La velocità, prima di tutto. Soprattutto, “qualsiasi cosa pur
di mantenere la velocità, mantenere la velocità e saettare
attraverso quel mondo oscuro”. Il paradosso di Stop-Time,
come già rivela il titolo, è il tentativo di preservare una magia
destinata a dissolversi raccontandola attraverso il diario di una
fuga continua, che nasconde la resistenza all'inesorabile minaccia
dell'età adulta, che incombe ogni giorno di più. Il sapore di
piccole e grandi scoperte, della sorpresa dovuta alla coabitazione
con il proprio corpo in rapida evoluzione, si scontra con la
sensazione di dover sperimentare presto una prima fine perché, dice
Frank Conroy in veste di portavoce di sé e dei suoi amici di
scorribande, “inconsciamente sapevamo che non avremmo mai avuto
un'altra chance. Quella sfrenata libertà sarebbe stata nostra una
volta sola”. Frank Conroy compila Stop-Time con assiduità e
partecipazione, si trasfigura nel bambino che è stato e lo “vede
con la chiarezza di un mistico”: l'innocenza svanita nel ricordo di
una giornata alla fiera della contea, tra pochi centesimi da spendere
e un sacco di fantasie da consumare o in una lunga frequentazione con
lo yo-yo (niente di più importante da fare) diventano i tasselli
essenziali della sua ricostruzione. Lo stile in sé non è niente di
sorprendente: per quanto florido e ispirato, segue la visione
soggettiva di tutti gli americani che viaggiano per una vita, senza
giungere mai davvero da qualche parte. Più determinante la domanda
al centro di Stop-Time, ovvero “è la spensieratezza
dell'infanzia a dischiudere il mondo?” O più mondi? La forma
mutevole di quella sfuggente twilight zone diventa una ricerca
dell'atmosfera, del clima, delle emozioni, e di quel particolare
fenomeno per cui “forse i bambini ricordano solo l'attesa delle
cose. Nell'istante in cui gli eventi cominciano ad accadere, loro si
perdono nel movimento, come danzatori ipnotizzati”. L'infanzia si
trasforma attraverso lenti ma imprevedibili processi chimici, gli
istinti suicidi e la scoperta del sesso, l'arrivo del jazz e del
cinema e Frank Conroy sa descriverli con grande accortezza, a cui non
è estraneo un certo “candore” come lo definisce Norman Mailer e
anche una sua “freschezza” come diceva William Styron. Se prima,
“avevamo depositi segreti di cibo e fumetti disseminati in vari
punti del bosco. Ce ne servivamo di rado. A piacerci era l'idea”,
con il passare del tempo cresce l'incertenza perché “sapevamo cosa
stavamo guardando, ma era come se non riuscissimo a crederci fino in
fondo”. E' così che Stop-Time rimane indeterminato anche se
in qualche modo il viaggio deve pur finire. E' fatta così la vita ed
è fatta così la realtà, anche se Frank Conroy sperimenta tutti i
modi possibili per evitarla, per trasfigurarla, per esorcizzarla
essendosi accorto che “la mia fede nell'uniformità del tempo
scivola via a poco a poco. Comincio a credere che il tempo
cronologico sia un'illusione, e che a organizzare l'esistenza sia un
qualche altro principio”. La salvezza sta nell'idea di diventare
scrittore, in un racconto che fatica a prendere forma, in ottocento
tascabili sullo scaffale, in una lunga lista di narratori e poeti che
riempiono Stop-Time visto che “a risultarmi irresistibile,
nei libri, era la chiarezza del mondo, il modo incredibilmente
appagante in cui la vita acquisiva peso e diventava accessibile. La
realtà erano i libri”. Quello è solo il primo passo, poi “la
realtà si dissolveva, ed ero libero di abbandonarmi alla fantasia,
vivere migliaia di vite, tutte più potenti, più accessibili e più
reali della mia”. Ci sono misteri che sfumano nel ricordo, altri
rimangono per sempre.
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