sabato 31 marzo 2012
Richard Yates
venerdì 30 marzo 2012
Charles Bukowski
Invitato dai suoi editori francesi e tedeschi, Charles Bukowski trasforma le sue avventure in Europa in un tour de force in cui sfoggiare le note caratteristiche della sua identità. Con molta sincerità, dovendo affrontare dozzine di interviste, risponde con un vademecum ideale, n riassunto delle favorite thing per cui vale la pena di vivere, secondo il suo modesto parere: “Non volevo essere perdonato o accettato o trovato, volevo qualcosa meno di questo, qualcosa che non fosse troppo: una donna di media bellezza di spirito e di corpo, un’automobile, un posto dove stare, qualcosa da mangiare e non troppi mal di denti o gomme a terra, nessuna lunga malattia prima di morire; anche una televisione con cattivi programmi sarebbe andata bene, e un cane sarebbe stato carino, e pochissimi buoni amici e un buon andamento dell’intestino e abbastanza da bere per riempire lo spazio fino alla morte di cui (per un codardo) avevo pochissima paura”. A ben guardare la lista dei suoi desideri non è complicata: ai suoi editori chiede soltanto qualche bottiglia di vino, ma se in America il buon vecchio Hank è uno dei tanti, in Europa viene trattato come una rock’n’roll star e spedito nel posto peggiore di tutti, ovvero in un talk show televisivo, dove è comunque capace di ubriacarsi e nello stesso di scatenare una rissa (che poi è il minimo, in quei posti lì). I suoi lettori lo venerano, ma Bukowski non è mai stato uno in cerca di gratificazioni, e tollera appena gli incontri pubblici, dove si presenta, magari fedele al personaggio, con regolare sigaretta e bottiglia di vino, rispondendo alle curiosità in mondo sempre più surreale. Finchè, straniero in terra straniera, non decide di rispondersi da solo, senza nemmeno aspettare le domande: “No, non ho idea del perché sono uno scrittore. No, le mie opere non hanno un significato particolare che io ne sappia. Céline? Sì certo. Perché no? Mi piacciono le donne? Be’, in linea di massima preferisco scoparle che viverci insieme. Cos’è importante? Il buon vino, il buon funzionamento dell’intestino ed essere capaci di dormire fino a tardi la mattina”. Il bis nel riferimento ai bisogni corporali non deve essere casuale: la “merda per sopravvivere”, come la chiama Bukowski, è dura da mandare giù e le cortesie dei suoi ospiti che lo portano a visitare le bellezze europee sono giusto un palliativo. In trasferta Bukowski è più Bukowski che mai e Shakespeare non l’avrebbe mai fatto è un diario di viaggio stralunato e inaffidabile perché estirpare Bukowski dal suo habitat naturale è peggio che liberare un leone in una città e, ça va sans dire, non ci vuole molto perché ne abbia abbastanza degli editori (francesi e tedeschi), dei musei, degli incontri, degli scontri. Il suo sfogo è lapidario (“Qualunque cazzo di scrittore fossi, non mi ero curato di scrivere il nome dei posti e delle città, quello che avevo visto, il tempo che faceva e i grandi sentimenti. Ormai tutto questo non era che spazzatura”) e la conclusione inevitabile e inimitabile: “Ho bisogno di bere qualcosa e di cambiare geografia”. Ne abbiamo bisogno tutti.
giovedì 29 marzo 2012
William Burroughs
mercoledì 21 marzo 2012
James Greer
Guy Forget è in coma in un letto d’ospedale. Il destino ha voluto che nel momento del fallimento, il suo piano non prevedeva alcuna alternativa, si poteva salvare grazie alla scomparsa del padre (e alla conseguente eredità). Invece ha sbagliato tutto, soprattutto a non seguire, con una certa responsabilità, un dogma che ha il tenore di un’ ammonizione: “In ogni procedura, in ogni sistema si arriva a un punto critico in cui si rende necessario un elemento di fiducia. E quell’elemento è il punto su cui far leva”. L’elenco degli errori che l’hanno portato a coltivare con metodica ossessione la sua sconfitta, ovvero proprio il suo Fallire, è lungo: ha creduto a Sven Transvoort, un bugiardo indomito, “uno di quei personaggi storici per cui secondo Hegel le regole non valgono”; come socio nell’avventura ha scelto il suo miglior amico, Billy, un dog sitter che porta a spasso i cani legandoli alla sua macchina (e questo è il meno peggio, nel personaggio); per giunta è innamorato di Violet, “emotivamente distante come poche volte si vede in un essere umano”, e dovrebbe bastare. Tra tutto, Guy Forget deve aver dimenticato che ha sbagliato città per il suo colpo perché “Los Angeles per natura attrae da tutti gli angoli del globo solo gli abitanti più concentrati su di sé, in altri termini, se non stava succedendo a te di persona, o in subordine a qualcuno di molto famoso, allora non succedeva affatto”. Un qualche dubbio doveva pur nutrirlo prima di inventarsi la rapina al cambio-assegni coreano con cui avrebbe finanziato il progetto Pandemonium, un’applicazione per infilare pubblicità subliminale in rete che nessuno saprà mai se funziona oppure no, se esiste o se è rimasta un’idea virtuale al cubo. Confusion Is Sex cantavano i Sonic Youth sull’altra costa e la citazione spicca all’improvviso come una nota squillante: James Greer ha frequentato a lungo il mondo del rock’n’roll (prima come reporter, e siamo in buona compagnia, poi come bassista dei Guided by Voices) e la frammentarietà di Fallire, diviso in brevissime parte di due, tre pagine l’una, ricorda Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, una percezione della realtà sfuggente, persone e personaggi che si muovono in vortici concentrici e comunicano con brucianti e serrati, dove la definizione della parola vaga tra calembour, giochi di prestigio, ardite interpretazioni (“Se separi le parole dal rumore di fondo, perdono ogni significato. Se poi aggiungi di nuovo rumore, riacquistano senso”) e la certezza minimalista di aver capito che è proprio quella “la direzione in cui stiamo andando. Spazi bianchi, amico mio. Il futuro appartiene agli spazi bianchi”. L’ambizione nutre la sconfitta, l’attesa diventa la parte più dolce e Guy Forget, è l’emblema del Fallire: nella vita aggrappato all’illusione del colpo da un milione di dollari (gli servirebbe molto meno, in effetti); nel momento fatale sospeso in un limbo tra il fallimento e la voglia di vendetta, destinato a diventare un poltergeist, il vero riflesso dei nostri tempi.
martedì 20 marzo 2012
Walt Whitman
lunedì 19 marzo 2012
Douglas A. Martin
Una traccia del mio amore non è l’ossessione del fan per un oggetto del desiderio virtuale, per la vita da sogno della rock’n’roll star, per un mondo fantastico, per una visione inseguita con maniacale assiduità, sapendo che è inarrivabile. E’ una love story dolorosa e cristallina, persino sincera quando Douglas A. Martin confessa nelle prime pagine di Una traccia del mio amore: “Il desiderio è tutto quello che ho. Tutto quello a cui mi posso aggrappare”. Colpisce subito la scrittura pulita, ordinata, precisa, soprattutto nella prima parte, quando deve raccontare “la stagione del cambiamento, un tempo in cui non ti lasciava dormire l’eccitazione di una promessa ignota, qualcosa di là da venire. Un altro giorno, un’altra mattina. Un’altra esaltazione da attraversare fino in fondo. Un mattino ti svegliavi ed era lì”. Poi si fa più schematica, quasi a voler dare ordine a un legame impalpabile tra un ragazzo incompiuto, timido, silenzioso e la rock’n’roll star fragile, coerente, sfuggente per natura, sempre in partenza. Quando trova l’amore, agognato, atteso, sperato è quello del cantante colto e indecifrabile che ha reso famosa la città di Athens, Georgia. L’incontro è casuale e avviene bevendo, ballando, immersi nella musica e nelle comuni amicizie e si trasforma in un intreccio complicato tra due persone che condividono qualcosa che appartiene ad un’era che precede i ricordi nonché un’infinità di differenze e di distanze. Sono due estremi che si attraggono per la comune di necessità di essere qualcuno per qualcun altro, di essere considerati, di essere vivi. Fin dai primi giorni la condizione del suo “amore” che deve partire, perché viaggiare è una parte preponderante del suo lavoro, è foriera di lunghe assenze e fosche previsioni. Il rapporto dura qualche anno e si consuma tra tour, saluti, case ammobiliate con scatoloni che nessuno vuoterà, momenti di pura passione e lunghe ondate di incomprensione. E’ una storia di tormento ed estasi perché stare in una rock’n’roll band è un affare esclusivo, è più di un lavoro, è più di una vita e c’è trattativa che tenga. Douglas A. Martin deve insegnarsi “a essere qualsiasi cosa” per rimanere abbracciato a quell’amore in salita, fino a quando l’imponderabile non diventa l’inevitabile realtà. La separazione avviene in modo drastico, eppure quasi senza produrre un rumore perché intorno tutto continua a funzionare e “la gente continua a incontrarsi. Continua a credere di vivere. O forse a loro basta, per loro questa vita è più che sufficiente”. Quando resta soltanto una traccia del suo “amore”, Douglas A. Martin si aggrappa a quello che gli rimane, come sempre, come chiunque e sono soprattutto le parole che ritrova così: “Penso al suono che fanno le cose. Voglio che nella mia mente scorrano soltanto parole che conosco, che posso controllare, capire facilmente. Se mi circondo di parole a sufficienza, loro sono mi abbandoneranno più. Voglio che le parole continuino a scorrermi nella mente”. Intenso, scomodo, struggente.