giovedì 30 settembre 2010
Charles Willeford
mercoledì 29 settembre 2010
Tom Franklin
Il paesaggio che circonda i personaggi dei racconti di Tom Franklin è una sorta di terra di nessuno dove la wilderness tende a cancellare le impronte degli insediamenti umani. Le piante rampicanti (quel kudzu che ritorna come un refrain), il fango, la polvere non sono elementi decorativi, la cornice che delimita l’area dell’azione ma l'humus vero e proprio in cui si muovono i personaggi. Ci devono combattere, ogni giorno e ogni notte, come i Bracconieri dell'omonimo racconto, o può rappresentare un momento di estasi, come sognano i viaggiatori di Alaska o, ancora, può diventare un'epifania come succede al protagonista di Triathlon: “Non ho mai avuto una visuale così ampia e profonda, il cielo a ovest incide solchi rossi al di là dei lontani alberi azzurrini. Vedo sull'orizzonte lo svolazzo delle luci delle torri radio e delle ciminiere. Le cime degli alberi che si estendono di sotto sembrano abbastanza solide per camminarci sopra. Sarebbe facile dimenticarsi della vita che conosci là sotto, pensare a essa come fosse il fondo del mare, un luogo dove sagome scure si muovono tra colonne di luce, dove gli insiemi delle cose si spostano come nuvole”. Non si tratta soltanto di particolari, ma sono proprio le coordinate che determinano ogni singola storia, gli elementi che spiegano il contesto, il movimento dei personaggi, per certi versi anche il linguaggio, il ritmo e l'incedere della scrittura. E’ naturale che, una volta tracciato il fondale, rimangono la vita e la morte “là sotto” e sono argomenti molto, troppo umani per non sfuggirli e Tom Franklin racconta così, con un'abilità cinematografica per il dettaglio: “Ieri sera ho preso l'ascensore col mio Jack Daniel's in tasca. Lunghi e bianchi corridoi d'ospedale. Bigi pannelli di legno su cui far scorrere le dita. Rutto. Mi sono perso. Chiedo e un tipo mi indica la stanza. Sono rimasto lì impalato accanto alla porta. Poi ho bussato e sono entrato. Era più pelle e ossa del solito, una cera ancora più pallida, ma cominciò a chiacchierare come fossimo nella sua veranda e tutto filasse liscio”. Basta poco: una luce, un dettaglio, la giusta prospettiva. Senza lasciarsi abbagliare dagli strilli e dai messaggi lanciati per aria, c'è qualcosa di antico che emerge nella scrittura di Tom Franklin, qualcosa che nelle parti più oscure e vitali sembra quasi gotico, ma non è difficile intuire che dietro Alabama Blues ci sia un vero e sanguigno storyteller con il senso della storia non meno di quello del ritmo, con una spruzzata di sarcasmo che non guasta. L’esempio è nei suggerimenti che infila nell’ultimo messaggio utile per ogni loser che si rispetti: “Devi arrivare alla resa dei conti virilmente, con un po' d'onore, allontanare un bambino dai binari, restando tu stesso sotto il treno. Lanciarsi su una bomba a mano in battaglia e salvare undici compagni, roba del genere. La pistola alla tempia è una possibilità, ma allora ci vuole un bel colpo di scena”. Segnatevi il nome, potrebbe riservare delle sorprese, in futuro.
Phil Patton
venerdì 24 settembre 2010
Jim Harrison
C'è una vaga e diffusa tendenza a sottovalutare Jim Harrison: forse la sua natura estremamente riservata (preferisce andare a caccia e a pesca piuttosto che farsi intervistare) o il suo all american style tendono a dare un'immagine deforme dello scrittore e quindi della sua scrittura. In realtà resta un narratore con i fiocchi, capace di regalare personaggi che difficilmente si dimenticano e storie che vibrano dall'inizio alla fine. Nel caso qualcuno ancora non avesse avuto il piacere, è obbligatorio cominciare da Un buon giorno per morire, straordinario road movie schizzato sulla carta, dove follia e utopie si scontrano e si amalgamano con un improbabile triangolo amoroso. Ritmo a mille, dialoghi tagliati a colpi di serramanico, finale visionario: Un buon giorno per morire è l'equivalente letterario di Easy Rider, con l'aggiunta di un'ironia strisciante. Tra gli altri romanzi scritti da Jim Harrison (al pubblico femminile, in particolare, è caldamente consigliato il bellissimo Dalva), Luci dal Nord è forse il più malinconico e umorale: racconta il difficile rapporto tra Robert Corvus Strang, “un lavoratore”, già costruttore di dighe, e uno scrittore che dovrebbe narrarne gesta e leggende. Per inciso, Robert Corvus Strang è gravemente menomato da un incidente e la vita brillante che conduceva, da un posto all'altro del mondo, si è ridotta ad un bucolico sopravvivere nella wilderness dei Grandi Laghi. L'arrivo dello scrittore, (in cui, vista la dieta, non è difficile vedere anche un po' di Jim Harrison) che deve passare al vaglio la sua esistenza crea una serie di scosse telluriche nella tran tran ai margini della cosiddetta civiltà e Luci da Nord lo racconta tenendo ben presente che “la vita non è segmentata artificialmente in ciò che noi chiamiamo giorni, mesi, anni, albe, mezzogiorni, sere, notti; piuttosto la vita è scandita dai nostri stati d'animo, dalle impressioni, dai traumi, dai poteri che misteriosamente promanano dagli oggetti inanimati, dai sogni, da tutte queste cose cementate dal susseguirsi dell'amore, dell'odio e dell'indifferenza, dagli imprevedibili cambiamenti nel prisma della nostra comprensione, dal dilatarsi della passione e del desiderio che svaniscono in un momento, dissolvendosi in una sorta di inerzia, paura e indolenza”. Il confronto è articolato e spigoloso: “quelli come me sono pieni di profezie autogratificanti” dice Robert Corvus Strang e il suo interlocutore cerca di tenergli testa, variando un po’ in menù e i punti di vista (ed ecco il suo metodo per prendersi una boccata d’aria: “Mi sento meglio perché ho cambiato idea. Funziona sempre così: il cambiare idea rimuove un grumo dalla testa e ci spara dentro un po’ di ossigeno”). Il dialogo, che ha qualcosa di filosofico nel suo scorrere, riannodando le avventure e il lavoro di Robert Corvus Strang trasforma Luci dal Nord nel lato in ombra di Un buon giorno per morire: qualcuno vuol far saltare una diga, qualcuno le costruiva, tutti condividono il crepuscolo di un comune fallimento. Jim Harrison non sarà uno scrittore come Thomas Wolfe, Tennesse Williams, Saul Bellow o Lorca, Rilke, Thoreau e Shakespeare (tutti citati nei dialoghi con Robert Corvus Strang), ma con Luci dal Nord ha scritto un romanzo sull’immobilità, sulla natura (“L’unica metafora fra noi e fiumi è che neppure noi possiamo fermarci un istante”), sugli stati d'animo cercando di provare a dare un senso alle verità della vita. Con tutti i limiti delle parole e della scrittura e sapendo, come scrive in Luci dal Nord che “il mondo stesso deve andare parecchio al di là della serie delle cose che leggiamo e continuiamo a leggere su di esso”. Ci provano in pochi, ormai.
mercoledì 22 settembre 2010
Philip Roth
Cormac McCarthy
Alla fine John Grady Cole è arrivato da qualche parte, in una Città della pianura che ha il compito di chiudere la famosa Border Trilogy di Cormac McCarthy, cominciata da Cavalli selvaggi e salita a livelli di assoluto lirismo in Oltre il confine. Tutta l'epopea della frontiera trova in Città della pianura una sorta di definizione antologica e panoramica di tutte le contrapposizioni tipiche della scrittura di Cormac McCarthy: ci sono le due lingue (l'inglese e lo spagnolo) che si alternano nei dialoghi, dando alla narrazione un ritmo unico; ci sono gli uomini e gli animali, a volte addomesticati, a volte selvaggi, sia che si tratti dei primi che dei secondi; ci sono frammenti straordinariamente legati alla terra e alla natura e percezioni spiritate; c'è l'amore (che sembra lo spunto per concludere l'intera trilogia) e c'è la violenza; c'è il deserto e ci sono le Città della pianura. Fedele al suo compito conclusivo, il romanzo sembra contenere un po' sfumature di tutti i libri di Cormac McCarthy (compresi quelli estranei alla Border trilogy: per esempio, i racconti della rivoluzione messicana potevano stare benissimo in Meridiani di sangue e certi oscuri personaggi vivere a loro agio in Il buio fuori) e usa il confine, il border per unire, più che per dividere, perché John Grady Cole scopre l'amore e i suoi tormenti e, chissà, forse diventa uomo. L'immagine che rende l'idea è un passaggio che funziona da cardine in Città della pianura ed è anche un bell'esempio della magnifica scrittura di Cormac McCarthy: “Nell'alba fredda le luci erano ancora accese, laggiù, sotto la sagoma scura delle montagne, e contribuivano a creare quell'impressione di preziosa insularità comune a tutte le città del deserto. Un uomo camminava con un mulo stracarico di legna da ardere. In lontananza, le campane delle chiese avevano cominciato a suonare. L'uomo gli lanciò un sorriso d'intesa. Come se fra loro ci fosse un segreto, solo fra loro due. Qualcosa che aveva a che fare con l'età e i giovani e le loro richieste e quanto c'era di giusto in queste richieste. E nelle richieste che gli altri facevano pesare su di loro. Il mondo passato, il mondo a venire. La precarietà che condividevano. E sopra ogni cosa una profonda, profondissima consapevolezza del fatto che bellezza e perdita sono tutt'uno”. Questo vale anche per la Border Trilogy: Cavalli selvaggi e Oltre il confine sono stupendi (soprattutto il secondo), ma la loro bellezza andrebbe perduta senza Città della pianura, che li ha rischiarati di una nuova, vivissima luce. Lo schema del viaggio, con la stessa progressione del volto di Borges, prende la forma di un disegno della vita, ma, come si legge nella liricissima coda finale di Città della pianura “la nostra mappa non sa nulla del tempo. Non ha la capacità di parlare nemmeno delle ore implicite nella sua stessa esistenza. Non di quelle che sono trascorse, non di quelle a venire. Eppure nella sua forma conclusiva la mappa e la vita che essa rappresenta devono convergere, perché lì il tempo finisce”. E’ tutto quello che sappiamo, “eppure è tutto ciò che abbiamo”. Un momento, un ricordo, un frammento, un punto di domanda sul labile border della vita.
martedì 21 settembre 2010
William Least Heat-Moon
Hunter S. Thompson
In questi diari di “paure e deliri” che risalgono al 1979, nella prima parte, una specie di introduzione al folle mondo di Raoul Duke alias Hunter S. Thompson, è dedicata alla caccia allo squalo anche se lui in realtà va alla ricerca di molto altro (comunque, abbastanza pericoloso pure quello) e tra una fuga e una sbronza si riflette in “una scena di decadenza totale nella quale mi sentivo perfettamente a mio agio”. Inviato da Rolling Stone, all’epoca una rivista che aveva ancora un senso, Hunter S. Thompson affronta poi un bel reportage bel reportage su Cassius Clay alias Muhammad Ali dove sfodera tutto il suo talento nel costruire immagini e personalità girovagando per galassie e galassie di parole e mischiando argomenti sportivi e politici. Puntellando spesso le sue acidissime disgressioni con piccole, brevi e fulminanti citazioni tratte dai migliori rock’n’roll songwriting dell’epoca (Allman Brothers, Marshall Tucker Band, Doug Sahm e John Prine) Raoul Duke attraversa (più o meno) indenne i lati oscuri e selvaggi del Super Bowl per inoltrarsi nella vera “grande caccia allo squalo” ovvero il Watergate. La metafora è suggerita dallo stesso Hunter S. Thompson quando ancora si barcamena nelle acque caraibiche cercando di reggere la sua dieta quotidiana di alcol, acidi e follie: “E quel che penso della politica statunitense più o meno rispecchia quel che penso della pesca d’altura, dell’acquisto di terra a Cozumel o di qualsiasi altra cosa in cui i perdenti si dimenano in acqua agganciati a un amo”. Tornato a casa, in modi a dir poco rocamboleschi, Raoul Duke viene mandato dai suoi redattori a seguire gli scontri istituzionali che dal Watergate in poi portarono alle dimissioni di Richard M. Nixon alias Dicky Tricky. La prima impressione è (sempre) quella che conta: “Era uno spettacolo inquietante: l’impero nixoniano, apparentemente invincibile meno di due anni fa, stava crollando davanti ai nostri occhi sotto il proprio orrendo peso. Impossibile negare le enormi implicazioni storiche di quella vicenda, ma seguirla quotidianamente era una esperienza noiosa e degradante che era difficile restare concentrati su quel che stava realmente accadendo. Sostanzialmente era una storia adatta agli avvocati, non ai giornalisti”. Dato che Hunter S. Thompson non è mai stato un reporter molto rispettoso delle regole, piuttosto uno scrittore visionario e lucidissimo nello stesso tempo e in qualche modo persino profetico sviluppa nei confronti del Watergate (e del suo principale protagonista) un’ossessione che lo spinge ad affrontare i protagonisti in modo brutale. La sua indignazione funziona a fasi alterne (inevitabile visto il suo tran tran quotidiano), ma non ha radici nelle passioni politiche o nella coscienza civile, nonostante l’orrenda natura delle congiure, dei mercanteggiamenti, delle falsità che hanno distinto l’occupazione delle istituzioni democratiche da parte dell’amministrazione Nixon. Quello che infastidisce Hunter S. Thompson nei suoi nemici pubblici è come “l’ingenua scelleratezza del loro linguaggio appare tanto inquietante quanto gli scellerati complotti che sono seguiti”. Nonostante i “deliri” e le “paure”, preciso, puntuale e, purtroppo, ancora attuale, e non solo per gli Stati Uniti d’America.
mercoledì 8 settembre 2010
Dave Eggers
mercoledì 1 settembre 2010
Larry Brown
“Non c’è niente di più importante del fallimento” ha detto una volta Bob Dylan e la frase si adegua alla perfezione per presentare il breve romanzo di Larry Brown. 92 giorni è un’elegia del fallimento, ma non nasconde nulla, non s’inventa una (falsa) mitologia da “loser”, mette sul piatto un niente che è livido e brutale nella sua franchezza. Senza alcuna concessione di sorta, a partire dal memorabile incipit, quattro righe che svelano tutto il (breve) romanzo: “Monroe venne a trovarmi un giorno, poco dopo il mio divorzio. Aveva portato un po’ di birra. Ero felice di vederlo. Ma, soprattutto, ero felice di vedere la sua birra”. Il protagonista di 92 giorni prende un “downbound train” lanciato a tutta velocità e nella più totale autoindulgenza non vede nemmeno arrivare il capolinea. Scrittore in crisi, uomo spezzato nei legami più intimi, trasforma la propria vita in un manuale dell’autodistruzione e Larry Brown è capace di trasformare il nichilismo insito tra le righe in una sorta di romanticismo bohemmienne, una forma di narrazione aspra, ruvida e incontinente nello scaricare sul lettore le tristi emozioni del protagonista. Travolto da un fiume di alcol e dall’incapacità di venire a patti con i propri “lati oscuri”, il protagonista di 92 giorni si costruisce un’identità da fottuto perdente che, al saldo delle trame psicologiche, è soprattutto una scappatoia dalle responsabilità e dalla realtà, peraltro ammessa con un certo candore: “visto che avevo scelto di essere un miserabile, volevo essere un miserabile a tempo pieno”. La sua vocazione per la sconfitta si scontra con le lettere di rifiuto e l’ostracismo del mercato editoriale, ma più di tutto con la sua autoindulgenza a cui è affezionato in modo particolare: “Avevo un posto dove stare. Avevo un letto, una sedia, qualche libro e dei dischi. La prima notte l’unica cosa che riuscii a combinare fu rimanere seduto a osservare un foglio di carta bianco. La notte successiva, la stessa cosa. Non mi veniva niente. Sapevo di aver perso l’ispirazione. Avrei dovuto passare il resto della vita a verniciare case. La terza notte, buttai giù un paragrafo con la macchina da scrivere e lo cestinai subito dopo. La quarta notte iniziai un nuovo racconto”. La scrittura stessa diventa una chimera: le sue idee, i suoi soggetti (c’è da pensare anche lo stile) diventano sempre più astrusi e i rifiuti editoriali sono solo l’altra metà dell’inettitudine e del tempo perso. Anche perché Larry Brown smonta pezzo per perzzo il consunto cliché dello scrittore che beve per scrivere, che distrugge invece di creare, che finisce nei pozzi più orridi della vita invece di raccontarli (e basta). La realtà è un’altra e lo sa il protagonista di 92 giorni come lo sa (molto meglio) Larry Brown: “Se vuoi scrivere, devi cercare di chiuderti in una stanza e scrivere”. Senza birra, e magari con qualche idea in più. Non ci sono sconti di sorta: il fallimento si paga e alla fine l’alcol e le droghe non sono nemmeno gli eccessi caotici (e, volendo, divertenti) ma solo il triste doping di una caduta inarrestabile, una decadenza umana univoca, puntellata da rari momenti di commozione, ma in fondo anche con una certa dignità: “Non c’era nulla che potessi fare se non andare avanti. Avevo già fatto tutte le mie scelte”. Un piccolo libro, duro e grezzo come un diamante: bello e scomodo, come a suo tempo aveva capito (e apprezzato) lo stesso Dylan.