Nei suoi cadres, Henry James somma racconti, parti di romanzi che poi prenderanno forma compiuta (o resteranno embrioni incompleti), spunti per soggetti letterari e teatrali (la sua personale diatriba sulla diversità delle due espressioni serpeggia dall’inizio alla fine tra i suoi appunti), brevi indicazioni per ghost stories, pagine di diario in cui si mostra in tutta la sua debolezza, sperando, al limite, di ricavare “qualcosa di abbastanza buono dall’idea annotata tempo addietro”. E’ uno scrittore che si concede e si abbandona al tormento e alla bellezza del suo lavoro in modo totale, senza limiti e si sente anche nel caotico work in progress dei suoi Taccuini. Alla scrittura, suo personalissimo rifugio, eleva un’elegia: “La consolazione, la dignità, la gioia della vita consistono nel fatto che scoraggiamenti e crolli, depressioni e tenebre capitano soltano quando uno si trova fuori, intendo dire fuori dal luminoso paradiso artistico. Non appena ci rimetto piede, attraverso l’amata soglia, mi ritrovo nell’alta sala e negli ori divini, l’intero reame torna a schiudersi dinanzi e intorno a me, l’aria della vita mi indonda i polmoni, la luce del traguardo conquistato si diffonde su tutto quanto io credo, vedo, faccio”. Sono altre le asperità e le istruzioni per l’uso nascoste nei Taccuini di un grande scrittore, si rivelano un manuale che usa frammenti e frattaglie per comporre un mosaico incredibile e fluttuante, da dettagli in apparenza insignificanti a voli pindarici tutti da tracciare. Henry James si dibatte attorno alla misura dei racconti (le diecimila parole, più o meno, sono un’ossessione), alla loro costruzione, ai soggetti e alla vita dei personaggi. I Taccuini non servono soltanto a riparare per aver “perso troppe cose per aver perso, o meglio, per non aver preso”. Sono anche un making of giornaliero, in tempo reale, con riflessioni sull’etica e sull’estetica del lavoro e dello stile, sulle difficoltà e sui momenti difficili in cui la scrittura non risponde ai comandi, dall’ispirazione alla consolidamento di una forma. Scrive l’undici marzo del 1888, domenica: “Sono qui seduto: impaziente di lavorare: con il solo desiderio di concentrarmi, di non mollare: pieno di idee, pieno di ambizione, pieno di capacità, così ritengo. Talvolta tuttavia gli scoramenti paiono più grandi di tutto quanto il resto, i rinvii, le interruzioni, l’éparpillement, ecc. Ma coraggio, coraggio, e avanti, avanti. Se proprio si vede generalizzare, questa è la sola generalizzazione. Da fare c’è un’immensità e, senza vana presunzione, per male che vada ne avrò fatta una parte”. Si concede anche una buona dose l’autoironia quando all’Osborne Hotel di Torquay annota, l’otto settembre 1895: “Eccomi di fronte a varie piccole alternative di lavoro, anzi, a dire il vero sono un po’ in imbarazzo pr via di certe promesse che continuo a rimandare. Debbo quindi trovare qualche soluzione e soddisfare i miei impegni. Tra l’altro è un’idiozia sprecare tempo a riportare osservazioni del genere!”, ed è con un geniale sorriso che si congeda.
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