Censurato, bandito, processato e poi spesso e volentieri emarginato, Hubert Selby Jr. ha trovato più spesso asilo e comprensione nell'universo del rock'n'roll che non in quello della letteratura. Per un motivo molto semplice: i bassifondi che ha esplorato, dove “ogni giorno che passa, a ogni passo, a ogni respiro, la città diventa sempre più selvaggia”, sono gli stessi che hanno cantato Lou Reed (che è anche un suo dichiarato ammiratore) e Jim Carroll e Johnny Thunders. La vita in un buco, l'esilio dell'eroina, la frenesia della street life, la disperazione e la follia: girovagare in quel genere di territori implica un coinvolgimento che non è facile risolvere, e poi bisogna mettere in conto che per il novantanove per cento del mondo, è meglio non saperne niente della giornata di un junkie. Hubert Selby Jr., sfidando la maggioranza silenziosa e le sue ipocrisie, nel 1964, già all'epoca dell'uscita di Ultima fermata a Brooklyn aveva colto perfettamente l'atmosfera cupa, violenta e crudele della vita metropolitana. Un giungla dove non c'è fondo, non c'è alcuna possibilità di redenzione, non c'è poesia e è per questo che il suo limite è la sua grandezza. Un linguaggio crudo, monocorde e volgare, che non concede nulla alla metafora o alle aspettative, anche legittime, del lettore. La sua scrittura è una specie di reportage dalle strade di New York, una panoramica ad orecchie ed occhi completamente aperti (e non è un caso che i suoi libri siano arrivani regolarmente al cinema, buon ultimo anche Requiem per un sogno), senza aver paura di cosa si possa sentire o vedere. Una discesa negli inferi che ha in Requiem per un sogno uno dei suoi capitoli più importanti, perché raccontando i tortuosi percorsi di Harry, Tyrone, Sara e Marion, la loro rincorsa alla dose quotidiana, i sogni bagnati di sudori freddi e la violenza di tutto il sottosuolo umano (dagli spacciatori ai poliziotti) che gli sta attorno, Hubert Selby Jr. tocca con mano la decadenza, la spirale verso il nulla della dipendenza e della vita nella parte sbagliata della strada: “Era un processo graduale, come la maggior parte delle malattie, e il loro insaziabile bisogno riusciva a fargli ignorare molto di quello che accadeva, distorcene dei pezzi, e il resto accettarlo come parte della vita. Ma ad ogni giorno che passava la verità era sempre più difficile da ignorare, e allora la loro malattia, con un meccanismo istantaneo e automatico, la razionalizzava e ne restituiva una distorsione accettabile”. Ai suoi personaggi non resta che “aspettare di vivere”, mentre la loro esistenza (che è difficile chiamare vita) arriva infine a destinazione, in carcere o al manicomio, un passo prima del capolinea definitivo. Una lettura impegnativa, ma doverosa.
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