Dal
suo posto d'osservazione alla pensione Beaurepas, a Ginevra, un
“giovane e ingenuo” Henry James, esamina i comportamenti e le
abitudini di due famiglie americane in viaggio. Ne prende le misure
con tatto e circospezione, vagliando le conversazioni e tenendo
presente le espressioni, i mutamenti d'umore, i gesti e le formalità
quotidiane che definiscono le posizioni, i vizi, le opportunità e le
sconfitte. Avendo “superato il bisogno di essere ipocrita”, Henry
James vive La pensione Beaurepas con scrupolosa attenzione e
ne segue il placido tran tran, come se non volesse perdersi nulla,
nemmeno la più minuscola e in apparenza insignificante sfumatura.
Italo Calvino scrive che la sua scrittura è “tutta sotto il segno
dell'elusività, del non detto, della ritrosia” e nella sua
variegata composizione La pensione Beaurepas è davvero il
vademecum di quell'arte dell'omissione, di quell'infinita
raffinatezza che permette a Henry James di nascondere e mostrare
nello stesso tempo, non senza una caparbia dose di ironia. Del resto,
gli americani in trasferta offrono una corrispondenza diretta che La
pensione Beaurepas delinea con una ricchezza esemplare, elencando
passo per passo le differenze tra Europa e America. Molte definizioni
che emergono dal quadro ottocentesco hanno un senso ancora adesso, un
paio di secoli dopo, e giunto alle battute finali, Henry James non si
esime dal misurare le distanze, una volta tornato a casa: “La gente
di qui ha un'immaginazione molto più flessibile e il vantaggio di
possedere un orizzonte più ampio, che non è delimitato a nord
dall'aristocrazia inglese e a sud dallo scrutin de liste.
(Mischio un po' i paesi, ma non vale la pena di tenerli separati.)
L'assenza del confronto con le convenzioni, di quei piccoli giudizi
preconcetti è un immenso toccasana. Noi siamo più analitici, più
perspicaci, più consci della realtà della vita”. Tutto vero e,
d'altra parte, gli americani in movimento, in particolare quelli che
transitano per La pensione Beaurepas, sembrano avere
come unica urgenza la dimostrazione sul campo del loro potere
d'acquisto, mentre Henry James ribadisce, più di una volta, che
“l'importante è vivere, sai, sentire, essere consci delle
proprie possibilità; non attraversare la vita in maniera meccanica e
inconsapevole, come una lettera che transita per l'ufficio postale”.
L'essenza frammentaria (“Abbiamo ricevuto qualcosa dappertutto; un
po' qui, un po' là. E' questo il vero segreto, ricevere qualcosa
dappertutto; se ci si mette di impegno vi si riesce sempre. A volte è
stata la musica, altre volte una comprensione più profonda della
storia dell'arte; ogni piccolo tassello conta, sapete. Altre volte
ancora soltanto un'occhiata di sfuggita, una veduta, un bel panorama,
un'impressione”) non limita affatto La pensione Beaurepas
che si rivela, grazie alla certosina predisposizione di Henry James,
“il posto ideale per studiare la natura umana”, in particolare
quella che è divisa e legata dalle rotte della geografia atlantica,
e utilissimo a comprendere le idiosincrasie su entrambe le sponde.
lunedì 27 luglio 2015
venerdì 24 luglio 2015
Gregory Corso
Se
Allen Ginsberg lo definiva “un fromboliere di parole” o, in
alternativa, un “puro poeta immaginario”, lui stesso si definiva
“non convenzionale”. E' un'identificazione che si adatta con
naturalezza a chi scriveva versi come quelli di Ode alla Coit
Tower: “Piansi per ciò che in me non era più sovrano e
puzzava di sogni morti che ancora fingo di seppellire per schivare il
verme della realtà”. Si capisce già così che non si può
distinguere la poesia di Gregory Corso dalla sua fisicità,
dall'estremità selvaggia del suo essere che si è rivelata in
Benzina. Un uppercut senza esitazioni, che si svolge proprio
per quello che è, il volto di un grande, coraggioso poeta che non
temeva di mostrarsi, con tutti i suoi limiti e le sue visioni. Kennet
Rexroth diceva che “Gregory Corso è un naïf genuino” e la sua
risposta era un accordo in contrappunto: “Io scrivo senza pensarci,
e scrivere così vuol dire scrivere con onestà, ma vuol dire anche
scrivere in modo goffo. A nessun poeta piace essere goffo. Ma io ho
deciso di fregarmene, finché ciò mi consente di dire la verità. Se
nella mente del poeta c'è armonia allora anche la sua poesia sarà
armoniosa”. Gregory Corso è il poeta dentro il poeta: l'immagine
coincide con il suo riflesso scritto e declamato, la poesia e la vita
si confondono una nell'altra, nessuna distinzione, nessuna soluzione,
in un “premio di elettricità”, un flusso dei versi è
un'alluvione di parole, La “poesia automatica” di Benzina
è anche poesia da vedere, e da percepire (oltre che da leggere) e lo
dichiarava in modo esplicito in Nemmeno una parola: “E'
meglio che i suoi occhi parlino e ascoltino come vedono”. Anche
questo è il frutto dell'intenzione di ribaltare il tavolo,
scardinare le regole, e sconvolgere anche i re e i principi amici.
Gregory Corso lo annunciava senza sottintesi in Ho 25 anni:
“Io vi sono amico, ciò che eravate un tempo, in me sarete ancora,
poi di notte nell'intimità delle loro case, strappare le loro lingue
contrite e rubare le loro poesie”. La sua percezione, come molto
altro, era condivisa naturalmente da Jack Kerouac, che stava lassù:
“Sapendoci una vecchia trinità riverita, desideroso, naturalmente,
da giovane poeta inedito ignoto ma molto geniale, di abbattere le
grosse divinità stabilite e prenderne il posto, desideroso perciò
anche delle loro donne, essendo libero da inibizioni e malinconie,
almeno per il momento”. Quella componente naturale, romantica,
anarcoide e irriverente è ammessa persino dallo stesso Gregory Corso
in conclusione a Benzina con Il lamento di Zizi: “Non
sono nulla senza la malattia del riso”. Proprio così: Benzina
è la fonte di una serie di istantanee, di flash, e di emozioni poco
o niente filtrate, una poesia immediata e immacolata, scintillante e
incontrollata, prendere o lasciare. Molto beat, per niente battuto,
Gregory Corso è prigioniero dello stesso mondo che ha creato con le
sue liriche, la sua voce inimitabile. Raffiche di immagini che
colpiscono senza sosta, un flusso di impressioni ed espressioni che è
fisico (già) nel suo essere, sulla pagina. Con l'omaggio finale Per
Miles (Miles Davis, of course)
perché il suono è poesia, in quella notte che suonarono fino
all'alba, lui e Bird, e prima ancora c'era stato Monk, nascosto in un
piatto di piselli, così pare.
giovedì 16 luglio 2015
Siobhan Fallon
Una base militare è qualcosa di diverso da “un luogo molto isolato”
come scrive Siobhan Fallon nella nota in coda a Quando gli uomini
sono via. E' un'area in cui il tempo è sospeso per tutta la
durata della missione, è una zona disciplinata dalle logiche di un
esercito in guerra, anche se tutto avviene dall'altra parte del mondo
ed è un perimetro attorno a una città che non è una città e a una
caserma che non è più (solo) una caserma. I racconti che allinea
Siobhan Fallon vanno ricondotti a questo particolare ecosistema dove
l'assenza e l'attesa determinano la scansione delle giornate, dove le
donne si riuniscono per condividere quello che possono, dal cambio di
stagione al lutto, non così inevitabile, visto che Quando gli
uomini sono via la destinazione è l'Iraq. La percezione della
guerra viene amplificata e distorta dalla lontananza, evidente nella
storia di Camp Liberty, che sovrappone due trame e due luoghi:
Baghdad e casa (casa è Fort Hood, Texas) con un punto di vista
sbilenco, perché la distanza deforma la prospettiva e quando sei là
vuoi essere qui, e viceversa, mentre gli altri possono soltanto
aspettare. In modo simile, Dove si spezza l'onda racconta le
ambiguità che crea la separazione, l'equivoco o il tradimento, le
comunicazioni (digitali), la tensione ogni volta che c'è un attacco,
l'angoscia per il dispiegamento e le titubanze per il ritorno, perché
anche se il presidente dice “missione compiuta”, gli ingranaggi
della guerra hanno appena cominciato a girare. Il modello è proprio
quello di Quando gli uomini sono via: un racconto solido,
sorretto da una scrittura schematica, fatta di frasi brevi, limate e
corrette come se Siobhan Fallon cercasse di rendere chiaro “il
senso di una vita in sordina”, un tema che chiaro non sarà mai. Il
tentativo è inconsueto e lodevole: la guerra è umana perché la
fanno gli uomini ed è disumana perché non sono in grado di
sopportarla e la prospettiva di Siobhan Fallon è senza dubbio
originale, così come l'idea di disseminare i personaggi tra i
racconti, ognuno con una peculiare sofferenza e tutti collegati da
quello che James Hillman definiva “lo stato marziale dell'anima”.
Questa specifica deformazione coinvolge le famiglie, a partire dalla
fatica, dalla pazienza e dalla resistenza femminile che sono il vero,
sostanziale background di Quando gli uomini sono via.
L'eroismo è rincorrere i figli che scappano, suonare alla porta di
una vedova, cucinare, pulire, riassettare e mantenere la linea come
se “home sweet home” fosse soltanto un'altra trincea. Poi Siobhan
Fallon compone le singole storie in modo meccanico, limitandosi allo
stretto indispensabile, almeno per quanto riguarda il tono e il
ritmo, come se Quando gli uomini sono via fosse il diario
della vita quotidiana nella base, e, in effetti, in gran parte è
proprio così. Se da un punto di vista stilistico rimane sospeso,
anche la concezione dei motivi per cui la vita è stata messa tra due
parentesi restano lontani, come se fosse un esercizio di rimozione o
una forma di autodifesa. Per dire, Phil Klay in Fine missione,
pur attingendo all'intuizione di Quando gli uomini sono via,
qualche sforzo in più l'ha fatto.
sabato 11 luglio 2015
Ernest Hemingway
Quando
il vecchio prende il mare in cerca più di fortuna che di pesca “era
troppo semplice per chiedersi quando avesse raggiunto l'umiltà. Ma
sapeva di averla raggiunta e sapeva che questo non era indecoroso e
non comportava la perdita del vero orgoglio”. Il vecchio e il
mare comincia proprio da lì, da quella profonda reciprocità con
il suo protagonista e poi, scolpito frase per frase, detta i
movimenti degli esseri umani e animali con onde regolari di
linguaggio, quasi un battito cardiaco che sottolinea la storia, più
che raccontarla. Il romanzo in sé rimane straordinario per la luce
che Hemingway ha saputo cogliere, risparmiando le parole e
moltiplicando gli sforzi per farci sentire lì, sulla barca di
Santiago, indifesi e ostinati in mezzo al mare. L'odissea di Santiago
è tutto: è metaforica, è simbolica, e nella sua essenzialità, è
l'espressione della lotta per la sopravvivenza e insieme per la
convivenza con “la bandiera di una sconfitta perenne”, dove la
distinzione tra preda e predatore è invisibile. Nel tripudio di
elementi naturali, dal sole al vento ai celenterati compresi in tutta
la biologia marina, che conoscono soltanto la vita e la morte,
l'inizio e la fine, Hemingway innesta l'elemento più umano, il
fallimento, ovvero “che cosa sa fare un uomo e che cosa sopporta un
uomo”. Come Santiago cerca la posizione e la direzione nella sua
barca in mezzo all'oceano, Hemingway si orienta passo dopo passo e
con Il vecchio e il mare trova e inquadra con sublime
precisione nei dettagli, nell'atmosfera, nelle sensazioni trasmesse
dalla sua scrittura quell'empatia per i personaggi che è la stessa
per un concreto residuo di dignità. William Faulkner lo articolò in
modo più elaborato nella sua recensione: “Finora i suoi uomini e
donne si erano fatti, si erano formati con la stessa argilla; le loro
vittorie e sconfitte erano nelle loro mani, soltanto per provare a se
stessi fino a che punto potevano essere duri. Ma questa volta ha
scritto sulla pietà: su qualcosa che da qualche parte li ha creati
tutti, il vecchio che doveva catturare il pesce e poi perderlo, il
pesce che doveva essere catturato e poi perduto, i pescecani che
dovevano derubare il vecchio del suo pesce; li ha creati tutti e li
ha amati e ha avuto pietà per tutti”. Non è solo il confronto tra
Il vecchio e il mare. E' tutta una percezione della frugalità
della vita, del tessuto di cicatrici che distingue la pelle, il volto
di Santiago, dei giorni calcolati in funzione della fortuna (o,
meglio, della sua assenza), persino un certo fatalismo di fronte
all'insondabile voracità dei pescecani. L'abilità di Hemingway sta
nello schierarci tutti stiamo dalla parte di Santiago mentre Santiago
si identifica con il mare, con il pesce, con un cielo pieno di
stelle, che per fortuna non dobbiamo cacciare. Un suo giovane
ammiratore, Mark Sullivan, non senza una certa simpatia, l'ha
definito “il prodotto di un geniaccio”, e la pratica definizione
rende il merito a un narratore che con Il vecchio e il mare ha
avuto il coraggio di scrivere come “il dolore non deve avere
importanza per un uomo”. Non sono in molti, ad averlo detto.
mercoledì 8 luglio 2015
Mark Sullivan
L'adolescenza
è già una twilight zone piuttosto intricata, se poi è infestata da
fantasmi come capita nel corso della storia di Jonah, è facile che
diventi un inferno. L'assortimento di apparizioni è variopinto:
dallo spirito del padre a quello di un danzatore che canta (e balla)
Stayin' Alive, non senza una certa ironia, bastano e avanzano
a spiegare che “i fantasmi disorientavano, poiché non sembravano
esistere regole che governassero il loro comportamento”. Jonah
tenta di conviverci, anche se non è la missione adatta a un
adolescente che deve già affrontare tutta una speciale “preparazione
emotiva”. Gli ectoplasmi non sono l'unica presenza distorta nella
sua vita, che tende a sdoppiarsi quando si addormenta con una
velocità da narcolettico e scopre che “nei sogni non c'era niente
d'insolito, a parte la loro straordinaria nitidezza e il fatto che lo
lasciavano rinvigorito. E per questo motivo non ne parlava con
nessuno”. Le sue avventure le condivide con l'inseparabile amico
Ross, i contrasti con la madre Susan, tanto apprensiva quando
evanescente, e in questa rete di connessioni e legami, secondo lo
stesso Mark Sullivan, “i fantasmi non sono che la manifestazione
esteriore delle insicurezze e della fragilità dell'adolescente
Jonah”. In questo senso, rende bene nelle peripezie di Jonah
quella condizione precaria, vacua, irridente che si riflette
nell'ondeggiare insensato degli spettri e si traduce in un linguaggio
grezzo, caotico, anche acerbo, degno di un esordio che arriva con il
proposito di scompigliare un po' le regole del gioco. A questo stadio
contano molto di più le idee e qui ce ne sono parecchie che
fluttuano attraverso gli ectoplasmi, a partire dalla loro connivenza
con il tubo catodico della televisione fino all'identificazione con
la fragilità dell'adolescenza e lo scontro con l'impenetrabilità
del mondo degli adulti. Jonah e i suoi fantasmi sono quasi archetipi
e lo svolgimento caotico, episodico del romanzo è una diretta
conseguenza della rispettiva instabilità. I fantasmi di Mark
Sullivan non hanno le fondamenta scientifiche di quelli di Richard
Matheson né i contorni romantici di Stephen King di cui Mark
Sullivan condivide la concezione del fantastico come “la
celebrazione di quelli che sentono di poter esaminare la morte perché
essa non risiede ancora nei loro cuori”. A quel punto Mark Sullivan
mette i fantasmi su un fondale fluttuante rispetto alla storia di
Jonah e l'evoluzione naturale li trasforma in proiezioni della sua
delicata condizione: sono sornioni, (a volte, proprio idioti) vanno e
vengono senza meta e senza motivi, solo col progredire della sua
percezione e della sua consapevolezza le creature cominciano a
trasformarsi e la loro metamorfosi racconta infine che solo il dolore
è reale. Con un tocco non indifferente di psichedelia, Con chi
parli, Jonah? è un esordio
stravagante soltanto in apparenza, una divagazione molto intuitiva
nel fantastico, utilizzato come strumento per condurre un romanzo di
formazione per vie insolite, eccentriche ed accattivanti.