Dopo aver vissuto per anni, tutta l’età del
jazz, ben al di là delle proprie possibilità economiche creative ed emotive,
Francis Scott Fitzgerald si trova a fronteggiare la battaglia finale con conti
lasciati in sospeso per troppo tempo. La bolla alimentata con una vena di
romantico abbandono si espande e si gonfia increspando la superficie, una
scintillante evanescenza destinata a esplodere come ogni bolla che si rispetti.
Francis Scott Fitzgerald mette un’ipoteca pesante sulla speranza di una seconda
chance, e all’alba del 1936, le sue condizioni sono così descritte da Kyra
Stromberg in Zelda e Francis Scott Fitzgerald: “Non ancora
trentanovenne, è un uomo stanco, malato, sfinito. Scrivere racconti diventa una
costrizione insopportabile. Si impone di lavorare, aiutato dalla sua mano
felice. Gli argomenti dei suoi testi divengono artificiosi o casuali,
addirittura anacronistici, la scrittura è affrettata. Per la prima volta gli
vengono riproverate imprecisioni stilistiche, anche se Dorothy Parker gli riconosce
che potrebbe anche scrivere cose brutte, ma queste non sarebbero mai scritte
male”. Tutto quello che riesce a mettere insieme, con somma fatica, è la
descrizione del suo fallimento. Non ha altri colpi da sparare e allora rende
spettacolare e infinito, come un attore senza battute che non sa lasciare il
palco, spiegando con Il crollo la forma dell’estremo limite umano, il confine
finale visto che “l’impatto dell’ultimo colpo è stato più violento dei due
precedenti, ma di natura identica: la sensazion di trovarsi al crepusclo in un
poligono di tiro deserto, con un fucile scarico in pugno e i bersagli
abbattuti. Nessun problema in vista: semplicemente un silenzio, e come unico
rumore il mio respiro”. La micidiale convergenza di malattia, disillusione (“La
condizione dell’adulto senziente è una condizione di infelicità circoscritta”),
stanchezza e solitudine lo porta a paragonarsi a una stoviglia inutilizzabile,
dato che “quello che aveva davanti non era il piatto ordinato per i suoi
quarant’anni. In realtà, dato che lui e il piatto erano una cosa sola, si è
descritto come un piatto crepato, di quelli che non sai se valga o no la pena
conservare”. Il crollo non fa che certificare l’impossibilità di una via d’uscita:
“attenzione, fragile” è la dicitura che, nel marzo 1936, inaugura la parte
finale ed è un grido accorato, sentito, scomodo, lancinante, vero, e ossessivo.
E’ la confessione di un fallimento a più strati che scalfisce anche la natura
più intima dello scrittore che “non ha bisogno di certi ideali, a meno di non
crearseli da solo, e il qui presente ha smesso”. Anche se sta lavorando a Gli
ultimi fuochi,
uscito ormai postumo, Il crollo sarà il suo epitaffio, accolto con
costernazione anche dagli amici più vicini come Hemingway e John Dos Passos.
Zelda, la Costa Azzurra, le canzoni di Cole Porter sono lontani ricordi ormai
offuscati da “troppe lacrime, troppa rabbia” e per dirlo con Walt Whitman,
Francis Scott Fitzgerald si trova in un angolo dove “il luogo è augusto, le
circostanze avverse”.
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