentra la realtà, sei completamente fottuto”. All’estremo
opposto, Karen è aggrappata alla realtà. Non ha alternative: è
sola, è divorziata, è libera e indipendente. Tutti elementi che la
mettono su un binario deviante dalla supposta normalità di Savage
Lane, nonostante sia
la più equilibrata. A Deb la famiglia, una bella casa, le comodità
non bastano più: ha un problema con l’alcol e una relazione con un
ragazzo minorenne, Owen Harrison, aggravata dall’uso di giochi
erotici più o meno pericolosi. Jason Starr non usa un linguaggio
ricercato: i personaggi sono accennati, per sommi capi, per quanto
evidenti, e lo stile è molto pop, efficace e cadenzato. Quello che
avvolge e impone, in pratica, al lettore di cominciare e finire
Savage Lane
senza mollarlo un attimo è la sua abilità nel disegnare geometrie
sempre sul filo del rasoio, con le frustrazioni, la disperazione, il
desiderio che spingono con insistenza a varcare i confini della
moralità e della legalità. L’intreccio è uno schema chiuso su se
stesso, una rete elettrica in cui la trasgressione e la noia
costituiscono le due polarità e convergono verso il corto circuito,
inevitabile. L’angoscia che genera nel riprodurre le
contrapposizioni, i miraggi, i sotterfugi è ipnotizzante. Non ci
sono grandi spargimenti di sangue (si tratta di un omicidio, e un
altro nel passato) o scene spettacolari, ma la tensione è sempre
altissima proprio per questa ambiguità. L’assassino è soltanto
uno e Jason Starr lo mostra senza tante esitazioni, in un momento che
pare proprio rivelatorio. C’è una vittima e sono tutti colpevoli
proprio per via delle fantasie, delle supposizioni, dei pettegolezzi,
dall’arrivo degli inviati dei notiziari. Persino la stessa vittima,
anzi, soprattutto la stessa vittima, è colpevole. In questo Jason
Starr è molto concreto: nell’era del Patriot Act e della telefonia
mobile non c’è scampo, soprattutto se di cellulari ne hai un paio.
Puoi pure sotterrarli con il cadavere, ma le tracce restano sempre, e
comunque non sarà quella la soluzione del caso. Savage
Lane si svolge
(drammatica conclusione compresa) nello spazio ristretto della vita
quotidiana: un paio di isolati, la scuola (o meglio, il parcheggio
della scuola), la piscina, il country club, i figli, tutto a breve
distanza, dentro i confini del quartiere. I suoi limiti sono
immutabili e invalicabili. L’unico vero lusso è la follia.
mercoledì 16 dicembre 2015
Richard Price
La
vita non è facile, per i Clockers.
Sono imprigionati nella forma di una città che genera periferie,
quartieri popolari dalle geometrie che non compongono, comprimono.
Dempsy, l’immaginaria (ma nemmeno tanto) area urbana tra Newark e
il New Jersey, non è NYC, è la metropoli senza esserlo, un intero
subcontinente “dove tutti avevano l’aria di essere sul punto di
andare da qualche parte, ma in realtà non si allontanavano mai per
più di quindici metri”. Nell’incipit di Clockers,
è come se Richard Price osservasse la scena dall’alto e la visione
d’insieme concorre a delineare un terra desolata che è l’habitat
naturale del pericolo e della paura. Per dirla con Sam Shepard “tanto
per cominciare, non c’era nessuna città” e l’elemento
architettonico che senza dubbio determina i confini invisibili e
scandisce i ritmi dei movimenti dei Clockers
resta indefinito, così come la distinzione tra la legge e la
giustizia o meglio la marginalità di entrambe. Gli edifici sono
enormi, anonimi, grigi e opprimenti. Gli appartamenti sono troppo
piccoli, troppo affollati o troppo vuoti. La vita avviene nelle
strade, dove tutti si rincorrono e le distanze sono minime eppure
complesse perché “all’altro lato della strada può succedere di
tutto”. Il problema non è soltanto la separazione delle
giurisdizioni o la divisione territoriale dello spaccio. E’ quella
sorta di terra comune, un complicato processo chimico di soluzione
dove le componenti non riescono né a fondersi né a dividersi. La
constatazione è lapidaria, quando si capisce che “poteva succedere
qualsiasi cosa a chiunque; da quelle parti tutti erano o colpevoli o
stavano per diventarlo”. Sono tutti Clockers,
in effetti, e i personaggi rimbalzano come la pallina di un flipper
che sembra in preda al caos e all’energia e invece segue percorsi
tracciati e obbligati. Rocco Klein e Manzilli, Duck Gathers, Thumper,
Big Chief e tutti gli altri poliziotti sono incastrati sui
marciapiedi, senza speranze, senza aspettative, con doppi lavori e
doppi giochi, proprio come Strike (il protagonista) e suo fratello
Victor Dunham, Champ, Darryl Adams, Futon, Peanut, Rodney, Buddha
Hat. L’unico che si salva, perché si defila, è Sean Touhey, un
attore in cerca di ispirazione che assiste alle scene dei crimini. E’
un personaggio secondario, rispetto ai Clockers,
ma quando comincia a vedere vomito, sangue, bossoli, lacrime,
disperazione capisce che nel labirinto di Dempsey “non hanno futuro
perché il futuro non l’hanno nemmeno in mente” ed è lesto a
scomparire, come a sottolineare che tutti stanno interpretando un
ruolo che lui non è in grado di reggere. L’approccio di Richard
Price è quasi antropologico nell’esaminare le deviazioni umane e la condizione di isolamento nella realtà del quartiere e delle sue guerre
quotidiane: gli spazi sono
ridotti, il terreno limitato ed è fatale comprendere che “non è
questo il modo di vivere, ma la tua vita è dove sei adesso, quindi
cosa ci puoi fare?”. Niente, e nelle strade succede tutto il resto:
“la gente crepa ogni momento”, o l’aspetta, inevitabile, il
carcere. I meccanismi perversi dello spaccio e del consumo (“L’unico
paradiso che vogliono”) sono una versione dell’economia di
mercato adeguata alla “street life” con la supponenza dei
Clockers
quando sostengono che “da come abbiamo sistemato le cose, è un
commercio quasi legittimo”. Come diceva Jim Carroll, la routine del
tossico non è molto diversa da chi ha un lavoro normale, solo che
gli orari sono spostati verso le tenebre. Clockers
ampia quel concetto, raccontando la vita, e la morte, quando ci sono
“troppe ore della notte ancora davanti a sé”. L’angoscia è
trattata con metodo, con meticolosa attenzione ai dettagli e lo
slang, le battute, il ritmo stesso dei dialoghi (che è proprio
hip-hop) è riprodotto da Richard Price con uno scrupolo più che
realista. E’ straordinario a convogliare nel linguaggio, sincopato,
strascicato, gergale, spietato la geografia urbana, giungendo alla
conclusione che, per i Clockers,
“oltre alla classe, l’altra cosa necessaria per stare sulla
cresta dell’onda è la paura”. Micidiale.
lunedì 14 dicembre 2015
Ben Lerner
La nota di
autoreferenzialità all’inizio è quella che determina l’andamento
di tutto il libro. Un costante guardarsi l’ombelico (e anche più
giù) mentre fuori succede ogni cosa, ma il contatto è sempre
evanescente, se non assente, a parte il forzato richiamo sulla
pagina. Ben Lerner (e/o il suo personaggio ipocondriaco) si divide
tra la diagnosi di un rischio cardiaco, la richiesta dell’amica
Alex di un aiuto per diventare madre e l’idea di concretizzare “un
diorama del futuro” o una rappresentazione né standard né lineare
dei movimenti del tempo, e della storia. Solo che, visto da vicino,
Nel mondo a venire è
un collage con parti di racconti, di poesie, di lezioni, di
recensioni ed identificabile persino “una serie di appunti per un
romanzo”. Ben Lerner è molto abile a tenere tutto insieme, ma la
prospettiva è falsata e Nel mondo a venire
manca là proprio dove vorrebbe essere: la narrazione porta i sintomi
di un romanzo senza esserlo. Entrare nel suo club esclusivo vuol dire
accettarlo, non esserne coinvolti, comprenderlo senza condividerlo, e
una prima ammissione di questa distanza è quando Ben Lerner scrive
che “quello che di norma sembrava l’unico mondo possibile
diventava un mondo fra tanti, e il suo significato instabile,
collocabile ovunque, anche se solo per un attimo”. Il tentativo per
quanto elaborato, pare maldestro: c’è questa coazione a ripetere
situazioni, percezioni, commenti. Più di una volta con la stessa,
identica frase. Alla fine, in buona sostanza, sono ancora le mille
luci di New York, questa volta viste dall’altra sponda dell’Hudson,
con Brooklyn diventata cool negli ultimi anni, senza quella patina
leggera e brillante che per una breve stagione aveva avuto pur senso
(e successo). Ben Lerner invece sovrappone un po’ troppo: “la
globalità del mondo in termini apocalittici” e le cronache dal
dentista, i ruoli e gli interpreti, i toni e i ritmi, le dimensioni e
le conclusioni, lo scrittore e il lettore. Il meccanismo, in sé, si
risolve in una sorta di diario con un’unica vocazione: non ho
niente da dire, ma lo dico benissimo. Soltanto la rievocazione
dell’esplosione dello shuttle Challenger
ha qualche sprazzo di lucidità, ma poi Ben Lerner, nel continuo
tentativo di importare tutto nella sua quotidianità, o in quella del
suo alter ego, lo riduce a una cornice molto ampia, riempita dai
ricordi infantili e dalle barzellette così come dalla prosopopea di
Ronald Reagan. Un bel discorso inzuppato di luoghi comuni può essere
sufficiente per un’orazione politica (eccome, se lo è stato). Per
un romanzo serve qualcosa di più e tra le righe Ben Lerner sembra
confessarlo quando dice che “più l’autore di affannava a
distinguersi dal narratore, più gli sembrava di essere diventato
identico a lui”. Nello stesso modo accosta la descrizione di pranzi
e cene alle chiacchiere e ai pettegolezzi sull’editoria e sul suo
futuro in conversazioni un po’ brille con un’atmosfera che non è
né fiction, né realtà, è soltanto finta ed evanescente. Ci deve
essere un limite tra l’ambizioso e il pretenzioso, almeno una
distinzione, una separazione. Si capisce dove vuole arrivare Ben
Lerner, soltanto che non ci arriva: Nel mondo
a venire resta lì, un esercizio di stile,
autoindulgente ed eseguito alla perfezione.
venerdì 11 dicembre 2015
John Trudell
John Trudell lo chiamava Rant And Roll, proprio come la canzone che apriva Johnny Damas And Me. Un modo di intendere l’uso della parola, della poesia e della musica che le riassume in un solo corpo con uno spirito combattivo distinto da “umiltà e gratitudine”. Per essere quello che è stato, libero, coraggioso, sincero, per dire quello che ha detto, ha pagato un prezzo inimmaginabile, inseguito e perseguitato come ogni ribelle, ammirato e difeso da tutti gli outsider, una nuova tribù in cui si è riconosciuto e che l’ha adottato. Kris Kristofferson lo definiva “un pazzo lupo solitario, un predicatore, un guerriero pieno di paura e divertimento e risate e amore. E’ reale. La giustizia è un fuoco che brucia dentro di lui. Il suo spirito urla per quello e lo rende pericoloso”. La sua poetica è sempre stata limpida e lineare: nelle canzoni, nei versi, nei discorsi. L’uomo e la donna (la donna, soprattutto) erano sempre il cuore dell’universo delle sue riflessioni, insieme alla terra, con l’imperativo di “trovare un modo per comunicare i nostri pensieri, la nostra resistenza e la nostra coscienza”, per difendersi dalle menzogne, dall’avidità, dallo sfruttamento economico, dalla disinformazione, dalla decadenza e da tutto ciò che alimenta la Rich Man’s War. Non c’era niente di esotico o di mistico nel suo salmodiare, cantava con una semplicità profetica che ilGrafitti Man riassumeva così: “Sono solo un essere umano che prova a esserlo in un mondo che sta perdendo molto rapidamente la comprensione degli esseri umani. E’ quello di cui abbiamo assolutamente bisogno: esprimere i nostri sentimenti e capirci, conoscerci, ritrovarsi. Dobbiamo farlo, non c’è alternativa, non c’è possibilità di nascondersi. Essere quello che diciamo e dire quello che siamo: questa è la via”. All’orizzonte non c’era sconfitta o vittoria, né premio o condanna, per John Trudell esporsi, esprimersi non era nemmeno la cosa giusta, era l’unica: “E’ sempre sembrato che il meglio che potessimo fare non era mai abbastanza, in qualche modo non si arrivava mai nei posti che stavamo cercando, domani il vicino davanti a noi, il nostro passato nel tempo, con le risate di ieri che riecheggiano nelle ombre di promesse dimenticate, lottiamo per andare avanti prendendo ogni giorno, uno alla volta, riparando e spezzando, creando modelli per la nostra vita”. John Trudell si ostinava a non lasciarsi incastrare in un’identità, in una forma, a inseguire una disperata essenzialità: “Siamo una generazione che non ha poeti. Gli unici poeti con cui possiamo confrontarci sono morti e non ne abbiamo altri perché i poeti che sono diventati rock’n’roll star non vengono riconosciuti come poeti, ma come songwriter, ma comunque c’è un posto dove poter recitare le nostre parole nella nostra realtà. E infatti qualcuno mi chiama poeta. Qualcun altro dice che sono un militante. C’è anche chi sostiene che la mia poesia e la mia musica siano politiche. Altri dicono che parlano dello spirito del mio popolo. Non mi ritrovo in tutte queste etichette. Probabilmente c’è un po’ di tutto ciò, ma sento di essere qualcosa in più di ogni singolo aspetto. E’ quello che tutti noi siamo. E’ ciò che ci rende umani”. La voce dei Blue Indians non è stata soltanto una Tribal Voice, aveva una dimensione universale, un canto che è stato primordiale e rock’n’roll, in questo incontrollabile, come ammetteva lo stesso John Trudell: “Ovviamente sapete che sono impazzito. Sono impazzito molto tempo fa. Fidatevi, è il posto più sicuro”. Buon viaggio, Crazy Horse.
lunedì 7 dicembre 2015
Elliott Murphy
Le
Note al caffé di Elliott Murphy rispecchiano la tradizione
degli appunti raccolti en passant, dai bistrot parigini alle osterie
venete, tutti luoghi che nei suoi tour ha conosciuto da vicino, tanto
è vero che si è lasciato New York alle spalle per trasferirsi in
via definitiva nella Ville Lumière. Nel passaggio, la sua identità
di raffinato songwriter si è evoluta verso altre forme di scrittura,
giornalismo e narrativa compresi nell’elenco che si sono ricavati
uno spazio tra una scorribanda e l’altra. La prima connotazione
delle Note al caffé deriva proprio dalle caratteristica
europee di questo diario di viaggio. Come tutti gli americani in
trasferta, o in esilio, prima di lui (soprattutto gli amatissimi
scrittori delle Lost e Beat Generation), Elliott Murphy adotta e
applica una prospettiva singolare, molto stimolante nella valutazione
delle distanze culturali. Per esempio, suggerisce un punto di vista
abbastanza curioso rispetto alla golden age del rock’n’roll
quando dice che “soltanto in America è esploso il fenomeno anni
sessanta, nel resto del mondo abbiamo avuto per due volte gli anni
cinquanta. E poi ci siamo svegliati direttamente negli anni settanta:
tutti portavano i pantaloni a zampa d’elefante e protestavano
contro la guerra e le bombe”. Si può discuterne, così succede con
la sua percezione delle differenze all’interno dei confini europei:
“Se la Francia è la patria del surrealismo, allora l’Italia è
in centro del caos e dell’anarchia sessuale, il principio di tutto.
Dove tutti, a parte me, conoscono le regole. Oppure dove tutti,
tranne me, sanno che non esistono regole”. Una logica che deve
parecchio alle ragazze avvistate e inseguite nelle vie di Treviso o
al fantasma di Hemingway al Caffè Florian di Venezia, che “di per
sé non è nient’altro che un atollo della fantasia che affiora
dalla laguna”. E’ difficile distinguere Elliott Murphy dai
personaggi che incrocia e sviluppa nelle Note al caffé: tra
schizzi, porzioni di fiction e di flusso di coscienza scorrono
l’inevitabile Jim Morrison a Parigi, una citazione di Sartre,
un’immagine di Napoleone e tutto un avvicendarsi di caratteri e
interpreti dal tono dylaniano, fonte sicura e primaria, e poi,
ancora, il cinema d’autore con John Ford, François Truffaut, Wim
Wenders, Sam Shepard e lo spettro di un secolo (il ventesimo) a cui
questa prosa appartiene in modo inequivocabile. Tra una bozza e
l’altra matura un presagio di quello che sarebbe venuto (non ci
voleva una grande immaginazione, in effetti), ma una serie di
istantanee non fa una storia, anche se Elliott Murphy è un
osservatore ispirato, capace di distinguere i nessi tra la
letteratura e il rock’n’roll (che rimane il suo primo lavoro)
sempre con una predisposizione romantica ed entusiasta che garantisce
alle sue Note al caffé una certa leggerezza e una sostanziale
qualità dello stile. Fedele alle sue origini naturali, Note al
caffé è frammentario, inconcludente, come una raccolta di
cartoline spedite da un viaggio con troppe destinazioni, senza una
meta definitiva, più l’idea di un libro, che un libro vero e
proprio.
mercoledì 2 dicembre 2015
Raymond Carver
Vuoi
star zitta, per favore? è lo spartiacque imprescindibile nella
vita e nella carriera di Raymond Carver. E’ la prima antologia di
racconti curata da Gordon Lish che ne selezionerà e ne rielaborerà
ventidue, pescandoli da una quarantina tra quelli fin lì scritti e
proposti da Carver. E’ il 1976 e nel risvolto originale di Vuoi
star zitta per favore?, si legge, tra l’altro: “La volgarità
dei nostri destini segnati ascende a una sorta di trionfo, una
piccola ma sontuosa vittoria sulle circostanze”. In quel momento le
contingenze per Carver sono davvero precarie tra bancarotte, alcol e
ancora alcol, famiglia e disastri assortiti. James Crumley che
trasformerà Raymond e Maryann Carver in altrettanti personaggi in
L’ultimo vero bacio lo ricordava così: “Ecco delle
persone con una capacità di degradazione che non avevo mai
incontrato, e sì che ho fatto una vita abbastanza dura, squattrinata
e criminale. Volevo bene a Ray (Carver), ma era un uomo completamente
privo di difese. Del tutto incapace di prendersi cura di sé”. La
luce spettrale che circonda i protagonisti di Vuoi star zitta, per
favore?, che sia stata frutto del bisturi di Gordon Lish o
dell’intuizione di Raymond Carver (il dilemma ormai è relativo) ha
l’urgenza, l’immediatezza, anche una scarna concretezza e se è
vero (come è vero) che i successivi racconti di Carver sono
diventati di volta in volta più accurati e lirici, qui c’è il
modello iniziale, la scossa primordiale, la scintilla. Di sicuro il
meticoloso lavoro di Gordon Lish ha riorganizzato, distribuito e
uniformato i riferimenti autobiografici: c’è sempre stata una
parte non irrilevante dell’esperienza personale di Carver nei suoi
racconti, ma Vuoi star zitta, per favore? attinge e rimanda a
quel particolare periodo di transizione. Un momento in cui i Segnali
sono inequivocabili, i Creditori bussano alla porta (e
nelle aule dei tribunali), L’idea (quale che fosse) si stava
sgretolando e i dialoghi si perdevano tra quelle due domande, Perché,
tesoro mio? e Vuoi star zitta, per favore?, appunto. Il
tenore è identificato dal protagonista di Sessanta acri, che
“aveva la sensazione che fosse accaduto qualcosa di cruciale, la
sensazione di aver fallito”. E’ quell’ombra, lo spettro della
sconfitta, ad annodare insieme le short stories di Raymond Carver ed
è così che lo leggeva anche Leonard Gardner, l’autore di Città
amara: “Parliamo del tradimento degli affetti più cari, per
debolezza o egoismo, o per altro ancora. Gente che non si prende a
botte, ma compie questi tradimenti silenziosi che causano un dolore
atroce”. Del resto, quando Vuoi star zitta, per favore?, Carver
si stupì di come i suoi personaggi vennero considerati, come se
avesse aperto una porta su una realtà sconosciuta ai più, ma che
lui conosceva bene: “Questo paese è pieno di gente così. E’
brava gente. Gente che cerca di fare dal proprio meglio”. Il dubbio
che non ci arrivi, che ci sia sempre l’imprevedibile avversità
dietro l’angolo, che l’attrazione verso la Wrong Side Of The
Road, per dirla con Tom Waits, risulti fatale, è l’elemento
elettrico, magnetico che lascia stupiti ogni volta. Anche quando è
nascosto o mimetizzato perché come scriveva Raymond Carver:
“Mi piace quando nei racconti c’è un senso di minaccia. Credo
che un po’ di minaccia sia una cosa che in un racconto ci sta bene.
Tanto per cominciare, fa bene alla circolazione. Ci deve essere della
tensione, il senso che qualcosa sta per accadere, che certe cose si
sono messe in moto e non si possono fermare, altrimenti, il più
delle volte, la storia semplicemente non ci sarà. Quello che crea
tensione in un racconto è, in parte, il modo in cui le parole
vengono concretamente collegate per formare l’azione visibile della
storia. Ma creano tensione anche le cose vengono lasciate fuori, che
sono implicite, il paesaggio che è appena sotto la tranquilla (ma a
volte rotta e agitata) superficie del racconto”. Inesorabile.