Se, come diceva uno dei grandi
estimatori di Wallace Stevens, Harold Bloom, “la poesia è essenzialmente
linguaggio figurato, condensato in modo tale che la sua forma sia espressiva e
al contempo evocativa”, Aurore d’autunno
è la versione lirica, concreta e tangibile della sua definizione. E’ l’ultima
raccolta poetica di Wallace Stevens e anche negli elementi autobiografici,
riassunti in gran parte in Grande uomo rosso che legge,
celebra il “romanzo inevitabile, scelta inevitabile di sogni, delusioni
come l’ultima illusione, realtà come una cosa vista dalla mente, non ciò che è
ma ciò che percepiamo”. Nella sua lingua ordinata, pulita, chiarissima, corposa
Wallace Stevens è sempre “nell’elemento dell’antagonismo” perché “ciò che sta
sotto questo genere di cose è il movimento delle idee” e allora l’esaltazione
dell’aurora intesa come alba, luce, inizio, primordio è un modo per intuire
l’arrivo del crepuscolo, delle ombre, l’anticamera di quella che il grande
poeta americano chiamava “la stagione muta”. Altrove Wallace Stevens aveva
centellinato i contorni della sua visione, specificando con cura che “le aurore
d’autunno non sono le mattine di primo autunno ma l’aurora borealis che qualche
volta capita di vedere a Hartford, a volte così forte da accorgertene anche se
sei in casa. Queste luci simbolizzano uno sfondo tragico e desolato”. Sono le
quinte ideali della rappresentazione suprema di Wallace Stevens: la poesia è
“la metà incorporea”, sintesi perfetta che ne racchiude la traduzione e
l’interpretazione (“Tam-tam, così fa la tragedia: non ci sono battute? Non c’è
testo. Anzi, si recita per il fatto d’essere lì”) sul palcoscenico tra finzione
e realtà, quella realtà che è “il nudo Alfa, non il sacrofante Omega, con
vassalli luminosi, densa investitura. E’ l’A infante che si regge su gambe
infantili, non la storta Z, curva, polimatica, che s’inginocchia sempre
all’orlo dello spazio nelle pallide percezioni delle sue distanze”. L’altra
metà, quella galleggiante sulle parole, è filtrata con “la carità dell’immaginazione”,
visto che “non è nelle premesse che la realtà sia solida. Forse un’ombra che
attraversa la polvere, una forza che attraversa un’ombra”. Aurore
d’autunno è essenziale nel tracciare una
frontiera netta con i “i lineamenti dell’essere, le sue espressioni, le sillabe
della sua legge: Poesis, poesis,
i caratteri, i versi ispirati, che in quegli orecchi e in quei cuori sottili, esauriti, prendevano
forma, colore, e la misura delle cose che sono, e dicevano per loro l’emozione,
che era ciò che era loro mancato”. Quella di Aurore di autunno è una squillante apologia “vivente nell’idea”,
indiscutibile, inaffondabile perché “della poesia non si dimostra l’esistenza.
E’ qualcosa che si vede e si conosce in poesie minori. E’ l’armonia alta,
vasta, che risuona appena, appena, improvvisa, grazie a un senso differente. E’
e non è, e perciò è. Nell’istante della parola, l’ampiezza di un accellerando
muove, cattura l’essere, lo ampia, e non è più”. Questa è la poesia.
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