Due racconti ambientati sul quadrato del ring portano nella boxe la tensione umana e sociale di tutta la narrativa di Jack London: nel primo il boxeur combatte per la fame; nel secondo, per la rivoluzione. Uno è un pugile alla fine della carriera, l’altro un giovane pronto a tutto: stessa lotta, due risultati opposti. L’accostamento magari non era previsto da Jack London, visto che i due racconti sono usciti distanziati e differenziati, ma qui combaciano alla perfezione. Sia per Tom King che per Felipe Rivera la boxe è un mezzo: al primo serve per non mandare a letto i figli senza cena; per il secondo è lo strumento per finanziare la rivoluzione (messicana) e non fa nulla per dissimulare il suo odio: “Odiava la boxe. Era lo sport odioso dell’odiato gringo. Se aveva cominciato a incrociare i guantoni, facendo da sacco da allenamento per gli altri pugili, era stato per fame. E il fatto che sembrasse costruito apposta per quello sport non voleva dir nulla. Lo odiava”. Da quel grande narratore che era, uno dei maggiori del ventesimo secolo, Jack London mette in scena un’altra versione della sfida tra preda e predatore in cui le parti spesso s’invertono. In entrambi i combattimenti le figure sono riprese (il termine cinematografico ha qui tutta una sua logica) con inquadrature ravvicinate: i muscoli, le smorfie, lo stesso quadrato del ring occupano il primo sguardo. La rappresentazione plastica della boxe ha una teatralità che lascia intuire infinite metafore, però tutte intrise di sangue, sudore e lacrime a livello del ring e complotti, intrighi, scommesse nella platea ululante. Lo stesso boxeur vive di quelle “visioni infuocate e terribili che coglieva nitidamente, come se le stesse vivendo di nuovo mentre sedeva solitario nel suo angolo, gli occhi spalancati, in attesa del suo consumato e furbo avversario”. La stessa costruzione dei personaggi è florida, volitiva e colorita. Felipe Rivera, il giovane pugile che si batte per finanziare la rivoluzione, “è la personificazione di ciò che è potente”, ed è anche “il primitivo, il lupo selvatico, il serpente pronto a colpire, il centopiedi velenoso”. Altrettanto vale per il calcolo delle probabilità: se l’atmosfera di miseria che avvolge Tom King pare avviarlo verso l’ineluttabilità della sconfitta, pur accompagnato dalla speranza (compresa quella del lettore), per attentare alla fiducia di Felipe Rivera si scomodano immagini ai margini della metafisica perché secondo qualcuno “ha tante probabilità di farcela quanto una goccia di rugiada che cada all’inferno!”. Eppure, nonostante tutto e nemmeno per un istante Jack London perde la visione d’insieme o dimentica i motivi per cui quegli uomini stanno combattendo e incisa con graffi chiarissimi tra le pieghe dei due racconti c’è una sottile eppure precisa dedica in cui si ritrovano i loser, gli outsider, i perdenti, gli emarginati, “in una parola, tutta la schiuma di spiriti ribelli prodotti da quel folle e complicato mondo moderno”. La boxe diventa uno strumento di riscatto e i destini di Tom King e Felipe Rivera prima si sommano e poi si elidono, come due boxeur che nel pieno del combattimento si abbracciano sfiniti, ed è una tattica pure quella.
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