Wallace
Fowlie, docente universitario che ha intrattenuto rapporti e corrispondenze con
Henry Miller, Jean Cocteau, René Char, André Gide e Anaïs Nin, quando ha
cominciato ad accostare Jim Morrison a Rimbaud ha avuto l’umiltà di dire: “Sono
felice di avere l’opportunità di aggiungere qualcosa alla vostra conoscenza di
un grande poeata e cantante”. Il proposito di Wallace Fowlie, all’inizio delle
conferenze e degli incontri le cui cronache sono poi confluite in Rimbaud e
Jim Morrison, era
altrettanto semplice e plateale: “Parlerò dei vagabondaggi di due poeti, della
poesia, della musica e degli antichi miti che i poeti incarnano”. E’ proprio
per quello che Rimbaud e Jim Morrison si pone in termini molto creativi sia nei confronti della
poesia del primo che del rock’n’roll del secondo e non ha esitazioni a
individuare quelle sottili, persistenti radici che nei secoli e nella storia
hanno identificato “il poeta come ribelle”. E’ la definizione contenuta nel
sottotitolo di Rimbaud e Jim Morrison ed è già molto espressiva nel delineare quelli che sono i
tratti salienti del volto che Wallace Fowlie ottiene sovrapponendo il ritratto
di Jim Morrison a quello di Rimbaud. Il legame, così come lo legge Wallace
Fowlie, va ben oltre l’identificazione e la passione di Jim Morrison per
Rimbaud, che Albert Camus definiva “il nostro più grande poeta della
ribellione”. E’ la somma che va a identificare uno, due ribelli “contro i
valori che normalmente ci preparano alla vita”. La differenza è nell’avverbio
perché “il giovane ribelle vive in un mondo a parte” e se lo deve creare da
solo, contro tutti. Così è stato per Rimbaud, così per Jim Morrison e i
passaggi, attraverso la densa elaborazione di Wallace Fowlie arrivano infine a
definire “il ribelle come artista”, sempre alla ricerca di una felicità
sfuggente. Rimbaud e Jim Morrison non
è soltanto un saggio, un’analisi letteraria e poetica sui legami tra due grandi
ribelli, ognuno per il proprio tempo, ma anche la storia di uno studioso che ha
varcato la soglia e ha attraversato la vasta terra di nessuno tra l’accademia e
il rock’n’roll. Alcuni elementi sono andati via via aggiornandosi nelle
ricerche successive, nelle biografie e nei documentari, ma la qualità
dell’impianto dell’analisi di Wallace Fowlie rimane inalterata nella sua
originalità e nella sua indipendenza dai fanatismi del rock’n’roll così come
dalle regole dell’università. Wallace Fowlie evidenzia, anche sgusciando via
dai panni del saggio e del professore, quella “mixed up confusion”, per dirla
con un altro assiduo lettore di Rimbaud (Dylan) che comprende Jack Kerouac e il
resto della Beat Generation, i Beatles e William Blake, il Living Theater e
Walt Whitman ovvero quella miscela instabile e incandescente che è alla base di
tutti i songwriting del rock’n’roll. Rimbaud e Jim Morrison la condensa, elaborando ogni riflessione
possibile, dalle visioni di Rimbaud alle canzoni dei Doors. Nel dubbio,
chiedere conferma a Patti Smith che, tra Rimbaud e Jim Morrison, si è inventata tutta una vita.
giovedì 23 ottobre 2014
martedì 21 ottobre 2014
Lewis Shiner
Il circondario delle Desolate
città del cuore è un ambiente molto suggestivo
perché è un romanzo hendrixiano, avvolto in una nebbia magica e
psichedelica, ma nello stesso
tempo è anche incollato a particolari molto realistici. I riti ancestrali e
tribali, i viaggi archeologici e i trip allucinogeni si specchiano e si
scontrano con le vicende della guerriglia messicana e l’arrivo dei mercenari
americani, che somigliano parecchio ai contras in azione in quegli anni. Siamo
nel 1986, in piena era Reagan e nella giungla messicana in mezzo a una guerra
dai contorni indefiniti perché “con i fucili tutte le idee sono uguali”. Le due
forme di narrazione adottate da Lewis Shiner, quella più visionaria e onirica e
quella più attinente alla cronaca, si accavallano seguendo un andamento
sinusoidale. Le Desolate città
del cuore prendono forma così, con il sovrapporsi di diversi tempi e realtà, il
formarsi di strati che scivolano uno sopra l’altro si intravede nel racconto di
Lewis Shiner, ma se si percepisce il movimento di un terremoto (e qui ce ne
sono dall’inizio alla fine) non è detto che sia chiaro il disegno generale o la
geografia in particolare. L’incastro triangolare tra Thomas e Eddie Yates e
Lindsey, i tre protagonisti, non è ben focalizzato ed è evidente, se persino
Lewis Shiner si sente in dovere di precisare che “c’era molta storia tra loro,
molta tensione, c’erano molte possibilità”. Forse troppe: dei fratelli Yates,
Thomas, è quello più solido, esperto, conoscitore della civiltà maya, mentre
Eddie, il chitarrista scapestrato con il pallino delle esplorazioni
caleidoscopiche è sempre in cerca di guai. Le ricerche del primo si scontrano
con i viaggi del secondo e con il carattere volubile di Lindsey. Tutti e tre
poi si ritrovano nel gorgo confuso degli eventi, celebrazioni mistiche e feroci
combattimenti. Quasi a bilanciare l’eccesso di movimento, per il corollario ai
personaggi principali Lewis Shiner attinge ai cliché e quindi c’è il cinico
ufficiale americano, (Marsalis), l’antieroe con la sua scorta di dignità,
(Oscar, il pilota dell’elicottero), la ribelle fino alla morte (Carla), per non
dire poi dei maya che, insieme a Hendrix, contribuiscono a spostare i cardini
delle porte della percezione. Il legame hendrixiano con la fantascienza è noto:
Lewis Shiner lo espande, aggiungendogli una punta di esotica avventura e una
diversione politica che, tra le righe, sembra essere il segnale più convinto.
L’indeterminatezza dipende dal fatto che Desolate città del cuore, pur tenendo conto di alcune incoerenze e prendendo
atto che non ha particolari ambizioni
stilistiche, è un piacevole racconto che si sporge quel tanto che basta nel
fantastico ma, nella sua essenza piuttosto rocambolesca, pare rimanere
indefinito. Come se Lewis Shiner, a furia di aggiungere ingredienti su
ingredienti, e tutti piuttosto saporiti, alla fine si sia lasciato prendere la
mano, rimanendo imprigionato, come i suoi personaggi, nell’intricata mappa
delle Desolate città del cuore.
lunedì 13 ottobre 2014
Arthur Hoyle
In
una delle appendici della sua documentatissima biografia, Arthur Hoyle elenca
un bel numero di università americane a cui ha scritto per capire se Henry
Miller è ancora consigliato, letto, studiato, adottato. Le risposte sono state
limitate, come se l’ostracismo nei suoi confronti si fosse soltanto evoluto in
una forma di indifferenza, più subdola ed elaborata, perché non consente il
ricorso alla corte suprema. L’unico a tentare un’analisi e insieme un
riconoscimento è stato Tobias Wolff: “Miller ha avuto in un influsso così
grande che è quasi impensabile che i suoi libri non vengano insegnati, ma la
realtà è che purtroppo credo sia così, almeno per quanto ne so qui a Stanford.
Forse non è poi una cosa tanto negativa: scoprire Miller è scoprirsi in preda alla
disubbidienza, alla sovversione, alla franchezza sfacciata e irrispettosa e
alla comicità rivoluzionaria. E’ possibile coltivare questi sentimenti con il
beneplacito delle sobrie autorità istituzionali? Non sarebbe una specie di
antisovversione? E’ solo un’idea”. I motivi dell’esclusione li raduna lo stesso
Arthur Hoyle e sono già una parte pesante della sua storia: “Miller criticò con
veemenza l’America e ne ridicolizzò i costumi sessuali, ma lo fece dalla
posizione di un uomo profondamente innamorato dell’idea di America, il quale sentiva che tale
idea, incarnata in Whitman, fosse stata tradita dagli imperanti interessi
politici ed economici. L’America ha reagito sulla difensiva e continua a farlo;
se non ti piace il messaggio, distruggi il messaggero”. Il suo ritratto è molto
efficace proprio perché ripropone legami e intersezioni letterarie dell’epoca
attraversata da Henry Miller, dalle sue fortune critiche ai viaggi, non esclusi
tutti gli aspetti polemici, sia nel contesto europeo, ovvero parigino, sia in
quello americano, con particolare riguardo alla vita di Big Sur. La ricchezza e
la varietà dei dettagli, i continui richiami alla voce di Henry Miller,
l’attenzione alla scrittura, allo stile e, molto meno (vale a dire lo stretto
necessario), agli aspetti personali e alle sfumature più pruriginose, rendono
la biografia scorrevole e coerente con la realtà della sua esistenza, compressa
nell’idea che “l’arte di vivere implica un atto di creazione”. I matrimoni, le
difficoltà economiche, la lunga battaglia contro la censura (“Ho la sensazione
che nulla verrebbe considerato osceno se gli uomini vivessero fino in fondo i
loro desideri più segreti”), la sua natura graffiante (“Che paese meraviglioso
l’America. Ti fotte a ogni passo”) e la ricostruzione di Arthur Hoyle
combaciano con l’intimo dettato di Henry Miller: “L’intera mia vita si spiega e
allunga in una mattina non rotta né infranta. Scrivo dal nulla ogni giorno.
Ogni giorno un mondo nuovo è creato, nuovo e separato e completo, e lì sono io,
tra le costellazioni, dio così pazzo di sé da non far nulla se non cantare e
plasmare nuovi mondi”. Una biografia adatta per conoscerlo e per conoscerlo
meglio, per leggerlo e per rileggerlo perché, come diceva Lawrence Durrell,
“quello che ci offre è una conquista indiretta, trovare noi stessi tra le sue
pagine”.
mercoledì 8 ottobre 2014
Elizabeth Bishop
Frutto
dell’osservazione e dell’ossessione per i minuscoli dettagli della vita
quotidiana le poesie di Miracolo a colazione interpretano un’attitudine che ha
espliciti riferimenti nella pittura di Seurat o nelle visioni di Blake. E’
quella che Elizabeth Bishop chiama una “concentrazione perfettamente inutile,
dimentica di sé”, capace di incorniciare nei versi frammenti di dialogo,
schegge di percezione, scorci di paesaggio tradotti in elementi di linguaggio
caratteristici e riconoscibili. La lettura di un refuso su quotidian è
ispirazione più che abbondante per L’Uomo-Falena e le basta aprire gli occhi per
raccontare l’alba e il risveglio in Anafora: “Con quante cerimonie il giorno ha
inizio, con gli uccelli, le campane e le sirene di una fabbrica; i nostri occhi si aprono su cieli d’oro
bianco, su muri così fulgidi che ci chiediamo per un attimo: da dove viene
l’energia, la musica? Per quale ineffabile creatura sfuggitaci era destinato il
giorno? Ed ecco che appare per assumere natura terrena là per là, cadendo preda
di lunghi intrighi, acquistando memoria e una mortale mortale spossatezza”. Pur
avendo una particolare grazia nel disporre le parole, con un gusto molto
sensibile per le immagini, Elizabeth Bishop lascia spesso la porta aperta a
squarci onirici che irrompono sulle sue istantanee domestiche, quasi
inoffensive, spezzandone la sequenza e così creando un ritmo stravagante, fatto
di stop and go, di
rapide interruzioni, svolte, repentini cambi di direzione, fino a “non sentire
null’altro che un treno che passa, deve passare, come la tensione; nulla”. A volte criptica ed enigmatica, a
tratti incantevole e gentile, la sua poesia rimane sempre scomoda perché c’è un
altrove costante in Miracolo a colazione che diventa un orizzonte percepibile attraverso L’iceberg
immaginario, (“Meglio
per noi l’iceberg della nave, pur segnando il termine del viaggio”), Ai
magazzini del pesce,
(“E’ come immaginiamo il sapere: oscuro, salso, limpido, animato, da attingere
in tutta libertà alla dura e fredda bocca del mondo, le mammelle di rocca a cui
ricorrere, mai a corto, e storico qual è il nostro sapere non fa che scorrere e
non è più scorto”), Cap Breton
(“La nebbia rarefatta segue le bianche mutazioni del suo sogno”) e la sezione
conclusiva di Quattro poesie,
dove Elizabeth Bishop scrive che “Il mondo è una foschia. E poi il mondo è
minuto, vasto e limpido. E alta o bassa la marea”. Le descrizioni dei paesaggi
marini sono le componenti di Miracolo a colazione che ritornano con maggiore continuità e
intensità. Elizabeth Bishop le mette spesso in risalto, attingendo dalla sua
tormentata biografia, trascorsa tra le coste del Brasile e le baie atlantiche
del New England, e raccogliendo e disponendo le parole come se fossero
conchiglie sulla spiaggia, una domenica mattina. L’arte è sempre quella, dice in un’altra poesia, ed “è
evidente: l’arte di perdere fin troppo presto s’impara, e sembra (scrivilo!) un disastro”. L’apparenza e la dolcezza
delle sfumature non inganna: Miracolo a colazione è una burrasca che ondeggia sorniona, ma
alla fine giunge a destinazione con tutta la sua forza.
venerdì 3 ottobre 2014
Tobias Wolff
A tutti gli effetti, La nostra
storia comincia è un’antologia che copre gran
parte della narrativa di Tobias Wolff, sia in termini temporali, visto che
attraversa trent’anni della sua storia, sia rispetto alla gamma specifica dei
temi dei racconti. Si va dal breve piccolo ritratto di vita suburbana in La
porta accanto, un concentrato urticante di
Richard Yates, John Cheever e Raymond Carver, fino agli spettri delle guerre
americane in Usignolo e Gioia del
soldato, dove ritorna l’ombra del
Vietnam, già indagata da Tobias Wolff con Nell’esercito del faraone (un capolavoro). Il vero leitmotiv che lega la
varietà di La nostra storia comincia è
la scrittura, nitida, precisa, toccante. Nell’arco di poche pagine Tobias Wolff
costruisce ambiente, personaggi, dialoghi (sempre notevoli), dettagli. Il ritmo
è costante, altissimo e teso grazie alle triangolazioni matematiche che
imprigionano i personaggi. In Cacciatori nella neve i tre protagonisti sono già in conflitto alla
partenza della loro battuta di caccia e le condizioni climatiche estreme ne
esasperano le tensioni. Un racconto crudo e abbagliante, come i riflessi sulla
neve che li circonda (anche se altrove Tobias Wolff scrive che “la neve è
sopravvalutata”). La stessa definizione geometrica è altrettanto chiara in Il
fratello ricco e in Leviatano, perché, nonostante si tratti di una doppia coppia, i
protagonisti alla fine sono un trio. Un’ossessione ribadita con Quella
stanza, che comincia con quattro
personaggi e finisce con tre, di cui uno assente fino al colpo di scena,
comunque limitato “sorridere e sperare di voltare pagina”. Anche Il
beneficio del dubbio, tra i racconti più recenti, è
ancora una triangolazione (tra Mallon, Kadare e Miri, un borseggiatore)
ambientata a Roma e così Il suo cane
dove, caso piuttosto insolito, uno dei vertici è un animale con i suoi
pensieri. Viene lasciato molto in sospeso nei racconti di Tobias Wolff che
detta il necessario, lo strettamente indispensabile a concludere la narrazione,
a identificare un tratto ben delimitato di emozioni e situazioni. La nostra
storia comincia è pieno di “gente che non
vorresti incontrare fuori dalle pagine di un libro”, personaggi sempre in
bilico, traballanti nel loro precario equilibrio perché “sappiamo amare, sí, ma
ce ne dimentichiamo di continuo”.
Sono coppie separate, in crisi, insicure, tradimenti, deviazioni di
percorso, legami che si sfaldano perché “la mappa non rispecchiava la
geografia, poco da fare”. Anche nei racconti più rarefatti, come Bacio vero, Tobias Wolff mostra di saper modellare la vita
attraverso la letteratura (o viceversa) senza manipolare troppo quel fondo di
realtà e limitandosi a seguirne l’evoluzione, che in fondo a La nostra
storia comincia ha descritto così: “La verità è
che non ho mai considerato sacri i miei racconti. Nella misura in cui restano
vivi ai miei occhi, resta inalterato anche il mio interesse a esprimere al
meglio quella vita. Una pratica che risponde ai bisogni di una certa
irrequietezza estetica, ma allo stesso tempo una forma di cortesia, mi pare”.
Una narratore di gran classe.