Catturare per
sempre il riflesso di una stagione, la luminescenza di un tramonto,
l’affievolirsi notturno di una danza, la sfumatura calante della parabola di
una vita, la coda interminabile di una suite jazzistica davanti alla sterminata
presenza dell’oceano, irridente nel suo infinito movimento a sfidare le
solitudini umane, è una missione impossibile con il limitatissimo strumento
della scrittura. Più di tutto, coglierne la distanza, e insieme la prospettiva,
dentro l’avvertimento di una luce crepuscolare, è riuscito soltanto alle
panoramiche marine e alle finestre oblique inondate di pulviscolo di Edward
Hopper che usava la pittura per tracciare trame tanto cangianti quanto
impercettibili. Ribaltando gli strumenti e le relative applicazioni, Francis Scott
Fitzgerald è riuscito nel miracolo di mettere a fuoco l’inafferabile atmosfera
di un’epoca e insieme la natura di un grappolo di emozioni sfuggenti. L’elevato
tasso di romanticismo che Il grande Gatsby asseconda è sostenuto dall’equilibrio con cui Francis
Scott Fitzgerald si regge “dentro e fuori, al contempo incantato e respinto
dall’inesauribile varietà della vita”. L’immedesimarsi nel tenore quotidiano
che si sviluppa tra le ville di Long Island, in apparenza un’imperturbabile
enclave senza peccato, è un cammino acrobatico su un filo di rasoio che porta Francis Fitzgerald Scott a raccontare il dettaglio più microscopico con
un uso macroscopico (e inarrivabile) delle parole. A maggior ragione quando
deve inquadrare lo spirito del suo protagonista perché, “se la personalità è
una serie continua di gesti riusciti”, Il grande Gatsby si è identificato nell’anfitrione di
un’era, aprendo le porte della sua villa, dove “le persone non erano invitate:
ci andavano”, a una galassia incredibile, evanescente e pervasa da una
frenetica, invisibile tensione. E’ Il grande Gatsby che non è esente da ombre perché “nessun
fuoco, nessuna freschezza può sfidare quello che un uomo accumula nel suo cuore
fantasma” e la tragedia su cui si immola è logica e coerente con le movimentate
orbite di collisione dei suoi protagonisti, così come, nelle tonalità scelte da
Francis Scott Fitzgerald è la perfetta riduzione di “un mondo nuovo, materiale
senza essere reale, dove poveri spettri, respirando sogni come aria, andavano
alla deriva”. I fuochi d’artificio di Jay Gatsby diventano un incendio che
divora tutta la comitiva che gli si raccoglie intorno e l’orizzonte si tinge di
un colore vermiglio più denso, cupo e impenetrabile. Un tempo stava volgendo al
termine e, chissà, nemmeno i
mutevoli party del grande Gatsby erano esenti dall’incombente presagio e, come
se avesse intuito un destino senza comprenderlo, “non sapeva che il sogno era
già alle sue spalle, in un punto di quel vasto buio oltre la città dove i campi
oscuri della repubblica si estendevano nella notte”. Rimane il ricordo e forse
la nostalgia di quei, “fatti casuali in un’estate affollata” visto che seguire Il
grande Gatsby “era come
sfogliare a tutta velocità una dozzina di riviste”. Fa ancora lo stesso
effetto.
lunedì 30 settembre 2013
giovedì 26 settembre 2013
Jack Kerouac
Scritta nel 1957 e
rimasta avvolta nella polvere fino a qualche anno fa, Beat Generation è una commedia che fa onore al suo titolo.
E’ sgangherata, eccessiva, divertente, anche se ha una sua solidità nei
dialoghi sincopati che a vario titolo prendono forma con Buck, Milo, Tommy,
Manuel, Slim, Jule, Vicki, Irwin, Mezz, Cora e Paul. Una carrellata di
personaggi che bevono, giocano e più di tutto, come ha sottolineato A. M.
Homes, “vogliono sapere come e perché esistono e poi, in una specie di
combustione spontanea, alla fine arrivano a scoprire che una risposta non
esiste, esistono solo l’attimo in cui ci troviamo e le persone attorno a noi”.
Se il tema è in buona sostanza proprio quello, le improvvisazioni deviano
spesso e volentieri in sacrosanti voli pindarici fino a quando ci si chiede:
“Quante sabbie ci sono, che devono essere tolte dall’oceano Pacifico, ogni
volta che versi un milione di galloni di succo della gioia nel vuo dell’intero
spazio, e importa davvero qualcosa”. Dalla buca del suggeritore a quel punto
della pièce arriva un bisbiglio che dice: “(Beve)”, e non sono previste
controindicazioni. Le chiacchiere fluttuano inesorabili almeno quanto i
propositi di Jack Kerouac che erano, al solito, fantastici e magniloquenti
perché, prima di lasciarsi sfuggire Beat Generation in un angolo, e di
imbarcarsi in altre mirabolanti avventure, proclamava: “Quello che voglio è
rifare il teatro e il cinema in America, imprimere un moto spontaneo, rimuovere
i concetti imposti di situazione e lasciare che la gente vada a ruota libera come fa
nella vita reale. Ecco che cos’è questa commedia: non c’è una particolare
storia, non c’è un particolare significato, c’è solo il modo di essere delle persone. Ogni cosa
che scrivo è scritta immaginando me stesso come un angelo che fa ritorno sulla
terra e, tristemente, la vede com’è”. La direzione intrapresa è suggestiva ed è
la lettura di A. M. Homes a
renderla esplicita: “A differenza di quei reduci della seconda guerra mondiale
che, dopo essere tornati a casa, si erano sposati e trasferiti nei sobborghi,
abbandonandosi completamente al sogno americano e alla cultura rampante del di
più e di più, allargando a dismisura il loro stile di vita, la vita beat veniva
vissuta ai margini. I beat avevano poco da perdere e non molto in basso da
cadere”. E’ un’annotazione interessante perché riporta la Beat Generation alle sue radici blue collar: la
“guerriglia linguistica” di Jack Kerouac nasce dai bassifondi ed è per questo
che, come dice A. M. Homes, “Beat Generation è un dono, una caramella trovata sotto i cuscini di
un divano. Per quelli di noi che di Kerouac non ne hanno mai abbastanza, ecco
qualcosa in più”. Anche se non è molto, con “tutta questa mediocrità che è
entrata nella nostra vita negli ultimi tempi”, può sempre servire a guagnarsi
il “permesso di esistere”. Un piccolo dettaglio scenografico. Alla fine c’è un
flauto che suona. Lo immagino un po’ stridente e il profilo del jazzista
nell’ombra è quello di Roland Kirk.
lunedì 23 settembre 2013
Leonard Cohen
Il Libro della
misericordia di Leonard
Cohen occupa una posizione speciale nell’arco di tutta la sua espressione. E’
un bizzarro breviario, non allineato, non conforme, non adeguato agli schemi e
alle leggi della fede così come a quelle della scrittura. Volendo è persino
incompiuto, e gran parte del suo fascino risiede proprio lì. E’ una forma di
libero dialogo, anomalo e impossibile perché se è difficile “studiare senza un
amico”, è altrettanto arduo confrontarsi con interlocutori divini e/o
invisibili. E’ lo “scudo della solitudine” la forma di protezione che permette
a questi arabeschi un po’ poesia, un po’ invocazioni, un po’ racconti e un po’
meditazioni di concatenarsi l’uno con l’altro in una sequenza logica. Le
“lunghe sessioni di prova piene di rettifiche, applausi immaginari,
umiliazioni, proclami di vendetta” sono un modo per parlare con se stessi
pregando: l’univocità del tema non rende onore alla complessità della figura di
Leonard Cohen e non di meno è proprio questa caratteristica a rendere straordinario
il Libro della misericordia. Se l’aspetto religioso ha precisi contorni mistici, il tono è
colloquiale e confessionale “da solitudine a unità”, come dice Leonard Cohen,
precisazione che esprime benissimo il senso di un dialogo a metà: il rapporto
con l’altro è scheggiato, improprio, limitato e segue vie misteriose, perché il
divino è intangibile e si rivolge a quel “signore del caso fortuito che è
l’essere umano”. Per tutto il Libro della misericordia Leonard Cohen è in mezzo a un guado, come
gli è successo di frequente, e la sua ammissione è esplicita arriva quando
dice: “Ho spaccato in due il tuo mondo, e sono andato a finire da entrambe le
parti”. Anche separato e conscio che il tentativo di lasciarsi stritolare dalla
comodità dell’ignoranza “era una strategia, e non funzionò affatto”, Leonard
Cohen non rinuncia comunque ai suoi strali: “Qui la distruzione è appena
percettibile, e là il corpo è lacerato. Qui ci si rende conto che tutto va in
frantumi, e là i morti, inconsapevoli, trascinano i loro putridi resti. Tutti
commerciano in lerciume, portano l’uno all’altro il proprio lerciume, tutti
camminano per le strade come se la terra non si ritraesse per il disgusto,
tutti allungano il collo per mordere l’aria, come se il respiro non si fosse ritratto
in sé”. Una visione apocalittica, nel senso proprio di rivelatoria, che Leonard
Cohen richiama spesso nel Libro della misericordia e in modo sempre più esplicito perché
“tutto ciò che non sei tu è l’uomo che crolla contro la propria fronte e la
fronte lo schiaccia. Tutto ciò che non sei tu se ne va sempre più lontano,
raccogliendo le voci della vendetta, mietendo perduti trionfi lontano dalla
vera e doverosa sconfitta”. A quel punto, Leonard Cohen si ritrova “solo con i
gusci e le conchiglie” e un ultimo, grezzo e magnifico vespro che contiene ed
esprime tutto il senso di questi esercizi spirituali: “Anche se non credo,
vengo ora a te, e sollevo il mio dubbio alla tua misericordia”. Inafferrabile.
mercoledì 18 settembre 2013
Louise Erdrich
Siamo nel North Dakota, è il 1988, e per
attraversare il territorio in cui sorge La casa tonda bisogna prima di tutto
risalire al peccato originale nelle vene dell’America perché alla fonte, come
scrive Louise Erdrich, la logica era “arraffare terra indiana più in fretta che
si può e in tutti i modi possibili e immaginabili. La speculazione sui terreni
è la borsa valori dell’epoca. Lo fanno tutti. George Washington. Thomas
Jefferson”. I fondatori della democrazia, dell’indipendenza, della libertà. Non
è facile da digerire ed è per quello che le riserve hanno assunto un carattere
ambivalente. Sono terre di frontiera in cui l’idea stessa del diritto, delle
istituzioni su cui si fonda la moderna nazione americana, gli Stati Uniti, è
latente e ambigua fin dai registri delle nascite e delle morti visto che “di
generazione in generazione siamo diventati un impenetrabile sottobosco di nomi
e di rapporti”. La casa tonda è il luogo rituale, poco più di una capanna in
riva a un lago, accanto alla quale viene aggredita, violentata, massacrata
Geraldine Coutts. Solo per un caso fortunato, uno di quei piccoli dettagli che
Louis Erdrich ama disseminare nei suoi racconti, la donna è riuscita a salvarsi
dall’aggressione che, nell’idea del suo carnefice avrebbe dovuto risolversi con
un bel cadavere carbonizzato. Attorno a lei c’è tutta la comunità e la famiglia
nativa a cercare di curare ciò che le sta erodendo l’anima e la vita come
“un’infezione dello spirito” e più di tutti il marito e il figlio, Joe. Il
primo è il giudice della riserva e cerca di districarsi come meglio può nella
babilonia di codici e giurisdizioni per amministrare una parvenza di giustizia.
E’ una vocazione che si scontra tutti i giorni con il fallimento e soprattutto
con la sensazione di essere stranieri sulla propria terra. Joe è poco più di un
bambino che ha appena scoperto la birra e quel poco di indipendenza che può
concedere l’uso della bicicletta e ha un’ammirazione sconfinata per il padre,
che vede come un saggio uomo delle istituzioni. Quando scopre che in realtà le
sue sentenze hanno sempre riguardato piccole diatribe locali, capisce che non
potrà contare su di lui per risolvere il mistero della violenza subita dalla
madre. Ci vuole proprio l’innocente libertà di associazione che riesce ad
annodare le leggende e il linguaggio nativo, i codici tribali e le leggi
federali, piccoli scampoli della realtà e “così tante cicatrici che non era
facile contarle” per mettere insieme la visione di un mondo complicato. Quello
delle riserve, che non sono soltanto il lascito di una sconfitta, la prima e
fondamentale perdita americana, ma continuano a essere una zona grigia di
violenza e di dolore per le donne. Louis Erdrich riesce a mantenere in
equilibrio tra la sua storia e quella tragica realtà con una delicatezza e una
cura nei suoi personaggi che sono ammirevoli e con un finale, dolente e
bellissimo, in cui l’unico vero giudice, la vita, emette il suo verdetto e “la
sentenza è: soffrire”. Ha ragione Philip Roth: stupendo.
martedì 17 settembre 2013
Percival Everett
In Ferito, Percival Everett sceglie il ranch di
John Hunt come un crocevia singolare in cui si intersecano vecchie e nuove
tensioni americane, un luogo in cui la magia naturale (animali compresi) si
annoda alle forme incompiute e inconsulte della violenza degli esseri umani, i
rigori e le difficoltà del paesaggio e le perversioni razziste e omofobe. Anche
se Percival Everett sveglie un tono informale, Ferito si sviluppa in modo
esponenziale, una spirale che si snoda velocissima, tagliente, per giungere a
un finale crudele e amaro perché in fondo la frontiera è proprio così. John
Hunt si è insediato a Highland, Wyoming ad allevare ed educare cavalli. E’
nero, colto, appassionato e risoluto e non è capitato laggiù per errore, anche
se sa deve e dovrà lottare tutti i giorni per sentirsi a casa: “Non provavo
necessariamente affetto per la storia di questa gente e certo non per il mitico
West, il West che non era mai esistito. Ma era diventata la mia terra. E forse
era proprio questo l’effetto che aveva questa terra su quelli che avevano
scelto di viverci”. Il suo ranch è isolato, il luogo ha una sua ruvida e
impervia bellezza e Highland “è un paesino normale. Quasi tutti bianchi. Gli
indiani sono trattati di merda. Insomma, l’America”. L’ambiente è ostile e può
solo peggiorare: quando Wallace, un giovane aiutante di John Hunt scompare e
viene trovato ucciso, il confine tra l’ignoranza e la brutalità viene varcato
per sempre. Nel ranch Wallace non godeva di grande popolarità, mettiamola così,
perché nonostante l’impegno, la vita tra i cavalli e la prateria non era il suo
destino. Wallace era gay e il suo presunto assassino, presto arrestato, viene
trovato suicida in carcere. Fino a questo punto John Hunt rimane ai bordi della
corrente feroce e violenta che serpeggia tra Highland e il suo ranch, ma è
davvero Ferito
quando scompare David, figlio di un vecchio amico e suo ospite. David era gay e
viene trovato massacrato in modo orribile e senza senso. E’ allora che John
Hunt, qualcosa del predatore è rimasto nel suo nome, rimarrà coinvolto nella
scia di sangue perché “la frontiera è ovunque” ed è una linea sottile che
unisce la vendetta e la giustizia. Ispirato, per stessa ammissione di Percival
Everett, al caso di Matthew Shepard, un giovane gay ucciso brutalmente nel 1998
proprio nel Wyoming, Ferito è una coraggiosa cavalcata lungo i crinali più
scoscesi delle fondamenta americane. Il West, la vita nella wilderness e l’idea
stessa di frontiera sono stati troppo a lungo per giustificare l’ignoranza, la
diffidenza e la prevaricazione nei confronti dell’altro solo perché indiano,
nero, gay, straniero o comunque, in un modo o nell’altro, diverso. Lo si
percepisce, nella sostanza di Ferito: salvo una flebile comprensione di se stessi e
un’infinita stanchezza, Percival Everett non concede molto ai suoi personaggi e
interpreti. L’unico essere vivente che John Hunt riesce a salvare è Emily: un
piccolo cucciolo di coyote, accecato e mezzo carbonizzato a cui sono rimaste
tre zampe, ormai simbolo, chissà, di un’umanità che non riesce a stare in
piedi.
mercoledì 4 settembre 2013
Susan Sontag
Anche in tempi in cui le immagini corrono più
veloci delle parole, la fotografia ha mantenuto una dimensione in cui cercare
la profondità in due semplici coordinate, alla fine. Ridurre uno spazio a tre
dimensioni (più quella, non relativa, del tempo) a un ordine verticale e
orizzontale, dove si concentra lo sguardo, la luce, l’impressione e insieme
cercare di saldare “realtà e immagine nella nostra società”, come dice il
sottotitolo di Sulla fotografia, è ancora qualcosa che merita di essere
considerato niente altro che arte anche quando lo scopo, l’obiettivo è diverso
perché comunque “la fotografia è diventata uno dei principali meccanismi per
provare qualcosa, per dare una sembianza di partecipazione”. Va ricordato che Sulla
fotografia
è del 1977 e se Susan Sontag non poteva immaginare cosa sarebbe successo con la
rete in tutte le sue derivazioni, aveva già compreso, e molto bene, cosa stava
facendo l’altro strumento che ha fagocitato le immagini e la nostra stessa
percezione, perché “la televisione è un susseguirsi ininterrotto di immagini,
ognuna delle quali cancella quella che la precede” e non è una constatazione
relativa. Nella sua prospettiva “la realtà è sempre letta attraverso i rapporti
che ne forniscono le immagini” e le analisi allineate da Sulla fotografia sono impietose: “le
immagini paralizzano. Le immagini anestetizzano” ed è dunque una sorta di
filosofia dell’ottica, un’etica della visione quella che viene sottolineata
perché “collezionare fotografie è collezionare il mondo”. Se è vero, non è così
lineare dato che, come scrive Susan Sontag, la fotografia consiste comunque “in
uno spiegamento di frammenti casuali, in un modo di misurarsi con il mondo che
è insieme infinitamente allettante e intensamente riduttivo”. Si capisce allora
il senso della definizione, citata a proposito, che Berenice Abbott offre del
fotografo come “l’essere contemporaneo per eccellenza; attraverso i suoi occhi
l’oggi diventa passato” e in effetti Sulla fotografia condensa la pittura, il
cinema, le arti in generale e l’informazione nello specifico perché poi, come
scrive Susan Sontag “il desiderio non ha storia, o almeno è sempre vissuto come
qualcosa che è tutto in primo piano, tutto immediato. E’ suscitato da archetipi
ed è, in tal senso, astratto. I sentimenti morali invece sono radicati nella
storia, dove le persone sono sempre concrete e le situazioni sempre
specifiche”. La conclusione di Susan Sontag è che “noi abbiamo un’idea moderna
del bello, la bellezza non è insita in nulla; bisogna trovarla, con un altro
modo di vedere” e Sulla fotografia finisce con una “breve antologia di citazioni”
che in realtà costituiscono una solida e coerente appendice di suggerimenti,
una vera e propria mappa per interpretare l’immagine e la realtà. A maggior
ragione se ci si confronta, tra gli altri, con il brevissimo, concreto aforisma
di Frederick Sommer che dice: “La vita non è la realtà. Siamo noi che
infondiamo vita nelle pietre e nei ciottoli”. E’ la sintesi estrema di una
testimonianza che è molto più di un saggio Sulla fotografia.
lunedì 2 settembre 2013
Dara Horn
E’ il 1862 e la guerra di secessione è ormai
penetrata a fondo nel tessuto umano e geografico dell’America, rivelando “una
vasta landa selvaggia e vuota”. A Jacob Rappaport, che per evitare
l’imposizione di un matrimonio si era arruolato nell’esercito dell’Unione,
viene conferito un incarico segreto. La devozione alla causa e al massimo la
riconoscenza di un “onore privato” lo portano ad assecondare le sue missioni in
modo stoico, anche se ciò non gli impedisce di innamorarsi di Jeannie alias
Eugenia Levy. Lei è bella, geniale, volitiva e irraggiungibile perché sta
dall’altra parte della barricata. Tutte le altre sere è sospeso in un limbo
di gesti che durano all’infinito e il suo mosaico è incorniciato in modo
indelebile dalla figura controversa di Jacob Rappaport, “un soldato buono solo
per le ritirate e le sconfitte”. Il suo struggimento, la sua lotta per una
personalità sfuggente mantiene viva la brace, mentre nella cenere sparsa dalla
guerra, si aggirano le multiple identità di uomini e donne in cui serpeggiano
“piccole speranze, piccole paure, piccoli trionfi e fallimenti, tutti”. La
scrittura di Dara Horn è decorativa, accattivante, seducente, coinvolgente,
molto equilibrata e attenta, incisiva nei dettagli e inventiva nel linguaggio e
negli artifici per tenere il lettore incollato alle pagine (che non sono
poche), compresi i palindromi, gli anagrammi e i calembour di Rose, la sorella
di Jeannie. Se il corpo principale di Tutte le altre sere è quello di un romanzo
storico, va notata una parte consistente di melodramma alimentato da una love
story impossibile, eppure la voce di Dara Horn è attenta alla dimensione
psicologica dei personaggi, a partire dal protagonista Jacob Rappoport e non è
un compito semplice visto che “buona parte dell’inganno è costituita dalla
condiscendenza”. Se l’impianto, non privo di ambizioni, regge, è facendo forza
su una trama ricca di nodi. Fin troppo, perché molti restano irrisolti e
sommersi nel fitto tessuto di episodi e scene voluto da Dara Horn, a partire
dalla guerra che è sempre in primo piano anche se, come dice un saggio
interlocutore di Jacob Rappaport, “le guerre vanno e vengono, giovanotto. Vanno
e vengono, e noi andiamo e veniamo con loro. Sono come il tempo, come una
tempesta o una siccità. E noi non possiamo fare altro che cercare riparo e
aspettare che passino”. Per dirla con la voce di un grande (grandissimo) poeta,
Wallace Stevens, “la guerra è solo una parte di una totalità in tumulto” e Tutte
le altre sere
sembra la naturale estensione, ben calibrata, di quel lucido (e purtroppo
sempre attuale) verso. Memorabile l’incipit, che rasenta la perfezione: “Dentro
un barile sul fondo di un battello, con una borraccia d’acqua incastrata fra le
gambe e un pacchetto di veleno nascosto in tasca, Jacob Rappaport avvertiva una
stretta allo stomaco, non perché fosse sul punto di fare qualcosa di
pericoloso, ma perché era sul punto di fare qualcosa di sbagliato”. Quattro
righe e dentro si trovano già i motivi e i tempi di Tutte le altre sere.