Wittgenstein,
“i Dead, i Creedence. Dylan, naturalmente”, il cinema e la fede,
la teologia e l'astronomia, il Midrash Jazz Quartet che suona
Stardust,
Good
Night Sweetheart,
Dancing
In The Dark,
The
Song Is You e
My
Blue Heaven,
New York appena prima dell'apocalisse e l'Europa nel caos della
seconda guerra mondiale, l'origine dell'universo e l'evoluzione della
specie, tenendo ben presente che “ogni cosa ha continuato a
staccarsi da ogni altra cosa”: tutto concorda a definire qualcosa
in più di un romanzo, anche perché è difficile contenere nella
definizione tutte le storie assemblate da Doctorow per l'occasione.
La trama è spiazzante, scheggiata, spezzata: come in una mappa
sotterranea e segreta della città si sovrappongono e s'intersecano
più livelli con dinamiche imprevedibili che imprigionano gli uomini,
le donne, gli esseri umani in generale nelle loro idiosincrasie, nei
loro ricordi e nelle loro conversazioni, senza soluzioni, rinchiusi
nei dubbi e nelle incertezze e qui Doctorow è lapidario nel
sottolineare che “non siamo altro che spettrali congetture del
linguaggio”. Non è facile nemmeno
individuare
il protagonista tra le coreografie che serpeggiano per la città,
divina o profana che essa sia, e nei viaggi nel ventesimo secolo a
cercare il punto dove la cosiddetta civiltà ha inserito la
retromarcia. C'è un episodio, una scintilla (una croce rubata a un
prete scosso dai dubbi e lasciata sul tetto di una sinagoga) da cui
si diramano tutte le altre storie, compresa quella love story che è
l'unica costante nell'infinita progressione della scrittura di
Doctorow. Anche le conversazioni, sembrano fornire solo la tela su
cui allunga le sue ombre, i suoi schizzi e le sue impressioni, come
se su un quadro di Mondrian fosse arrivata un'esplosione di Pollock,
rendendo, in tutta la complessità della sua visuale, le pagine vive,
avvolgenti, perché “come un circuito stampato attraverso il quale
scorrono le nostre vite, una storia narrata sviluppa la nostra
capacità di vivere in corpi che non sono i nostri”. Contorto,
paradossale, assurdo come sono gli esseri umani, come è fatta la
loro storia di guerra, rituali, canzoni e film, Doctorow è geniale
nell'assemblaggio, lirico nel tono, provocatore nelle suggestioni,
acrobatico nel passare da un registro all'altro, in questo fedele
alla constatazione che, sì, in effetti “non esiste un individuo
più pericoloso del narratore”. Il suo capolavoro è attenersi al
ruolo con una perfida vena ironica, uno spiccato gusto per lo
sberleffo che si nasconde in tutti gli anfratti, sia nelle più
criptiche disgressioni filosofiche, sia nei momenti più prosaici,
dove la danza delle parole e delle immagini appare fine a se stessa,
allo stile, all'ispirazione e ai piaceri più epidermici. Più che
nell'ardita costruzione, la grandezza (inequivocabile) di Doctorow è
nella libertà che si guadagna e si prende, sapendo che l'autore deve
“onorare il carattere della sua idea e lasciare che si esprima in
tutta la sua sventurata insufficienza fino al momento in cui
anch'essa arriverà alla sua miserabile fine”. Amen.
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