Bill Bryson torna in America
ripartendo dal paradigma di Tzevan Todorov, che evidenziava la casualità della
scoperta originaria. Come quello di Cristoforo Colombo, anche il suo comeback è
un po’ da rabdomante, come se cercasse qualcosa, senza sapere bene cos’è: l’America
perduta di Bill Bryson, che ha una sua
grazia e tutto un suo sense of humor (l’accezione britannica l’ha guadagnata
sul campo) nel raccontarla, è sopratutto una questione personale perché non
appena è stato capace di pensare che “doveva esserci altro nella vita” oltre a
Des Moines, Iowa, è partito assecondando l’urgenza di trasferirsi in Europa.
Non tanto nella versione standard dell’anno sabbatico alla ricerca delle
proprie radici, quando inseguendo il sogno di “vivere in un appartamento che si
affacciava su un parco nel cuore della metropoli, e vedere dalla mia stanza una
miriade di colline e tetti”. Al suo rientro, una decina d’anni dopo, l’America
che ha lasciato non c’è più e il suo pellegrinaggio on the road è una specie di
risarcimento, a se stesso, in primis. Des Moines è il nodo di un tracciato,
sulla mappa una specie di otto rovesciato, un infinito piuttosto irregolare
attorno alla costa atlantica, che Bill Bryson segue attraversando le periferie
e inanellando una smalltown dopo l’altra, cercando una città ideale e
incrociando un inedito panorama. Pur rimanendo sulla superficie, la parziale
ricognizione ha il pregio di disporre sulla carta molti coriandoli della
cultura e (in particolare) della sottocultura americana: le insegne, le tavole calde, i cartelloni
pubblicitari, i cartelli stradali, i bizzarri nomi delle cittadine “in the
middle of nowhere” e tutti gli ammennicoli ben noti ai turisti per caso. Bill
Bryson non è sfiorato dal tentativo di un’interpretazione più approfondita e il
suo, per quanto lungo e articolato è un viaggio monco, anche da un semplice
punto di vista geografico, perché manca il Texas e New Orleans, una parte non
relativa dell’America, vecchia o nuova che sia. E’ più la cronaca della “sua” America
perduta e in questo Bill Bryson non perde
un colpo uno: la lettura può essere anche molto piacevole, presa così, con una
certa leggerezza e adeguandosi alla nostalgia di un’America destinata a svanire
sullo sfondo. Per comprendere i motivi serve qualcosa in più, perché come
diceva Joan Didion: “Un luogo appartiene per sempre a chi lo reclama con più
forza, lo ricorda più ossessivamente, lo strappa da se stesso, gli dà forma lo
interpreta in modo così radicale da ricrearlo a sua immagine”. E’ solo così che
si può spiegare la discrepanza tra il viaggio di Bill Bryson e l’America
perduta, come una sottile distanza tra una
mappa imprecisa e la geografia reale. Più di tutto, è nell’incongruenza tra
storia, passato e memoria dove l’America si perde e qui Bill Bryson ha visto giusto
quando scrive che, “in generale, anche se generalizzare è cosa sempre
pericolosa, gli americani venerano il passato fintanto che sia fonte di denaro
e non manchi di aria condizionata, di parcheggio gratuito e di altre comodità
essenziali. Conservare il passato per il passato non è un concetto molto
diffuso. Al sentimento viene lasciato poco spazio”. America perduta si riflette proprio in queste parole, a metà strada
tra la malinconia e il sarcasmo, senza arrivare alla meta.
venerdì 27 febbraio 2015
martedì 24 febbraio 2015
David Tell
Fin dagli albori delle prime formazioni
organizzate sul campo di battaglia, la disciplina militare si distingue per
quello che è, “paranoia istituzionalizzata”, e la definizione, nella sua
crudità, è l’anima dura e spietata di Io sono un’arma. Scritte con lo
pseudonimo di David Tell, le “memorie di un marine” sono una lunga apnea di
seicento pagine in un universo parallelo dove un castello di regole kafkiane,
un’incessante sequela di attività fisiche, privazioni, umiliazioni, insulti e
ordini urlati a squarciagola sono destinati a forgiare la “punta della lancia”
dei guerrieri americani. Dall’addestramento al dispiegamento in un qualche
teatro di guerra, David Tell annota con una precisione maniacale tutte le
marce, i poligoni, gli infortuni, le risse, le fatiche, le ferite, le attese.
Il processo per diventare un marine, come in ogni esercito, più di ogni altro
corpo, presuppone una fedeltà assoluta. L’obbedienza viene data per scontata e
l’addestramento è una profonda ristrutturazione psicologica: il corpo dei
marines decide, provvede e non concede (nulla). E’ tutto un modulo, una regola,
una marcia, uno schema. La logica (paradossale) è concentrata nel motto non
scritto dei marines, “sbrigati e aspetta” e, se ne accorge anche David Tell,
“quando non c’è un sistema concreto per misurarlo il tempo diventa un flusso
indistinto”. Tutto è distinto da un conto alla rovescia: si tratti di montare e
smontare un fucile, rifare il letto (un’ossessione) o consumare un pasto, c’è
sempre qualcuno a contare da dieci a zero ed è comprensibile l’ammissione di
David Tell quando dice che “in certe occasioni era stato difficile capire quale
fosse il mondo reale”. Più che Full Metal Jacket, la condizione è sempre
quella di Comma 22
e da lì si può dire quello che si vuole, ma non si scappa: condizionata dal
gusto insistente della burocrazia militare per gli acronimi, la truppa ne ha
coniato uno che riassume il famoso paradosso di Joseph Heller in SNAFU, che sta
per “situation normal, all fucked up” (situazione normale, tutto fottuto). A
questa sigla si accompagna un’altra frase ricorrente in Io sono un’arma con cui David Tell
sottolinea uomini, comportamenti, materiali che oltre ad essere SNAFU, non sono per niente adatti,
“neanche per i nostri standard” e gli standard sono molto, molto bassi. Essendo
convinti i marines di essere una forza d’élite e, ancora di più, di essere nati
prima degli Stati Uniti (in effetti, il dato storico è quello), il loro è un
microcosmo impenetrabile e David Tell lo spiega con una certa efficacia quando
dice che “gli unici argomenti di discussione in caserma erano la guerra e la
morte”. Meccanico, macchinoso e ripetitivo, come se fosse a sua volta un
manuale, e come con tutta probabilità non si poteva scrivere altrimenti, Io
sono un’arma
rispecchia in modo realistico, quasi documentaristico, la vita dei soldati, e
di quei particolarissimi soldati che sono i marines ed è minuzioso e accurato
in tutti i dettagli, compresa l’amarezza con cui David Tell prende infine
commiato dicendo: “Può darsi che l’America ami i suoi eroi, ma ama ancora di
più crocifiggerli”. Non è facile da mandare giù.
lunedì 23 febbraio 2015
Joan Didion
La prima volta che Jack Lovett incontra Inez Christian, lei è soltanto una ragazza abbandonata dai genitori con la sorella, Janet. I loro destini, scivolando in modo impercettibile ma costante, come placche tettoniche, torneranno a sovrapporsi vent’anni dopo, in circostanze rocambolesche. Nel frattempo, Inez Christian ha sposato Harry Victor, un politico in carriera, e con lui, il suo portavoce, Billy Dillon, capace di dissimulare la fuga di Paul (il papà) e poi di Carole (la mamma), la prima crepa nell’albero genealogico dei Christian, in un riassunto a suo modo cangiante: “Compagni in un matrimonio sorprendentemente contemporaneo in cui si garantirono reciprocamente la libertà di seguire interessi assai vasti”. E’ solo uno dei numerosi fuochi d’artificio di Democracy che è brillante, acuto, e nello stesso tempo leggero e sempre attinente alla storia e alla deriva postcoloniale nell’oceano Pacifico con tutte le ambiguità, le tensioni e i drammi di un’era al crepuscolo. Il modello dei movimenti tellurici si può applicare anche alle vite ai suoi personaggi e al corso degli eventi storici. Pur muovendosi secondo uno schema in apparenza caotico e imprevedibile, la sintesi di Democracy è efficace per tutto l’arco del romanzo, per quanto la stessa Joan Didion ammette che “non solo ho sempre avuto problemi a distinguere tra quello che è veramente successo e quello che sarebbe potuto succedere, ma continuo a non essere convinta che la distinzione, ai miei fini, abbia qualche importanza”. Fin dall’incipit, Joan Didion è esplicita, eppure gioca nascondendo le sue pedine: nella prima parte di Democracy piazza quasi tutto l’album fotografico della famiglia Christian solo per creare uno spazio in cui far scivolare Jack Lovett. Il personaggio è ambiguo (molto) e ci vuole una certa nonchalance a calarlo nel ruolo di protagonista. Il suo compito, tra l’altro, è quello di introdurre Inez Christian e a questo punto, quasi senza accorgersene, si sta già nuotando nel mare opaco e turbolento di Democracy. Lo sfondo del Vietnam in tutte le sue gradazioni resterà lì fino alla fine, l’apertura a sorpresa è solo per sottolineare che la storia d’amore, quella tra Inez Christian Jack Lovett resta sospesa sull’oceano, tra un aereo e l’altro, e nel tempo solo che “nel 1975 il tempo non stava più accelerando, stava crollando, ricadeva su se stesso come una stella che si sta disintegrando si contrae in un buco nero, e davanti a tutto quello che non avevo imparato riuscivo soltanto a raccogliere frammenti di poesie che ricordavo malamente”. Questo presuppone un ulteriore livello di profondità nel corso di Democracy ed è nel rapporto tra Joan Didion e il lettore che lei riassume così: “Il cuore del racconto è un’ellisse calcolata, un contratto tacito fra lo scrittore che promette di sorprendere e i lettori che accettano di essere sorpresi”. Duecento pagine dopo, tutti gli strati di Democracy si incastrano alla perfezione e con una chiarezza davvero straordinaria, frutto della considerazione ultima che Joan Didion ha del suo lavoro: “Se avessi avuto in dono un accesso anche solo limitato alla mia mente non avrei avuto alcun motivo di scrivere. Scrivo esclusivamente per comprendere cosa sto pensando, cosa sto cercando, cosa vedo e cosa significa per me. Quello che desidero e quello di cui ho paura”. Molto moderno, molto utile, perché tra le righe contiene anche un corso di scrittura creativa, Democracy è qualcosa in più di un (bellissimo) romanzo.
mercoledì 18 febbraio 2015
Herman Melville
C’è un mistero nell’inseguimento
di Moby Dick che hanno tentato in molti
di afferrare, come se il senso stesso del romanzo fosse a sua volta
un’irraggiungibile balena bianca. Nei suoi Classici americani D. H. Lawrence proponeva una prima idea, poco allineata
e per questo molto interessante: “Come racconto simbolico dell’itinerario di
un’anima è irritante, come storia marina è una meraviglia: c’è sempre qualcosa
di irreale nelle storie marine, ed è naturale”. Sul particolareggiato excursus
biologico era d’accordo anche Cesare Pavese, che però lo vedeva come una
partenza, “un prodigio di costruzione per cui via via l’atmosfera gioconda e
puritanesca dell’inizio e poi quella scientifica delle lunghe spiegazioni
centrali, si vengono a fondere nell’ultima parte in uno spirito di lucida e
gagliarda temerità quasi mitica”. Su questo c’è unanimità ed è Melville stesso
a spiegare che “l’evento più meraviglioso di questo libro non soltanto è
appoggiato da chiari fatti del tempo presente, ma che queste meraviglie (com’è
di tutte le meraviglie) sono mere ripetizioni dei secoli”. Il carattere
classico sottolineato da Harold Bloom nei suoi legami con Cervantes e
Shakespeare (più di tutti) e ripreso dall’allieva prediletta di Pavese,
Fernanda Pivano, che ne ha raccolto “un senso cosmico di dramma sacro”, è
innegabile perché Moby Dick
contiene tutti gli elementi di ogni storia umana, la vendetta, il viaggio,
l’ossessione, i “miraggi” di quella che ancora D. H. Lawrence ha definito “una
folle impresa”. Il carattere maniacale del capitano Achab, “pronto a
sacrificare tutti gli interessi umani a quella sua sola passione”, interpreta
in modo inequivocabile una ben strana solitudine. La sua caccia a Moby
Dick è la stessa di tutti quelli che
“immobili, come silenziose sentinelle, tutt’intorno alla città, stanno migliaia
e migliaia di mortali perduti in fantasticherie oceaniche”. La forma letteraria
e metaforica è autosufficiente: Moby Dick non aspetta e, una volta immersi nella lettura, ci si accorge in
fretta che “ormai siamo lanciati audacemente sull’abisso, ma presto saremo
perduti nelle sue immensità senza rive e senza porti”. La contraddizione è
soltanto apparente e fugace, si distingue quello che Cesare Pavese chiamava un
“senso continuo dell’enorme, del sovrumano” e nello stesso tempo umano troppo
umano quando Melville sentenzia: “Nel giro di un istante, i grandi cuori
condensano qualche volta, in una sola fitta acutissima, la somma di tutte
quelle scialbe sofferenze benevolmente disperse lungo tutta la vita di uomini
più deboli. E così simili cuori, benché sommari in ciascun patimento, pure, se
gli dèi così vogliono, ammassano nell’esistenza un secolo intero di dolore,
tutto fatto delle intensità di singoli istanti: poiché, anche nel loro centro
senza punto, queste nobili creature contengono tutta la circonferenza delle
anime inferiori”. Ecco, Moby Dick
si spiega da solo, e in fondo l’ha capito anche D. H. Lawrence quando ha visto
in Moby Dick “la nostra civiltà
in fuga da tutti porti” per “l’ultima fantomatica caccia”. Resta la parola ai
balenieri, perché “dicon loro, quando s’incrocia con una nave vuota, se il
mondo non può dar nulla di meglio, vi dia almeno un buon pranzo. E questo
finisce il boccale”. Può bastare, restando immutabile il paradosso di Moby
Dick, l’eterna illusione, da cui ci divide
un oceano chiamato vita, o realtà, è lo stesso.
lunedì 16 febbraio 2015
Kurt Vonnegut
Se c’è stato un libero pensatore sul finire
ventesimo secolo, è proprio lui, Kurt Vonnegut. Nei suoi discorsi ai laureati,
in un bel pezzo di storia americana che va dal 1978 al 2004, allinea
preoccupazioni e idee (parecchie) senza perdere un filo della sua caustica
ironia. Le sue iperboli e le sue esortazioni rispecchiano una verve
inimitabile: temi e frasi si ripetono e si rincorrono (anche se è curioso
andare a spulciare le sottili variazioni in corso d’opera) e comunque Kurt
Vonnegut si conferma un oratore arguto e frizzante, non molto diverso dallo
scrittore, sempre ispirato e senza tante remore nel dire ciò che pensa. Lo
spiega nel dettaglio anche Dan Wakefield nell’introduzione a Quando siete
felici, fateci caso:
“Nel suo modo di parlare e di scrivere, Vonnegut riusciva sempre a tirare fuori
le parole e le espressioni schiette che la gente pensava ma non diceva, le idee
che esprimevano sensazioni intime, che facevano vacillare i preconcetti e
spingevano il lettore a guardare le cose da un’angolazione diversa. Era quello
che puntava il dito sulla questione fondamentale di cui nessuno parlava, quello
che vedeva che il re era nudo”. Per essere americano, e in America, e nello
specifico tra le mura degli ambienti accademici, tradizionalisti e conservatori
per definizione, non è poco, anzi. Kurt Vonnegut è esplicito, senza freni,
limiti o censure: “Eccola, in breve, la mia posizione politica: smettiamo di
dare alle multinazionali e alle diavolerie moderne ciò di cui hanno bisogno, e
ricominciamo a dare a noi esseri umani ciò di cui abbiamo bisogno”. Quando si
tratta di affrontare gli spettri e gli abusi casalinghi, che si chiamino
Richard Nixon o George Bush, Kurt Vonnegut usa la sciabola, che poi è quello
che ci vuole: “Non c’è la minima speranza che l’America possa diventare
generosa e ragionevole. Perché il potere ci corrompe, e il potere assoluto ci
corrompe nella maniera più assoluta”. En passant, tra un aneddoto e l’altro,
perché ci tiene sempre a strappare un sorriso, cita Edward Gibbon (“La storia,
di fatto, è poco più che la cronaca dei crimini, delle follie e delle disgrazie
dell’umanità”), regala una sintesi memorabile della storia (e del senso ultimo)
del blues, racconta di quando ha fumato con Jerry Garcia, elenca i suoi eroi
(letterari), tra cui Carl Sandburg e Edgar Lee Masters. Convinto che “uno
scrittore è innanzitutto un insegnante”, Kurt Vonnegut infila sempre qualche
utile suggerimento: “Praticare un’arte, non importa a quale livello di
consapevolezza tecnica, è un modo per far crescere la propria anima, accidenti.
Cantate sotto la doccia. Ballate ascoltando la radio. Raccontate storie”. Se
scegliete l’ultima opzione, bisogna rispettare la regola numero uno (e quanto
pare, l’unica): “Non usate il punto e virgola. E’ un ermafrodito travestito che
non rappresenta assolutamente nulla. Dimostra soltanto che avete fatto
l’università”. L’augurio finale è squillante, come si conviene, prima di
rompere le righe: “C’è un sacco di pulizia da fare. C’è un sacco di
ricostruzione da fare, sia a livello spirituale che materiale. E, ripeto, ci
sarà un sacco di felicità. Mi raccomando, rendetevene conto!”. Ci proveremo.
mercoledì 11 febbraio 2015
Tobias Wolff
E’ il 1965 e Guy Bishop lascia il
suo lavoro alla Boeing. La sua versione è che “l’azienda stava lasciando a casa
un po’ di gente”, ma la verità è che, nell’anno dell’esordio dell’operazione
Rolling Thunder, l’escalation dei bombardamenti sul Vietnam, il lavoro
nell’industria aeronautica proprio non mancava, anzi. Soltanto che Guy Bishop è
un sasso che sta rotola senza direzione e si lascia alle spalle i figli, i due
fratelli Philip e Keith. E’ il primo triangolo che si spezza nel racconto di
Tobias Wolff, aprendo le porte a destini diversi: Keith scomparirà sulla strada
verso San Francisco, mentre Philip resterà con la madre a soffrire, prima di
arruolarsi nell’esercito. La frattura non potrebbe essere più evidente e nelle
progressioni matematiche della narrativa di Tobias Wolff una nuova
triangolazione si riproduce attorno a Philip. Durante l’addestramento incontra
Hubbard e Lewis e con loro vive un momento di pura follia mentre montano la
guardia a un deposito di munizioni. L’episodio è solo uno dei tanti a rivelare
la sottile e non meno feroce critica nei confronti delle strutture militari a
cui Tobias Wolff non sfugge dai tempi in cui prestava servizio Nell’esercito
del faraone. Ecco, per esempio, come
descrive una giornata al poligono: “Sagome a grandezza d’uomo si alzavano e si
abbassavano mentre un battaglione di reclute sparava a raffica. I proiettili
passavano fischiando sopra i fossati dove eravamo accalcati e alla fine del
pomeriggio si capì che a vincere erano stati i bersagli”. Il segnale è eloquente,
il disorientamento, totale: Il colpevole usa le diverse prospettive da cui inquadra la storia, soprattutto nella
seconda parte, e il finale crepuscolare e malinconico, per mettere in risalto
un coacervo di menzogne e barriere emotive, di coscienze confuse e di
imposizioni gerarchiche, di rimpianti e di incomprensioni. Quando la caserma in
cui è incastrato Philip viene punteggiata da strani furti notturni, Il
colpevole diventerà l’ombra su sui saranno
proiettate tutte le tensioni. Tutti sanno che è lì, che è uno di loro, che è
solo una questione di tempo, e si scoprirà Il colpevole, ma proprio come fa con gli incastri tra i
personaggi, che si sganciano uno dopo l’altro, qualcuno sparisce sempre,
rendendo incomplete le sue figure geometriche, Tobias Wolff fa lo stesso con la
storia in sé, lasciando che si dischiuda nel finale, quando tutti credono sia
conclusa e coincida con il destino che aspetta Il colpevole, mentre diventano invece palesi i riti di passaggio,
la scoperta della vita, la morte che incombe, le linee tracciate che si
spezzano. E’ questo il metodo che Tobias Wolff usa con convinzione: la
scrittura è sinuosa e insinuante, la tensione è sempre a livello di guardia e
il ritmo incalzante, ma la prospettiva, all’inizio come alla fine, è spiazzante.
Non c’è alcuna forma di consolazione, i personaggi svaniscono in una foschia di
solitudine, le parole sono appena sufficienti a circoscrivere le emozioni, e la
loro utilità e insieme la loro impotenza è tutta lì. Amaro, amarissimo.
lunedì 9 febbraio 2015
Douglas Coupland
Allora,
Generazione X era apparso
come una visionaria proiezione del futuro. Oggi, sembra quasi un reperto
preistorico. Rimane un’istantanea di un peculiare segmento storico, utile a
capire come si evolvono forme di gergo e di linguaggio, e non è del tutto
illogico provare ancora a cercargli una giusta posizione. Pur con una sua
specifica valenza, per quanto frammentaria (e, a tratti, anche divertente),
essendo un quadro impressionistico, Generazione X si è ben presto sbiadito insieme al clamore
stagionale che lo impose. Il fallimento precoce, non tanto di una generazione,
quanto del suo momento di irripetibile gloria, era, come scrive Douglas
Coupland, “una sensazione di tenebra, ineluttabilità e incanto, una sensazione
sicuramente provata da moltissimi giovani fin dagli albori del tempo
nell’alzare la testa per guardare verso il cielo e vederlo spegnersi”. Quella tensione, quell’angoscia, sarà
riassunta in modo più efficace dal riff urticante di Smell Like Teen Spirit dei Nirvana, un urlo che rimarrà lì per
sempre, come un inno. La Generazione X, compressa nel presagio di un futuro grigio e monotono, non molto
diverso dal suo presente, aveva perso “la capacità di prendere le cose per
quello che erano”, e vagava nel vuoto. I
suoi limiti congeniti sono tutti lì eppure Douglas Coupland aveva
annusato la forma verbosa (più che verbale) del futuro che stava arrivando: è
il 1991, l’inizio della fine del secolo, si respira la tensione della
trasformazione e “nell’era elettrica abbiamo come pelle l’intera umanità” come
aveva scritto per tempo Marshall McLuhan. Si spiega così il senso di nostalgia
latente e paradossale che si sviluppa in Generazione X: non solo perché “la nostalgia è un’arma” come
recita uno degli slogan a margine, ma perché i suoi personaggi la provano anche
per qualcosa che non hanno vissuto ed è infatti avanti al memoriale monumento
dei caduti in Vietnam, la Generazione X capirà di non aver avuto storia. Proprio quell’anno, sarà
un’altra guerra, Desert Storm, la prima in Iraq, che trasformerà il villaggio
globale per sempre e, a saldo dei luoghi comuni e dei sequel, non altrettanto
fortunati, invecchiando Generazione X rimane una cartolina coerente di un universo destinato in eterno
alla relatività, per sua stessa ammissione: “Vedete, quando si appartiene al
ceto medio, bisogna vivere con la consapevolezza che si sarà ignorati dalla
storia. Bisogna vivere sapendo che la storia non patrocinerà mai le cause del
ceto medio, né mai gli concederà compassione. E’ il prezzo da pagare per le
comodità e il silenzio quotidiano. E per colpa di questo prezzo, ogni gioia è
sterile, e le tristezze non trovano conforto”. Adesso persino il “pensiero
minore” della Generazione X
(“Ormai non mi interessa più il successo o diventare un pezzo grosso. Voglio
solo trovare la felicità, e magari aprire una piccola tavola calda tutta mia
nell’Idaho”) o il “mcjob” (“Impiego a paga irrisoria, basso prestigio, bassa
dignità, bassa realizzazione e senza futuro, in genere nel settore dei servizi.
Considerato una scelta professionale soddisfacente da persone che non ne hanno
avute mai”) appaiono come segnali che arrivano da stelle ormai morte.
mercoledì 4 febbraio 2015
Henry Miller
L’idea fondamentale per comprendere a fondo Opus
Pistorum
e con ogni probabilità di gran parte dell’opera di Henry Miller l’ha spiegata
lui stesso in un'intervista a Robert Snyder citata nella postfazione di
Fernanda Pivano: “La ragione per cui ho parlato tanto del perverso, del brutto,
dell'immorale e del crudele è che volevo si sapesse quanto importanti siano
queste cose: importanti almeno quanto il bene. In realtà non ho fatto che
riprendere l’idea dell’accettazione sostenuta da Walt Whitman”. L'accostamento
al bardo di Foglie d’erba è tutto meno che profano perché in effetti
tutti i romanzi di Henry Miller sono una sorta di inno alla libertà
d’espressione, prima ancora che alla libertà sessuale. Una sorta di estensione
letteraria (infinita) del primo emendamento della costituzione americana. Lo
stesso Opus Pistorum, nel suo travagliato cammino di incesti, fellatio, orge e
depravazioni è uno straordinario atto di coraggio che vede nel sesso lo
strumento liberatorio per eccellenza, la lente attraverso cui è possibile
vedere e tenere viva “quella piccola scintilla di coscienza”, come la chiama lo
stesso Henry Miller. Parigi è la città perfetta per John Thursday o Jean Jeudi
o Gian Giovedì (dipende dalla lingua che si vuole usare) che è un protagonista
irrequieto e poco malleabile, sempre pronto a ficcarsi nei guai, anche più di
Henry Miller. L’espressione della joy de vivre è rutilante, all’ultimo spasmo,
eppure velata dalla consapevolezza che “viviamo in una terra di fantasmi. Il
mondo è mezzo morto prima di nascere. La gente sta a cavalcioni della sua vita
con un piede nella fossa e l’altro ancora infilato nell’utero”. Pagato dal suo
amico libraio Milton Luboviski, un dollaro a pagina (e una volta giunto in
fondo, Henry Miller gli disse: “Ecco la fine del libro. Spero che tu ci
guadagni tanto da pagarti l’affitto per qualche mese), Opus Pistorum è una cavalcata
erotica, folle e senza freni, tanto da lasciare attonito anche Henry Miller:
“Io mi prendo la testa fra le mani. Non c’è più religione. Non c’è più serietà.
La cosa mi è completamente sfuggita di mano”. Si capisce, così come sarebbe
logico, a questo punto, ricordare ancora una volta i processi e le censure che
ha subito (e non solo per Opus Pistorum) nonché le prese di posizione in suo
favore (da Saul Bellow a Ezra Pound, da Bernard Malamud a William Styron), ma
sarebbe un argomento degno di un intero saggio. Paradossalmente, le reazioni
isteriche delle accademie e delle istituzioni, che oggi si traducono
nell’indifferenza più totale, hanno avvalorato ancora di più la sua opera e
anche “una particella, una bizzarria di giovinezza” come Opus Pistorum (la definizione è di
Fernanda Pivano) assume i contorni di un romanzo dall’espressività
incontrollata, caotica, geniale ed estremamente vitale. “Qualunque cosa sia il
sesso è dall’altra parte del muro” scriveva Norman Mailer a proposito
dell’ossessione di Henry Miller e non è un mistero che Opus Pistorum sia un piccolo foro che
ne coglie tutta l’energia, la follia, la crudeltà e, in fondo, la bellezza.
martedì 3 febbraio 2015
Wallace Stevens
Le
Note verso la finzione suprema
hanno la forza di una confessione, l’eleganza inaudita di un poema classico e
la ruspante essenza di una ballata popolare. “Le giuste parole” di Wallace
Stevens costituiscono una terra comune tra la finzione e la realtà o una
trincea, per l’occasione, una forma di dialogo filosofico e un canto
accompagnato dal banjo, la cosa in sé, il reale e la sua armonia con
l’impossibile, dove “alla fine ciò che dovremmo trovare è la vita normale,
penetrare in ciò che è comune, riconciliarsi con la realtà. Il problema è che
la poesia è in gran parte una vicenda di trasformazioni”. Il filosofo desidera
essere il poeta, il poeta risponde con le parole alle idee, i versi vogliono
essere musica che “piomba sul silenzio come una sensazione, una passione che
proviamo, senza comprendere”. La finzione esiste già nell’atto di esistere.
Credere, in definitiva, significa avere fiducia in qualcosa di irreale, non
tangibile, meno ancora, verificabile. Anzi, “il primo passo verso una finzione
suprema dovrà essere quello di liberarsi di ogni finzione già esistente. Una
cosa risalta più chiara nell’aria pulita che se coperta di fuliggine”. Suprema ed estrema, la finzione è la linfa
vitale, essenziale, la cosa in sé e più della cosa in sé: è un modo, ovvero il modo, per percepire la realtà e la vita
(in sé). Il giocoso labirinto poetico porta in un rebus di parole dove le Note
verso una finzione suprema
diventano contraddittorie, ondeggiano come i riflessi di un miraggio, fluttuano
tra l’astrazione più criptica e il candore dell’ingenuità, tutto e il
contrario, al punto di dire che “ci sono cose di fronte alle quali volentieri
sospendiamo la nostra incredulità; se c’è in noi una istintiva volontà di
credere, a me pare che possiamo sospendere il dubbio riguardo alla finzione,
così come lo sospendiamo di fronte ad altre cose. Ci sono finzioni che sono
ampiamenti di realtà”. Wallace Stevens incanta perché non declama, sussurra in
continuazione, i suoi versi sono come quel vento che è l’unico modo con cui gli
alberi possono fare musica: intuitivi, leggeri, impalpabili, perfetti. Un canto
americano e quando (per dire: sempre) “la vita insensata ci trafigge coi suoi
misteriosi rapporti”, ecco che sfodera, con sublime eleganza, “un elisir, una
tensione, un puro potere. La poesia, grazie al candore, ci dà sempre di nuovo
la forza di ritrovare di ogni cosa l’immacolata natura”. La mutazione è
avvenuta: un po’ era prevedibile perché “naturalmente alla lunga, la finzione
suprema sarà la poesia; l’essenza della poesia è che trasforma, e l’essenza
della metamorfosi è che dà piacere”. Un po’ è indispensabile e Wallace Stevens
si premura di spiegare senza possibilità di svista, la funzione ultima delle Note
verso la finzione suprema:
“Scoprire un ordine come quello delle stagioni, scoprire l’estate e conoscerla,
scoprire l’estate e conoscerla, scoprire l’inverno e conoscerlo bene, trovare,
non imporre, non ragionare affatto, ma dal nulla arrivare a tempo maggiore, è
possibile, possibile, possibile. Deve essere possibile. Deve poter accadere che
negli anni il reale si levi oltre i suoi rozzi aggregati”. Una limpida
invocazione.