Con Gli incantatori, le ossessioni di James Ellroy arrivano all’ennesimo punto di non ritorno visto che “quella mescolanza unica di star del cinema, politici di peso, corruzione di Hollywood e un violento sottobosco criminale è in gran parte scomparsa dalla coscienza del pubblico, e molti dei suoi più celebri e famigerati protagonisti ormai sono morti o hanno tutto l’interesse a mantenere il silenzio”. Anche Freddy Otash, l’investigatore privato più scaltro di tutta la West Coast, se ne è andato e Gli incantatori comincia proprio con un rapporto informale delle sue esequie, per poi tuffarsi a capofitto nella bollente estate di Los Angeles del 1962. Hollywood è il crocevia dove si intersecano culto della personalità, maniaci, gang, avvocati, procuratori, poliziotti e tutta “la coscienza criminale” che alimenta l’underground della città. Freddy Otash, incaricato da Jimmy Hoffa, sta tenendo sotto controllo Marilyn Monroe per farne uno strumento di ricatto verso i Kennedy e il suo lavoro “era tutto verismo da macchina fotografica umana/lampi di flash/scatti di otturatore. Quel film mentale osceno andò avanti e avanti”. Ben presto Freddy Otash diventa a sua volta una pedina in un complotto più grande che comprende il dissoluto making di Cleopatra, un film che sta trascinando verso il fallimento la Fox, un turbinio di inchieste (vere o false che siano), un affollato sottobosco di outsider e di perdenti (sono tutti attori e attrici in cerca di un ruolo). “È tutto una facciata” e Marilyn Monroe è proprio nell’epicentro per un breve, folgorante momento, consapevole della sua fragilità: “Sono soltanto una star del cinema troppo pompata, che vorrebbe essere qualcos’altro. Capisci? Per questo succhio granite e parlo con uomini estranei alle due del mattino”. La sua morte cambia lo scenario in modo drastico e non soloper Freddy Otash che fin lì è stato “un indicatore di indizi senza piste e senza conclusioni”. Secondo Jean Paul Sartre, “Marilyn è stata divorata dal nulla psichico dei valori americani” e attorno alla sua figura, dall’accanito fanatico al presidente in persona si coagula tutto un milieu di decadenza e follia. Così, la trama di Gli incantatori è come l’architettura di Los Angeles: non pianificata. A furia di organizzare intrighi e complotti, ci si immerge in un abisso di deviazioni sessuali, politiche, economiche e morali. Per dirla con Freddy Otash, “stasera noi siamo scambisti e anche peggio. Siamo i nuovi depravati. Nottambuli pronti a un incanto da poco. Siamo la polizia. Siamo gli imbucati con la missione di guastare la festa”. Il clima generale è nauseabondo, eppure James Ellroy riesce a farci provare empatia per Freddy Otash che è una “calamita per la merda” che lavora su convergenze e suggestioni, connessioni, complotti, illusioni ottiche e impronte digitali, “tutta quella roba” che rifornisce dossier riservati pronti all’uso al momento giusto. Il valore delle informazioni è sempre esponenziale e il potere resta l’unica, vera droga. Le reiterazioni rendono l’idea della noia e del tedio delle intercettazioni ambientali e l’imprevedibilità degli inseguimenti e della vita nelle strade (in realtà Gli incantatori è ancora un grande omaggio a Los Angeles), mentre le apparizioni di Stan Getz, Gerry Mulligan, Harry Belafonte, Orson Welles nonché Liz Taylor sono possibili grazie all’idea che “l’immaginazione è uguale ai fatti”. Sono funzionali all’ipnosi collettiva dello stardom system, e così mentre Gli incantatori si dedicano a una dieta di alcol, “succo della giungla”, tabacco, barbiturici assortiti, finché non ammettono di essere “tutti fuori controllo”, sotto il sole nero, nerissimo di Los Angeles il caos regna sovrano e Freddy Otash si ritrova ancora una volta nel cuore di un’infinita notte americana, dove l’unica logica coerente è la corruzione, senza fine, senza soluzione. Torbido, feroce, graffiante e selvaggio: Gli incantatori è un grande romanzo da leggere tenenendolo con un paio di guanti monouso.
lunedì 17 giugno 2024
giovedì 6 giugno 2024
Emily Dickinson
C’è un bel riassunto della poetica di Emily Dickinson in La natura è melodia, pur trattandosi di un’antologia che segue un tema specifico. “Così guardando, la notte, il mattino concludono la lieta meraviglia, ed io incontro, attraverso la rugiada, un altro giorno estivo” scrive nel 1859 e poi, come immediata e diretta conseguenza, si ritrova “in un comune mattino d’estate” a coltivare un percorso trasversale che poi comunque riporta alla sua personalità (“Vi è sempre una cosa di cui sentirsi grati: essere se stesso e non qualcun altro”) come scrive Margherita Guidacci nell’introduzione: “Ma il necessario presupposto di ogni ricerca tematica è il riconoscimento della comune origine dei temi della Dickinson, della loro riconducibilità a quello che per lei potrebbe ben definirsi il tema dei temi: il suo fondamentale senso dell’esistenza, la consapevolezza dell’immensa importanza e dignità di un’anima lanciata nell’avventura della vita”. Il confronto con gli elementi della flora, degli animali, che chiama “i nostri piccoli parenti”, con l’intimo rapporto con la terra (“Dalla zolla, così d’oro e scarlatto sorgerà più d’un bulbo che scaltramente fu nascosto ad occhi esperti. Dal bozzolo, così, balzerà più d’un verme con tanti lieti colori. I contadini come me i contadini come te lo guardano perplessi”) è esplorato fino a giungere alla conclusione che la “natura è melodia. Natura è ciò che conosciamo, ma non sappiamo esprimere: così impotente la nostra saggezza contro la sua semplicità”. È un passaggio fondamentale, come spiega ancora Margherita Guidacci, “proprio perché la vita ha più protagonisti, il suo dramma è tanto interessante. Essa non consisterà in un monologo, ma in un dialogo; uno scambio di messaggi fra le varie presenze che si rendono reciprocamente testimonianza”. Il rapporto con la natura è spontaneo e immediato, costruito nell’amalgama di stupore e ricercata attenzione, e viene però raffinato dalla scrittura, ed espresso nelle parole, misurate e collocate sullo spazio della pagina come se fossero note musicali. Su tutte, le descrizioni delle api che si susseguono in un crescendo lirico e si avvalgono di una conoscenza intuitiva, ma funzionale, quando scrive: “Un’ape ad una rosa s’accostò audacemente col suo cocchio brunito; poi scese, passeggero ed insieme equipaggio. La rosa quella visita accolse con aperta serenità, senza occultare un petalo alla sua cupidigia. Consumato l’istante all’ape non rimase che la fuga, ed alla rosa, del suo rapimento soltanto l’umiltà”. Si tratta di una ricostruzione che ha qualcosa di scientifico celato nella rarefatta economia dei versi, anche se la Dickinson in un altro passaggio ammette la difficoltà nell’esprimerlo: “Il mormorio d’un ape ha una magia per me. Se mi chiedi perché, più facile è morire che dirlo”. Tant’è che la sua trasfigurazione, alla fine, riveste un carattere visionario: “Per fare un prato occorrono un trifoglio ed un’ape, un trifoglio ed un’ape e il sogno. Il sogno può bastare se le api sono poche”. La forma dell’ammirazione muta e si adegua di volta in volta, ma si propaga come “un amico; una saggezza senza volto o nome; una pace di sfere in armonia”, fino a un’altra mattina a cercare “la delizia e l’estasi”. Sono i motivi determinanti a spingere la Dickinson a dire che La natura è melodia e se “insegnarla è impossibile”, resta l’idea di uno spettacolo da contemplare, quando “vela il tramonto e svela: fan più intensa ogni vista minacce d’ametista e fossi di mistero”, ammettendo persino che “quando la primavera svanisce, v’è il rimorso di non averla guardata abbastanza”. L’eleganza e l’essenzialità delle frasi è dovuta proprio al fatto che “la terra ha molte note” ed Emily Dickinson riesce a sentirle tutte.