Sono gli ultimi anni per Bukowski, per Chinaski, per il vecchio Hank e per tutti i suoi alias. La scrittura in forma di versi, il più delle volte liberi e svolazzanti nelle pagine, è ormai lo strumento per lasciare aperta la porta sullo scorrere quotidiano di idee, emozioni e frattaglie di pollo per accorgersi che “erano tornate le 3.45 a Hollywood e il cielo nero entrava come un coltello e se eri vivo eri fortunato e se eri morto non lo sapevi mai”. Bukowski restava aggrappato ai suoi attrezzi, alle sue manie, all’illusione della poesia, alle parole che “incitano a una nuova follia” con la passione, per non dire l’ossessione, dell’artigiano che non ha fatto altro per tutta la vita. Aveva senza dubbio ragione Fernanda Pivano quando, a dispetto di tutti i cliché e i luoghi comuni distribuiti a piene mani sul personaggio Bukowski, lo riteneva soprattutto “un grande lavoratore”. Colto, nel particolare frangente di Le ragazze che seguivamo, così come di altre raccolte postume, a svelare una dimensione intima e crepuscolare riassunta al meglio (e fin dal titolo) da proprio adesso: “La festa è finita, il gallo sta cantando e hanno ritirato i dadi, le ballerine russano, i topi strisciano nei bicchieri di carta, l’asino è trattenuto per la coda, la favola è strisciata via a morire, l’amore è coperto di polvere, i templi sono vuoti, l’uccello è volato dalla gabbia, la gabbia racchiude un cuore in miniatura che piange, il sogno ha fatto un tuffo e io sto seduto guardandomi le mani, guardando le mie mani vuote del rumore del momento”. Tutto quello che gli rimane è puntare sulla musa, o procastinare all’infinito, essendo un buon tardivo, sempre lì a tentare “di acchiappare qualcosa, correr dietro a qualcosa, un treno che passa, qualche roba invisibile che deve esistere”. Per non sentirsi solo, a scrutare nei miraggi e a credere che “è possibile essere davvero pazzi eppure esistere in rigaglie di vita” mentre tutti gli altri sono diventati “responsabili cittadini”, Bukowski convoca un coro di sobillatori, a cui rende omaggio, a modo suo. L’elenco disordinato di questo sporco, intrepido gioco dove Bukowski mette in fila Ezra Pound, Hart Crane, Hemingway e Dostoevskij, Carson McCullers e Sherwood Anderson, Li Po e William Saroyan, Chatterton e Pascal, Timothy Leary e Allen Ginsberg, Henry Miller e Richard Brautigan (per non dire, altrove, di Céline, Camus, Picasso e Wagner) è indispensabile per vedere e comprendere “la necessità della creazione, l’amore che c’è in lei, il suo pericolo”. E’ la confessione di un genio innamorato che insegue chimere ben più effimere e sfuggenti delle girls di Hollywoode e che nelle sue conclusioni, sa che il destino più o meno ineludibile è come quello di Tolstoj “seduto solo sulla strada. Tutti i giorni notte per sempre”. Nonostante ciò, insisteva, senza sosta a “fare lo scrittore”, vita che si era scelto perché “se solo vali poco più di niente riesci a tenere accesa la bagarre fino all’ultimo istante dell’ultimo giorno”, ed è proprio quello continuò a fare fino ai titoli di coda.
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