L'idea
può sembrare banale: una cavalcata ai confini dell'America, seguendo
le linee già tracciate dalle Strade
blu
di William Least Heat-Moon, richiamato senza esitazioni fin dalle
prime pagine. Non senza una certa ironia, la stessa Amanda Petrusich
definisce It
Still Moves
“un saggio su un viaggio in macchina ascoltando dischi fatti da
gente con la barba”. Qualcosa di vero c'è: è una specie di road
movie tra i luoghi fondamentali della musica americana, inseguendo
l'ossessione per la purezza e l'autenticità, che sono sempre un
miraggio perché il più delle volte “crediamo a dei manufatti che
rappresentano attività ed emozioni che la maggior parte di noi non
ha mai vissuto in prima persona”. Questo vale in modo particolare
quando si parla di strumenti, studi di registrazione, negozi di
dischi e tutto l'armamentario necessario alla creazione e alla
riproduzione della musica e Amanda Petrusich è molto intuitiva nel
suo vagabondaggio perché sa benissimo che “qui il punto non è il
sound, ma il messaggio e il gesto”. A priori, è una questione di
identità, di collimare i fenomeni umani e storici con i paesaggi e
le strade e It
Still Moves
spiega molto bene il fascino della musica americana in tutte le sue
declinazioni geografiche, temporali e culturali. Una magia che non è
facile da cogliere, né da descrivere, e che è avvolta da un'aura di
misteriose contraddizioni perché “è così facile lasciarsi
sedurre dal semplice, organico fascino della vecchia America,
trasformare il kitsch in merce, collocare i banjo al di sopra dei
sintetizzatori, gli empori al di sopra dei centri commerciali. E'
sempre più semplice diventare nostalgici per il passato che
impegnarsi a reinventare delle tradizioni spente e svuotate per un
mondo nuovo, e farlo in un modo che sia altrettanto significativo
adesso di allora”. In questo c'è anche il senso ultimo del titolo
di It
Still Moves,
che porta Amanda Petrusich a Graceland, (è inevitabile) agli
Appalachi e alla Carter Family, a Nashville e a Hank Williams, allo
Smithsonian e a Woody Guthrie e a scegliere come unico compagno di
viaggio, adagiato sul sedile posteriore, il bellissimo cofanetto
dell'Anthology
Of Folk American Music
di Harry Smith visto che “la prima musica folk americana ha un
suono che non assomiglia a nient'altro al mondo”, e su questo non
ci piove. Il bagaglio aumenta tappa dopo tappa e così si raffina
anche la consapevolezza di Amanda Petrusich. Arrivata alle battute
finali, è piuttosto esplicita quando fa notare come “la musica
americana rispecchia il paesaggio da cui proviene; e man mano che
quel paesaggio cambia, inghiottito dallo sviluppo e dai disastri
industriali e ambientali, man mano che l'aria che inspiriamo ed
espiriamo con i nostri polmoni si riempie di nuove particelle, man
mano che l'acqua che beviamo vede i suoi livelli di fluoruro regolati
e i minerali contenuti modificati, diventa perfettamente sensato che
la musica americana si faccia più patinata, più costruita e meno
reale”. Il viaggio di It
Still Moves
termina a Brooklyn: il capolinea, in fondo, è ancora il primo
approdo e lì tra un isolato e l'altro dove dove l'avant-garde è
consuetudine, Amanda Petrusich sembra tornare a riflettere sul senso
ultimo, in apparenza vago e surreale, di “canzoni e autostrade
perdute”. E' curioso che la sua opinione più intima, la più
sincera, si sveli nella descrizione di certa pasticceria homemade
divorata lungo la strada: “Non m'importa se è grossolana. E' anche
deliziosa”. Vale anche per quella
musica americana.
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