Quando esplode la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, un destino scritto nel nome, il Golfo del Messico e le coste americane vivono una primavera e un’estate di terrore. E’ l’aprile del 2010 e un’incredibile serie di omissioni, errori, cedimenti portano a quello che è definito, con più di una ragione, “il più grande disastro ecologico di tutti i tempi”. Eppure il sottotitolo, per quanto eclatante, non è sufficiente, o meglio è solo l’inizio. L’apocalisse generata dal disintegrarsi della Deepwater Horizon e dall’immane quantità di idrocarburi fuoriuscita nell’oceano è senza dubbio e in tutta evidenza una tragedia ambientale perché, come dice uno dei testimoni, “la natura è crudele, ma quello che sta succedendo qui è persino peggio. Nessuna creatura vivente dovrebbe patire questo tipo di sofferenza”. Sia l’oceano che le coste della Louisiana e del Mississippi (peraltro già bastonate dagli uragani Katrina e Rita) nonché dell’Alabama, della Florida e del Texas brulicano di vita e “non ci sono solo gli esseri umani, ma tutti quelli che abitano in questo posto”. Per cui non ci voleva Un mare in fiamme per immaginare l’entità dei danni, che sono e saranno rilevanti a più livelli. Per il danno che subisce la pesca, sportiva e commerciale e per la conseguente moratoria che ha limitato le perforazioni. L’oceano in entrambi i casi è il protagonista, vissuto in modo drammatico dalle più oscure profondità alle spiagge e alle paludi e Carl Safina non cede alle dietrologie, che pure vengono spontanee, e non alimenta improbabili ipotesi o teorie della cospirazione. Il metodo è rigoroso e scientifico, mentre l’approccio è narrativo: Carl Safina sa tenere il lettore avvinghiato alla pagina anche quando riflette sugli aspetti tecnologici e ambientali sia quando indaga nei linguaggi criptici, banali e il più delle volte fuori luogo delle agenzie governative e degli anonimi portavoce delle multinazionali. Le descrizioni tecniche delle perforazioni, indispensabili per comprendere la genesi dell’incidente, dimostrano una proprietà di linguaggio notevole, capace di raccontare miscele di cemento, sistemi di monitoraggio, modelli e proiezioni con grande passione e altrettanta precisione. In genere tutte le annotazioni di carattere scientifico, come il volume della fuoriuscita del petrolio, sono trattati alla pari di soggetti protagonisti. Poi Carl Safina si muove come un giornalista della vecchia scuola: guida, cammina, naviga e vola per incontrare le persone e per parlare del disastro. Con un tocco da storyteller che usa le parole semplici del common man per spiegare l’imponderabile. Come ha detto qualcuno: “E’ successo quello che ci avevano detto che non sarebbe potuto succedere” ed è qui che Un mare in fiamme svelta come “la posta in gioco è la dignità umana, ma qui molte persone, cittadini di un paese imperfettamente unito, hanno la sensazione di averla perduta”. L’inadeguatezza del genere umano è sottintesa. Il fatto che “hanno imposto questa catastrofe a tutti” è un accento che tocca in modo sensibile l’idea stessa di libertà e di democrazia. Una lezione di educazione civica.
Nessun commento:
Posta un commento