Bill è un pescatore che cerca la solitudine e il silenzio senza allontanarsi troppo e scopre in un torrente poco distante da casa una trota dalle dimensioni formidabili, più unica che rara. La visione, per un dilettante come lui, procura “sensazioni diverse e contrastanti: orgoglio e umiltà; la consapevolezza di non essere degno di un tale onore; gioia e timore” e la sfida a prendere il pesce lo porta a conoscere molto più della pesca e di se stesso. C’è da chiedersi se, in effetti, il delizioso racconto di William Humphrey non nasconda una o più metafora sulla vita e/o sulla scrittura, o su entrambe. Il suo piccolo mondo, circoscritto a una pozza di torrente, un ponte, un osservatore ai margini, definisce il campo in cui si muovono i protagonisti (il pesce e il pescatore), entrambi legati proprio da quegli elementi e solo alla fine collegati dalla lenza. Proprio come in un preciso laboratorio di percezioni: il tema è svolto con leggerezza, ma anche con arguzia, il tono (autobiografico e diretto) dell’ossessione è trattato con quel filo di ironia, utile a non credere o a scambiare una trota per “Moby Dick”, anche se l’essenza metaforica è la stessa. Il racconto ha quindi una sua fragilità e vive anche di parecchi rimandi, già dal titolo in sé, che dalle acque fredde del torrente portano spesso e volentieri sulle pagine di altri libri. Succede perché l’aspetto zoomorfo, naturale della trota si trasforma in qualcosa con le sembianze antropomorfe, quasi mitiche e se c’è una rivelazione in questa “pesca alla trota in America”, è che la pesca è la cosa più importante (non i pesci), ma i motti sono due e viene da pensare uno per uno, per il pesce e per il pescatore. Il primo viene dall’esperienza della pesca, ad di là dei risultati: è la pesca, non il pesce, sportiva riduzione del kantiano “ding an sich”, della cosa in sé, che William Humphrey infila lì nel mezzo del racconto con grande nonchalance. Il secondo, come rivela lo stesso Bill alias William Humphrey, viene da una vecchia canzone e dice: “non importa ciò che fai, ma come lo fai”. Tutti i particolari della pesca, la scelta dell’esca, la dimensione della lenza, il tipo di canna, l’attesa e i movimenti contribuiscono a dare tono e forma al racconto (anche se non lo decidono) e sono la conferma di una scrittura che, pur senza grandi velleità stilistiche, riesce a delineare una sorta di perfezione nella storia. Una conferma implicita è anche nella distanza dal gruppo di ragazzi che pesca le trotte per massacrarle e poi del loro coetaneo che invece osserva il pescatore in modo irriverente. La sua “tortura” è fatta di gelide ironie e battute che si aggiungono alle forche caudine del pescatore. Il suo “Moby Dick” ricorda allora anche “Il vecchio e il mare” di Hemingway, per quanto William Humphrey si guarda bene dal citarlo in modo esplicito e diretto. Ma il concetto è quello: anche il suo è un pesce che, per quanto muto e orbo, dice parecchio.
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