C’è una linea sottile e invisibile tra l’innocenza e l’autoindulgenza con cui Patti Smith celebra il legame con Robert Mapplethorpe, come se celebrando lui stesse celebrando anche se stessa. In realtà riparte, riprendendo a scrivere con un tono al tempo autobiografico, saggistico e narrativo, e comunque in prosa, proprio da dove aveva cominciato, da quel Mar dei Coralli che era sbocciato sull’onda dell’emozione per la perdita del suo migliore amico, amante, mentore, testimone (fu lui a consegnarla agli annali del rock’n’roll sulla copertina di Horses). Quel breve commiato in forma di romanzo rimase irrisolto, una scintilla lontana nel tempo che qui viene riaccesa con uno slang informale, un po’ diario e un po’ reportage della vita bohémien di due giovani sperduti che si convincono a vicenda di essere artisti, destinati (va da sé) a diventare grandi. Vivere l’idea di artista come una vocazione (estrema), è un istinto primordiale che fin dalla giovanissima età, una Patti Smith in pelle e ossa, sentiva come una pulsione incontrollabile: “Il desiderio di unirmi alla fratellanza degli artisti era grande: la fame, il modo di vestire, i rituali creativi e le loro preghiere”, tutto quanto il catalogo. La sua fuga dalla provincia e dall’infanzia e il suo arrivo in città, New York, coincidono nell’incontro con Robert Mapplethorpe. Non hanno un dollaro, non sanno chi sono, eppure divorano libri, dischi, fotografie. Scrivono, leggono, dipingono e inseguono i battiti della città. “Avevamo soltanto bisogno di un po’ di fortuna” racconta Patti Smith e se la va a cercare incrociando il destino di quelli che oggi compongono una lunga parata di fantasmi: Jim Carroll, Andy Warhol, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Edie Sedgwick, Gregory Corso, Allen Ginsberg, per non parlare degli spettri che vagano tra le mura del Chelsea Hotel. Nella continua celebrazione di questi lutti, Patti Smith sembra prigioniera della sindrome di chi resta, ostaggio di ricordi e rimpianti. In realtà, c’è un chiaro omaggio, un tentativo di riscrivere uno spirito comune, collegando moltitudini di esperienze e visioni. Lo snodo è il suo esordio pubblico, la prima prova nel portare le parole dentro l’elettricità del rock’n’roll: Bob Dylan è tra il pubblico, non si può più tornare indietro. “Dove ci avrebbe condotto, tutto questo? Che ne sarebbe stato di noi? Erano queste le nostre domande giovanili, e giovani risposte si lasciarono trovare. Tutto questo conduceva a noi. Diventammo noi stessi” racconta Patti Smith e mentre Robert Mapplethorpe scopre, nello stesso tempo, la sua identità e la fotografia, lei si avvia a diventare una rock’n’roll star, partita da una chitarra di Sam Shepard e arrivata in cima alle classifiche con una canzone scritta “in collaborazione” con Bruce Springsteen. Così Patti Smith scrive le sue Chronicle, ma con un finale straziante e commovente perché quando Robert Mapplethorpe muore rimangono i filamenti luminosi di un legame indistruttibile che è la vera fonte da cui gorgoglia Just Kids. “Era un artista. E di quello mai avrebbe chieso scusa”, è il suo ultimo saluto. Vale anche per Patti Smith. Soprattutto per Patti Smith.
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