L’intervista di Ostap Karmodi comincia partendo
da questioni tanto cruciali quanto indefinite ed è affascinate notare la
progressione esponenziale con cui David Foster Wallace cerca di riportarla nel
suo alveo naturale, quello della letteratura e della narrativa in particolare.
Non che gli manchino gli argomenti alle legittime sollecitazioni di Ostap
Karmodi. Siamo nel 2006 e DFW, come tutti, brancola nel buio: “Come andranno le
cose? Non lo so. E una delle ragioni è che l’America vive tempi molto spaventosi:
molti di noi si trovano nella posizione di aver più paura del nostro paese e
del nostro governo di quanta non ne abbiamo per i presunti nemici all’estero”.
Se non altro, anche negli spazi ristretti di un’intervista riesce a mantenere
una certa lucidità: “Tutti i giorni mi imbatto in qualcosa che avevo dato per
scontato ma che si rivela falso. Per come vanno le cose in America adesso,
posso andare in giro e rendermi conto al di là di ogni dubbio che il più delle
volte quello in cui credo fermamente sono tutte cazzate. E rendersene conto è
un grosso privilegio. Penso che in tantissimi momenti della storia del mondo e
in molte nazioni non ci si affatto la possibilità di realizzare quanto spesso
ci si sbagli”. Ostap Karmodi, come era nelle intenzioni prova a mantenere il
dialogo sui temi d’attualità e DFW cerca sempre di schivare l’ovvietà, anche se
non può esimersi di esprimersi sull’evoluzione di questi anni: “La mia
personale opinione è che, siccome la tecnologia e la logica economica sono
diventate così sofisticate, oggi è possibile perpetrare crudeltà inimmaginabili
due o trecento anni fa. Pertanto, abbiamo l’obbligo morale di tentare con tutte
le nostre forze di sviluppare la compassione e la pietà e l’empatia. Il che
significa che questi sono tempi davvero difficili per l’America, perché
l’elettorato americano è per lo più semplicemente disinteressato a gran parte
di queste tematiche”. Piano piano, aggrappandosi a piccole variazioni tra una
domanda e l’altra, David Foster Wallace riporta anche il suo interlocutore
all’essenza, non senza lasciare prima una nitida impressione di umiltà: “Da
profano, penso semplicemente di non avere un’opinione informata sul tema
dell’evoluzione morale. Forse è questione del numero di variabili e quindi il
fatto che sia irrisolvibile dipende dal genere di modello che vuoi usare per
misurarle. E’ una domanda affascinante, ne convengo. Non penso nemmeno di avere
un’opinione su questo. Ho solo una serie di paure diverse”. Appena può, subito
dopo, rimette la barra dell’intervista sulle coordinate che più ama: Čechov,
Puškin, Tolstoj, Dostoevskij, ma anche Viktor Pelevin, Jacques Derrida o Henry
James perché, dice lo stesso DFW “tendo a pensare alla narrativa come qualcosa
di composto soprattuto da personaggi, esseri umani e una specie di esperienza
interiore”. Dal suo volentoroso ospite si congeda con una sorta di inchino:
“quello che scrivo è così americano e così idiomatico”, ed è così unico, anche
in una piccola, sghemba intervista.
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