Il suo mondo di “ordinaria follia” è più beat dei beat ed è più lost dei lost: Charles Bukowski è un outsider geniale e incontrollabile che si inventa un universo tutto suo dove il sesso (più di ogni altra cosa), le corse ai cavalli, la birra e il vino costituiscono gli elementi standard del racconto, i soggetti con cui costruisce la sua narrativa e con cui sviluppa la sua stessa voce. Le sfumature scandalose, se ancora si possono chiamare così, le espressioni colorite dello slang, la punteggiatura che va e viene secono un’anarchia totale delle pagine rendono Bukowski unico soprattutto per lo stile, per il linguaggio, per il modo di affrontare la scrittura. Uno dei suoi possibili autoritratti, Storie di ordinaria follia ne è pieno, è questo: “Faccio scorrere l’acqua calda, mi immergo nella vasca, stappo una birra, do una scorsa al bollettino delle corse. Il telefono squilla. Lo lascio suonare. Per me, per voi magari no, per me fa troppo caldo per scopare o per parlare con qualche poeta di second’ordine. Hemingway, lui aveva i suoi tori, a me, datemi solo un cavallo. Per me è la prima cosa”. La sua filosofia invece distingue con chiarezza tra le aspirazioni del vincente e l’eterna condizione del loser. Se la vittoria è l’aspirazione nazionale (come scrive all’inizio di Storie di ordinaria follia: “Uno deve riuscire vincitore in America, non c’è niente da fare, non c’è altra via d’uscita, e bisogna imparare a combattere per niente, senza fare domande”) il fallimento e la sconfitta sono gli argomenti preferiti di Bukowski che vivendoli giorno dopo giorno, a modo suo s’intende, ha imparato a riconoscerli a prima vista, tanto da credere di potere insegnare a sua volta la lezione. Eccola qui: “Tutti perdono. Guardateli. Se ne siete capaci. Un giorno alle corse v’insegna più di quattro anni all’università. Se mai insegnassi scrittura creativa, inviterei i miei allievi a recarsi all’ippodromo una volta a settimana e fare almeno una giocata da 2 dollari per ogni corsa. Sul vincente. Non sui piazzati. Chi gioca i piazzati è uno che avrebbe preferito restare a casa, ma poi è andato lo stesso alle corse. I miei allievi diverrebbero senz’altro più bravi a scrivere, anche se molti di loro comincerebbero a vestire in modo trasandato, e dovrebbero magari andar a piedi. Mi ci vedo, insegnante di scrittura creativa”. Chissà il divertimento, ma quello che si propaga da Storie di ordinaria follia è qualcosa che va oltre la scrittura: è un modo irriverente, sfrontato, risoluto e convinto di rimanere ai margini, di godersi la vita con poco e niente, come lo stesso Bukowski confessa: “L’unica premessa era che io non avrei chiesto nulla. E, sopra tutto questo, c’era come una specie di disco che girava e girava, nel retro del mio cervello, e ripeteva sempre lo stesso motivetto: non tentare, non provarci. Una buona norma, direi”. La vera forza di Storie di ordinaria follia e per estensione di Bukowski in lungo e in largo è proprio quella: distinguersi per eccesso di ribasso, accontentarsi di un posto caldo, di una birra fredda e, nella giornata giusta, di un buon cavallo. Il resto è superfluo.
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