Le Versioni di me di Dana Spiotta
intrecciano tre onde sinuosidali: una storia famigliare tenuta insieme da
filamenti invisibili che corrono per la maggior parte attraverso legami
digitali; il culto della personalità di Nik Worth; il flusso di coscienza e il
rapporto con le distorsioni (televisive) della realtà di Denise. Una miscela
dal potenziale esplosivo, in gran parte inespresso. Non c’è dubbio che Dana
Spiotta abbia le capacità di inquadrare i personaggi e le loro complesse
psicologie: la scrittura compulsiva di Versioni di me ha un gran ritmo e una
sua intensità ed è un tratto che non si perde nel corso del romanzo. E’ la
storia in sé, la trama, qualche particolare e altrettanti luoghi comuni a
sovrapporsi in modo poco armonico, a volte persino cacofonico. Forse è voluto
nel confronto con gli eventi storici, per redenre quella sensazione di
impotenza e di strazio perché come dice Denise “nessuno ti consola per quel che
hai visto al telegiornale”. Rimane molto vaga nel resto compresa l’alternanza
di voci e di persone, come se le vicende e i legami della famiglia di Nik Worth
siano ancora tutti da scrivere e le convergenze parallele finiscano in un
deserto emotivo ben rappresentato dalla voce di Denise: “Io provo pena per
tutti quegli adulti compromessi, iniettati di sangue e colpevoli e che poi
raccontano la storia ai loro amici, senza esser davvero onesti sul ruolo che ha
avuto ciascuno di loro nello sviluppo della vicenda. Sono solo alla fine del
primo giorno dell’anno e sono già esaurita e sconfitta”. Fin qui può essere,
anche se Versioni di me arranca. La curva più evanescente rimane proprio quella di
Nik Worth. “Il seminario dei luoghi comuni” in versione rock’n’roll parte dal
cliché del musicista ritirato e incompreso (come tutti), ricalcato su Bucky
Wunderlick di Don DeLillo in Great Jones Street a sua volta ricavato
dall’enigma irrisolto della personalità di Bob Dylan (con una punta di Leonard
Coen). Molto pruriginoso e solleticante, ma ha sempre qualcosa che scivola via
in superficie ed è impalpabile come è sfuggente Nik Worth: è tutto fake,
miraggio, abbaglio e se fin qui c’è una concorrenza con la realtà dello stardom
system e dei fallimenti dell’industria discografica, l’insistenza di Dana
Spiotta sulla nota falsa è sospetta e incide in qualche modo sulla natura
stessa di Versioni di me. Nik Worth può anche essere una parodia, e ci sta. Bisogna
però dire che la padronanza di certi linguaggi, la capacità di cogliere
l’atmosfera, l’umore, lo spirito del tempo dipendono anche da piccoli segnali
ineluttabili. Per dire: le rock’n’roll band di Nik Worth, i Fakes
(un’ossessione) e i Demonics arrivano tra il 1979 e il 1980 a Los Angeles ed è
la Los Angeles
degli X, e gli X non ci sono. Sarà un caso, ma se, parafrasando Dana Spiotta,
non vogliamo considerare il rock’n’roll, “una piccola, esile esperienza che ti
costa molto più di quanto non dovrebbe”, non è un dettaglio da poco. E’ come
atterrare a Londra nel 1977 e non trovare i Sex Pistols e/o i Clash e persino
Nik Worth sa benissimo cosa vuol dire.
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