Tutto ruota attorno a un bombardamento a tappeto visto da dentro, dall’interno di un mattatoio che è nello stesso tempo luogo e metafora, ventre malato e osservatorio privilegiato. L’obiettivo è Dresda, siamo negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, e della città non resterà nulla, a parte moncherini anneriti di edifici, brandelli di carne sulle strade e un’aria irrespirabile. Kurt Vonnegut, testimone involontario della tempesta di fuoco (e qui non in senso figurato: a causa delle turbolenze e degli spezzoni incendiari si sviluppò un vero e proprio vortice di fiamme che avvolse tutta la città) in quanto prigioniero di guerra, una volta sulla soglia del suo nascondiglio legge quell’apocalittica realtà con frasi di una precisione millimetrica: “Non fu prudente uscire dal rifugio fino a mezzogiorno dell’indomani. Quando gli americani e le loro guardie vennero fuori, il cielo era nero di fumo. Il sole era una capocchia di spillo. Dresda ormai era come la luna, nient’altro che minerali. I sassi scottavano. Nei dintorni erano tutti morti. Così va la vita”. Un romanzo dalla forza dirompente e di un capolavoro, qual è Mattatoio Numero Cinque non si può dire molto di più, se non che il protagonista si chiama Billy Pilgrim ed è affetto da una curiosa patologia, ovvero ogni tanto scoppia in lacrime (forse perchè, tra l'altro, ha scoperto il segreto del tempo, e non so quanti vorrebbero saperlo). Kurt Vonnegut è uno scrittore che riesce a sintetizzare ironie, polemiche, storie e paesaggi con una verve visionaria, sapendo soprattutto che “non c’è alcun rapporto particolare tra i messaggi, se non che l’autore li ha scelti con cura in modo che, visti tutti insieme, producano un’immagine della vita che sia bella, sorprendente e profonda. Non c’è principio, parte di mezzo o fine, non c’è suspence, né morale, né cause ed effetti. Quella che amiamo nei nostri libri è la profondità di molti meravigliosi momenti visti tutti in una volta”. Attualissimo, ancora oggi, in modo straordinario, (basta rileggere le pagine che dedica al rapporto tra gli americani e la povertà) anche perché la storia si ricicla senza fantasia, le vite vengono travolte dalla guerra senza riuscire a capire come ci si è arrivati e perchè non finirà mai. Il coraggio e la bellezza in un narratore come Kurt Vonnegut stanno nel fatto che lui le grandi domande se le pone, magari con il sorriso sulle labbra e tra le righe, ma senza temere le polemiche o le critiche o entrambe. Senza fuggire in trame di circostanza e personaggi edulcorati, anche a costo di dire: “Ho fatto cattivo uso della fiction per diffondere le mie strampalate idee sugli Stati Uniti d'America, follie che sarebbero più consone alla pagina degli editoriali di qualche giornaletto mal stampato dai fanatici delle france più estreme. Prima tra queste idee, quella che il morbo più diffuso tra i miei connazionali è la solitudine”. E’ vero, poi, come dice lo stesso Kurt Vonnegut che “nella vita ci sono più cose di quelle che si leggono nei libri”, ma i suoi romanzi sono una sorta di rimedio, un modo per sognare di versamente o per leggere più a fondo la realtà, senza aver paura di riderci sopra.
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