domenica 31 ottobre 2010

Michael Herr

Una ricerca linguistica approfondita nel gergo e nello slang delle forze armate. Una sorta di lettura analitica di un codice di comunicazione che comprende piccoli e infiniti gesti di superstizione, ordini in termini burocratici incomprensibili, grida di dolore e sagaci battute figlie di un umorismo che sfida le situazioni più macabre. E di molto rock’n’roll: nel Vietnam “ognuno si fa il suo film”, ma il suono, il ritmo, persino l’ortografia sono dettate dalle chitarre e dalle canzoni di Frank Zappa, dei Doors, dei Grateful Dead, di Bob Dylan e soprattutto di Jimi Hendrix. Per Michael Herr il Vietnam e il rock’n’roll vivono un legame simbiotico e il tono autobiografico di chi ha vissuto da vicino “il fascino della guerra” trasforma Dispacci in un romanzo pulsante, denso di intrecci linguistici, storici, che usa la narrativa per creare una realtà altrimenti impossibile da raccontare. In queste condizioni, il reporter deve farsi ben presto da parte, il gioco è pesante e i volti dei vivi e dei fantasmi si sovrappongono: “Si parla di impersonare un’identità, di rinchiudersi in un ruolo, di ironia: andai là per seguire la guerra e fu la guerra a seguire me; una vecchia storia, sempre che, naturalmente, tu non l’abbia mai sentita. Ci andai con la convinzione, grossolana ma seria, che si deve essere capaci di guardare qualsiasi cosa, seria perché agii di conseguenza e partii, grossolana perché non sapevo nulla, ci volle la guerra per insegnarmelo, che eri responsabile di tutto ciò che vedevi proprio come di tutto ciò che facevi. Il problema era che non sapevi sempre cosa vedevi, se non dopo, forse anni dopo, che buona parte di quel che vedevi non arrivare mai alla coscienza, si limitava a restare immagazzinato nei tuoi occhi. Tempo e informazioni, rock’n’roll, la vita stessa, non sono le informazioni a essere bloccate, tu lo sei”. Dispacci non è soltanto “il” romanzo sul Vietnam e sull’America perché, come scrive Michael Herr nelle ultime pagine, “dopotutto le storie di guerra non sono altro che storie di persone”. E’ una visione multiforme (a cui non a caso il cinema attingerà, in modi e in tempi diversi, da Apocalypse Now a Full Metal Jacket) e un breviario per leggere dentro un’era sanguinante, nelle pieghe di un conflitto tanto feroce quanto surreale. La dimensione allucinatoria, onirica o, in modo più banale, tossica di quella guerra, ancora oggi una faglia vuota nel ventesimo secolo, si attorciglia con naturalezza, e anche con una certa inevitabilità, al rock’n’roll, fino alla fine e persino oltre: “Fuori in strada non riuscivo a distinguere i veterani del Vietnam dai veterani del rock’n’roll. Gli anni sessanta avevano fatto talmente tante vittime, la guerra e la musica di quell’epoca avevano prelevato energia dallo stesso circuito così a lungo da non avere neppure bisogno di fondersi. La guerra ti aveva preparato per anni di sfortuna mentre il rock’n’roll era diventato più terribile e pericoloso della corrida, tanto che le rockstar cominciarono a cadere come i sottotenenti; estasi e morte e (naturalmente e certamente) vita, ma non sembrava così allora”. Un capolavoro, ancora oggi. 

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