E’ la storia di un amore disperato volto al sacrificio e alla pazzia. Irene è moglie di Gil e madre dei suoi tre figli. Più di tutto è la sua (unica) modella perché Gil è un pittore affermato e instabile. Sono una coppia estrema, ammirata e invidiata, ma il loro matrimonio è diventato una gabbia: si amano senza limiti seguendo “la ferocia che c’era tra loro, la necessità”. Qualsiasi cosa, una discussione, una notte di sesso, una piccola questione famigliare viene espansa ai confini della tolleranza umana. Per sopravvivere l’amore ha bisogno di ben altre condizioni e sanno anche loro che “l’infatuazione, l’attrazione improvvisa, è in parte una febbre di superfici, una mancanza di conoscenza. Innamorarsi viene quando amiamo la maggior parte delle cose che sappiamo dell’altra persona e possiamo tollerare i difetti che non si possono cambiare”. Irene e Gil invece non si vedono proprio limiti e anno dopo anno, tra loro la tensione diventa insopportabile. Gil, accorgendosi che Irene tiene un diario lo va a leggere temendo di essere stato tradito. Quando Irene si accorge della sua intrusione, la sfrutta scrivendo storie di amanti che non ha mai avuto. La provocazione dovrebbe servire per allontanarsi da Gil, spigendo l’accelleratore verso la separazione e invece innesca una spirale emotiva e psicologica devastante. La coppia s’infila in quel cul de sac dove l’amore diventa un rituale cannibalesco. Lei continuava a vedere in lui qualcosa “in mezzo a tutta la merda che volava, una fiamma regolare e costante”, come dirà poi una piccola ed efficace testimone. Lui coltiverà qualcosa che “qualcuno la chiama rifiuto. La gente ci scherza sopra, o arriva al punto di guardare dall’alto in basso coloro che restano testardamente attaccati a un’idea senza speranza, specie quando si tratta di una relazione. Eppure, in certe persone il rifiuto può essere visto come qualcosa di nobile. Può essere visto come una forma di sacra follia”. Con i figli innocenti, ma non ignari testimoni della tormentatissima love story, Irene e Gil rimaranno legati fino alla fine, su cui, vista l’evoluzione di Passo nell’ombra, è lecito non aggiungere di più. Louise Erdrich scrive come se avesse una partitura musicale davanti, battendo su un ritmo poco mosso ma inesorabile e preciso. Scandito da due citazioni musicali che, non a caso, circoscrivono il Passo nell’ombra. Joni Mitchell evocata en passant all’inizio mette in chiaro subito quale sarà il tono generale. Viene da pensare che i dischi in sottofondo siano quelli della maturità, ovvero Wild Thing Run Fast e soprattutto Night Ride Home, quest’ultimo anche perché presentava una Cherokee Louise con i lineamenti della Louise di Passo nell’ombra e, chissà, forse della stessa Louise Erdrich. La citazione di Gordon Lightfoot nel finale è invece molto più calibrata ed esplicita. Va scoperta da soli perché è una specie di sigla in fondo a un romanzo amaro e toccante, costruito in modo geniale e svolto con una grazia, proprio nella scrittura, a dir poco emozionante. Un capolavoro.
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