E’ il 1862 e la guerra di secessione è ormai
penetrata a fondo nel tessuto umano e geografico dell’America, rivelando “una
vasta landa selvaggia e vuota”. A Jacob Rappaport, che per evitare
l’imposizione di un matrimonio si era arruolato nell’esercito dell’Unione,
viene conferito un incarico segreto. La devozione alla causa e al massimo la
riconoscenza di un “onore privato” lo portano ad assecondare le sue missioni in
modo stoico, anche se ciò non gli impedisce di innamorarsi di Jeannie alias
Eugenia Levy. Lei è bella, geniale, volitiva e irraggiungibile perché sta
dall’altra parte della barricata. Tutte le altre sere è sospeso in un limbo
di gesti che durano all’infinito e il suo mosaico è incorniciato in modo
indelebile dalla figura controversa di Jacob Rappaport, “un soldato buono solo
per le ritirate e le sconfitte”. Il suo struggimento, la sua lotta per una
personalità sfuggente mantiene viva la brace, mentre nella cenere sparsa dalla
guerra, si aggirano le multiple identità di uomini e donne in cui serpeggiano
“piccole speranze, piccole paure, piccoli trionfi e fallimenti, tutti”. La
scrittura di Dara Horn è decorativa, accattivante, seducente, coinvolgente,
molto equilibrata e attenta, incisiva nei dettagli e inventiva nel linguaggio e
negli artifici per tenere il lettore incollato alle pagine (che non sono
poche), compresi i palindromi, gli anagrammi e i calembour di Rose, la sorella
di Jeannie. Se il corpo principale di Tutte le altre sere è quello di un romanzo
storico, va notata una parte consistente di melodramma alimentato da una love
story impossibile, eppure la voce di Dara Horn è attenta alla dimensione
psicologica dei personaggi, a partire dal protagonista Jacob Rappoport e non è
un compito semplice visto che “buona parte dell’inganno è costituita dalla
condiscendenza”. Se l’impianto, non privo di ambizioni, regge, è facendo forza
su una trama ricca di nodi. Fin troppo, perché molti restano irrisolti e
sommersi nel fitto tessuto di episodi e scene voluto da Dara Horn, a partire
dalla guerra che è sempre in primo piano anche se, come dice un saggio
interlocutore di Jacob Rappaport, “le guerre vanno e vengono, giovanotto. Vanno
e vengono, e noi andiamo e veniamo con loro. Sono come il tempo, come una
tempesta o una siccità. E noi non possiamo fare altro che cercare riparo e
aspettare che passino”. Per dirla con la voce di un grande (grandissimo) poeta,
Wallace Stevens, “la guerra è solo una parte di una totalità in tumulto” e Tutte
le altre sere
sembra la naturale estensione, ben calibrata, di quel lucido (e purtroppo
sempre attuale) verso. Memorabile l’incipit, che rasenta la perfezione: “Dentro
un barile sul fondo di un battello, con una borraccia d’acqua incastrata fra le
gambe e un pacchetto di veleno nascosto in tasca, Jacob Rappaport avvertiva una
stretta allo stomaco, non perché fosse sul punto di fare qualcosa di
pericoloso, ma perché era sul punto di fare qualcosa di sbagliato”. Quattro
righe e dentro si trovano già i motivi e i tempi di Tutte le altre sere.
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