Con
l'età, Frank Bascombe è diventato “un incidente ambulante in
attesa di verificarsi” e, alla ben nota, disincantata saggezza, ha
aggiunto un tono più pungente. Sarà l'elettricità lasciata
nell'aria dall'apocalittico passaggio di Sandy (ed è curioso che
l'uragano che ha devastato il New Jersey abbia preso il nome da una
delle più tortuose canzoni dell'epopea springsteeniana), ma non qui
c'è nulla di crepuscolare e/o consolatorio. Anzi, il clima dopo la
tempesta è più conflittuale che mai, anche se l'amplomb di Frank
Bascombe, in evidente collaborazione con Richard Ford, fa di tutto
per dissimularla perché “ci vuole del genio per rendere
interessante la realtà”. Se l'incipit appare una logica
conseguenza di Lo stato delle cose, la vista delle rovine dove
l'oceano ha ripreso il suo spazio (“Sono qui”) è già un segnale
inequivocabile di un passo più lungo perché riporta “l'atmosfera
di un disastro senza limiti”, dove il ripristino imposto dagli
eventi naturali si sovrappone alla desertificazione artificiale, il
landscape trasformato in manscape, senza speranze e con
buona pace dei mistici del New England, tanto che Frank Bascombe dice
che “è un mistero come ne usciremo prima che l'ultimo metro
edificabile sia coperto di cemento e non resti più un posto dove
andare, se non lontano di qui e a fondo”. E' chiaro che Frank
Bascombe si sente al capolinea con tutte le caratteristiche peculiari
del momento e in questo Richard Ford si associa alla lunga sequenza
degli “animali morenti” di Philip Roth, solo che c'è una sorta
di osmosi con il suo personaggio. Non è proprio un alter ego, anche
se Richard Ford e Frank Bascombe hanno moltissimo in comune, più di
tutto il fatto la consapevolezza che “il mondo diventa più piccolo
e più concentrato quanto più a lungo vi restiamo”. E' proprio
l'attitudine a scovare l'invisibile e in questo senso a “essere
disponibile per ciò che non è evidente”, e così è sistemato
anche chi sostiene che qui non succede mai niente. Anche l'ultimo
capitolo della collezione di Frank Bascombe non si smentisce e si
snoda attravero una serie di incontri in cui si accorge che “noi
abbiamo solo ciò che abbiamo fatto ieri, ciò che facciamo oggi e
ciò che potremmo fare ancora. Più quello che pensiamo di tutto ciò.
Ma nient'altro: niente di duro o che somigli a un nocciolo. Non ho
mai visto la prova che esista qualcosa di diverso. Anzi, ho visto il
contrario, una vita altrettanto feconda e imperscrutabile, seguita
dalla fine”. La differenza viene a galla a questo punto e Richard
Ford sa usare il suo tatto, sapendo che “le parole possono anche
essere gli emissari più deboli dei nostri sentimenti” per
affrontare l'unica certezza. Lo dice persino con garbo: “La morte.
Il dolore. La salvezza. Che sballo, quando ci pensi bene” lascia
filtrare attraverso Frank Bascombe, un personaggio per cui è
impossibile non provare simpatia, soprattutto perché, per ironia
della sorte, nel suo declino diventa a tutti gli effetti Richard
Ford. Nella sfumatura finale infatti torna a ricordare il suo
tentativo di diventare uno scrittore, all'inizio di tutto, all'epoca
di Sportswriter. Richard Ford l'aveva lasciato fallire e
adesso Frank Bascombe sembra rimproverarglielo. Un gioco di specchi
che si può permettere soltanto un grande scrittore perché siamo
circondati soltanto da noi stessi e distinguere i riflessi, spesso
gli abbagli, è ciò che separa la letteratura dall'intrattenimento.
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