La
lapidaria intestazione di Non uscirò vivo da questo mondo non dipende soltanto dalla canzone di Hank Williams,
a cui, va da sé, attinge il titolo del romanzo di Steve Earle. Dai i bassifondi
di San Antonio, Texas, non se ne esce né vivi né morti perché sono popolati da
ombre sulle soglie del precipizio, le esistenze consumate dalla droga, dalla
prostituzione, dall’emarginazione, dalla notte, da un coltello, da un
proiettile sparato un motivo qualsiasi, anche nessuno. Doc Ebersole, medico e
tossico dall’ambiguo passato, ha trovato in quegli isolati dove l’età non viene
misurata in anni, ma in chilometri accumulati sulla strada, un rifugio, un covo
dove nascondersi, prima di tutto a se stesso, e poi al fantasma di Hank
Williams. Lo spettro, che incombe ogni volta che l’ago della morfina entra
nella vena, è acido, ostico, irriverente e invadente e irriverente. Vuole
qualcosa e Doc lo sa, così come sembra saperlo Graciela, la giovane messicana
che accende le uniche scintille di redenzione e speranza nella sua vita. E’
l’unica che potrebbe alleviare l’estrema solitudine di Doc, capace di
confessare che “essere soli è una condizione temporanea, una nube che offusca
il sole per qualche tempo e poi, dopo essersi spostata, fa sembrare i raggi
ancora più luminosi. Come quando sei lontano da casa e senti la mancanza delle
persone che ami e hai la sensazione che non le rivedrai mai più. E invece le
rivedrai, e quando accade non ti senti più solo. Essere solitari è un’altra
cosa. E’ incurabile. Terminale. Un buco nel cuore talmente grande che potrebbe
passarci dentro un camion a rimorchio. Così grande e profondo che nessun
quantitativo di denaro, whisky, fica o droga potrebbe colmarlo, perché l’hai
scavato tu stesso e lo stai ancora scavando a forza di inanellare menzogne,
delusioni e promesse non mantenute”. E’ proprio in quel frangente di Non
uscirò vivo da questo mondo che
affiora la trama dell’autobiografia di Steve Earle, della sua vocazione a stare
in trincea, anche dalla parte sbagliata e di raccontarne il dolore e la
miseria. Per questo è del tutto condivisibile quello che ha scritto Patti
Smith: “Steve Earle riesce a conferire alla sua prosa la stessa autenticità, lo
stesso spirito poetico, e la stessa energia che ispirano la sua musica. Questo
romanzo è come un sogno pieno di bellezza, rimorso e redenzione da cui non puoi
ridestarti”. Proprio come un sogno, in coabitazione con un incubo, viste le
presenze che s’aggirano, Non uscirò vivo da questo mondo è sgranato e sfocato perché Steve Earle si affida
alla scrittura senza particolari mediazioni. E’ uno storyteller più che uno
scrittore, e sulla distanza del romanzo, che sovrappone una o due ambizioni
abbastanza evidenti (il fantasma di Hank Williams incrocia anche l’ectoplasma
americano per antonomasia, JFK), lo stile arranca in cerca di una scappatoia
che non c’è. L’ossessione di Non uscirò vivo da questo mondo sono le mani sporche di sangue e Steve Earle alle
formalità preferisce la polvere, The Hard Way, la sua storia. Imperfetta, onesta, umana troppo umana.
gran bel libro anche se ho preferito le rose della colpa
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