Per Jim Carroll i rituali di iniziazione alla vita non escludono nessun gradino della discesa negli inferi della civiltà metropolitana: droga (tanta e pesante), prostituzione, violenza, cinismo. Gli anni di un bambino “ingoiati dalla città” diventeranno i suoi “basketball diaries”, andata e ritorno nelle ombre della città che poi è sempre New York City. Agli elementi instabili e pericolosi della vita “wild in the streets”, Jim Carroll ne aggiunge un altro, altrettanto selvatico e velenoso, la scrittura (il rock’n’roll per il “catholic boy” arriverà in forma di salvezza, attraverso Patti Smith, ma questa è davvero un’altra storia) a cui affida il tormento e la bellezza delle sue visioni. C’è qualcosa di genuino nel perverso entusiasmo con cui Jim Carroll affronta le pagine dei suoi “basketball diaries” sbattendo nero su bianco il caos quotidiano di spacciatori, poeti, cestisti, musicisti, tossici, disperati di varia forma e naturata e almeno qualche altro milione di modi di vivere e (più spesso) morire. La sua narrazione, che qualcosa deve a William Burroughs, è scheletrica, grezza, eppure intensa. Con abbondanti dosi di autoironia, un colto fraseggiare e qualche punta di sarcasmo, non priva di una verve polemica (“Siete tutti vecchie palle al piede, governi di morte e accecanti capelli bianchi” scriveva, e come non è difficile condividerlo) i suoi “basketball diaries” rimangono una pagina cruda e indelebile di quella letteratura che ama frugare nell'oscurità, nelle backstreets, nei sogni asciutti e nei letti sfatti del Chelsea Hotel in cerca di una qualche luce. Il suo taglio è spietato, frutto della darkness metropolitana piuttosto che della ricerca intellettuale, delle esperienze “sul campo”, dove il tempo è scandito da quell’orologio chimico che non lascia scampo. La prima ancora di salvataggio sarà proprio la scrittura, una forza rivelatoria che si manifesta proprio con i “basketball diaries”, quando Jim Carroll scopre che “alla fin fine la droga è solo una delle tante versioni della gran menata dalle nove alle cinque, solo che le ore sono un po’ più spostate verso le ombre”. Una gabbia, una camicia di forza, un peso che ha l’effetto di costringere Jim Carroll a liberarsi per annusare un’aria diversa e per scoprire cos’ha dentro, per provare a sciogliere quel groviglio di decadenza umana di cui si è nutrito, ancora prima di conoscere tutto l’alfabeto. Il primo passo, ormai in fondo ai “basketball diaries”, sarà scoprire lettura e scrittura: “Più leggo, più capisco, ormai, un fatto che diventa ogni giorno più evidente, che ho bisogno di scrivere. Penso alla poesia e per come la vedo io è un blocco di pietra grezza che aspetta solo di essere modellato, cosicché le parole per me non sono mai un orribile limite, ma solo strumenti con cui dare forma. Prendo le immagini che mi vengono dall’archivio al piano di sopra (mi vengono sempre come immagini) e io le uso come mattoni, certe volte impilandoli bene bene e certe altre incasinandoli, così c’è il rischio che poi ti cascano addosso”. Sì, il rischio c’è sempre.
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