Succede tutto nel perimetro che
comprende il campus e nel diamante del campo da baseball del Westish College,
nel Michigan, due aree collegate da un invisibile, contorto eppure solidissimo
cordone ombelicale. L’arte di vivere in difesa è la specialità di Henry, il protagonista (il cui nome contiene forse
un’involontaria citazione dal Gioco di Henry di Robert Coover) che vive per il baseball, nel
ruolo specifico di interbase, e attorno al quale si sviluppa una serie di
insiemi e sottoinsiemi che sembrano prima delineare e poi smentire il paradigma
per cui “l’America è questa: i vincenti vincono, i perdenti vengono buttati
fuori a calci”. Il baseball non è soltanto una magnifica ossessione, quella per
cui “per tutta la vita aveva desiderato possedere un talento trascendente,
un’unica abbagliante qualità che il mondo non avrebbe esitato a definire
geniale”. E’ anche l’essenza stessa dell’arte di vivere in difesa perché, come dirà uno degli onnipresenti scout e
osservatori che compulsano le statistiche e scrutano i talenti sul campo: “La
parola chiave nel baseball è fallimento, e se non sei capace di gestire il
fallimento non durerai a lungo. Nessuno è perfetto”. L’arte di vivere
in difesa diventa allora il tentativo di
rimandare per sempre, e non soltanto la palla da una base all’altra. E’ l’idea
di “fare ogni cosa con più facilità, a poco a poco. Mangiare sempre le stesse
cose, svegliarti alla stessa ora, indossare gli stessi vestiti. Intoppi,
cattive abitudini, pensieri inutili: tutto ciò che non era necessario svaniva
lentamente. Tutto ciò che era semplice e utile, invece, rimaneva. Migliorare a
poco a poco, fino al giorno in cui tutto sarebbe stato perfetto, e sarebbe
rimasto così. Per sempre”. E’ un antico miraggio, in fondo, “il sogno di giorni
tutti uguali. Ognuno uguale a quello precedente, solo un po’ meglio”. Il
Westish College diventa così il proscenio dove Chad Harbach costruisce la sua
storia agrodolce lasciandola spesso ondeggiare tra il dramma e la commedia come
le acque del lago sui cui si affaccia il campus. Un luogo da cui nessuno se ne
vuole andare, ma tutti, prima o poi, in un modo o nell’altro, devono
partire. Nei suoi momenti
migliori, Chad Harbach ricorda la leggerezza di Stephen King senza l’elemento
fantastico, salvo la spruzzata gotica del finale. I personaggi sono
caratterizzati da due, tre note specifiche, da una particolare vocazione e
danno il meglio quando sono legati gli uni agli altri. Il concatenarsi degli
eventi è la forma stessa della trama: una serie di scene che si incastrano una
nell’altra con un tenore cinematografico e con un’impercettibile vena
autobiografica. L’arte di vivere in difesa traballa proprio in quei passaggi, quei gangli che dovrebbero pesare
di più e invece sono risolti come punti di contatto tra un’inquadratura e
l’altra e vengono raccordati con una patina minimalista evanescente. La lettura
è sempre gradevole, la sostanza resta sfuggente come una palla giocata con un
po’ di effetto, senza troppe ambizioni, giusto salvare la partita.
Nessun commento:
Posta un commento