Bill Bryson torna in America
ripartendo dal paradigma di Tzevan Todorov, che evidenziava la casualità della
scoperta originaria. Come quello di Cristoforo Colombo, anche il suo comeback è
un po’ da rabdomante, come se cercasse qualcosa, senza sapere bene cos’è: l’America
perduta di Bill Bryson, che ha una sua
grazia e tutto un suo sense of humor (l’accezione britannica l’ha guadagnata
sul campo) nel raccontarla, è sopratutto una questione personale perché non
appena è stato capace di pensare che “doveva esserci altro nella vita” oltre a
Des Moines, Iowa, è partito assecondando l’urgenza di trasferirsi in Europa.
Non tanto nella versione standard dell’anno sabbatico alla ricerca delle
proprie radici, quando inseguendo il sogno di “vivere in un appartamento che si
affacciava su un parco nel cuore della metropoli, e vedere dalla mia stanza una
miriade di colline e tetti”. Al suo rientro, una decina d’anni dopo, l’America
che ha lasciato non c’è più e il suo pellegrinaggio on the road è una specie di
risarcimento, a se stesso, in primis. Des Moines è il nodo di un tracciato,
sulla mappa una specie di otto rovesciato, un infinito piuttosto irregolare
attorno alla costa atlantica, che Bill Bryson segue attraversando le periferie
e inanellando una smalltown dopo l’altra, cercando una città ideale e
incrociando un inedito panorama. Pur rimanendo sulla superficie, la parziale
ricognizione ha il pregio di disporre sulla carta molti coriandoli della
cultura e (in particolare) della sottocultura americana: le insegne, le tavole calde, i cartelloni
pubblicitari, i cartelli stradali, i bizzarri nomi delle cittadine “in the
middle of nowhere” e tutti gli ammennicoli ben noti ai turisti per caso. Bill
Bryson non è sfiorato dal tentativo di un’interpretazione più approfondita e il
suo, per quanto lungo e articolato è un viaggio monco, anche da un semplice
punto di vista geografico, perché manca il Texas e New Orleans, una parte non
relativa dell’America, vecchia o nuova che sia. E’ più la cronaca della “sua” America
perduta e in questo Bill Bryson non perde
un colpo uno: la lettura può essere anche molto piacevole, presa così, con una
certa leggerezza e adeguandosi alla nostalgia di un’America destinata a svanire
sullo sfondo. Per comprendere i motivi serve qualcosa in più, perché come
diceva Joan Didion: “Un luogo appartiene per sempre a chi lo reclama con più
forza, lo ricorda più ossessivamente, lo strappa da se stesso, gli dà forma lo
interpreta in modo così radicale da ricrearlo a sua immagine”. E’ solo così che
si può spiegare la discrepanza tra il viaggio di Bill Bryson e l’America
perduta, come una sottile distanza tra una
mappa imprecisa e la geografia reale. Più di tutto, è nell’incongruenza tra
storia, passato e memoria dove l’America si perde e qui Bill Bryson ha visto giusto
quando scrive che, “in generale, anche se generalizzare è cosa sempre
pericolosa, gli americani venerano il passato fintanto che sia fonte di denaro
e non manchi di aria condizionata, di parcheggio gratuito e di altre comodità
essenziali. Conservare il passato per il passato non è un concetto molto
diffuso. Al sentimento viene lasciato poco spazio”. America perduta si riflette proprio in queste parole, a metà strada
tra la malinconia e il sarcasmo, senza arrivare alla meta.
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