A distanza di un secolo, Gertrude Stein resta ancora “un rebus mostruoso”, almeno quanto la vita avventurosa e la scrittura in sé, non meno movimentata. In qualsiasi punto di questa ricca antologia l’incedere è pura energia, una corrente elettrica che vibra in versi declamati in un flusso incessante, seguendo un ordito fittissimo, composto, come scrive in Oggetti, da “tutto ciò e non ordinario, non disordinato nel non assomigliare. La differenza si va diffondendo”. Il ritmo, sincopato, incessante, noncurante di un possibile o impossibile significato è tutto e il linguaggio è un’onda che fluttua. Le allitterazioni si incatenano senza sosta e il senso, dovesse essercene uno, rimane relativo: la stessa Gertrude Stein considerava “sperimentali” molte di queste frasi, le Stanzas, per dire, sono particolarmente criptiche, ma resta risoluta nell’insistere con accostamenti estremi, persino “astratti” nella forma, nelle maiuscole, nella punteggiatura anche dove dovrebbe spiegare: “Che cos’è la poesia. La poesia è questa. Non. Rifiutarsi. Di ascoltarla. E. Neppure. Di prenderne cura. Ma non sarebbe gentile. Saperne. Di più. Che cos’è la poesia. La poesia. È questa”. L’antologia ripercorre brani di prosa, cantilene, elenchi, variazioni tematiche sull’orlo della cacofonia, reiterazioni a raffica che Gertrude Stein difende a oltranza: “Posso spiegare com’è che ripetendo due volte una cosa se ne cambia il significato se ne cambia il significato per davvero. Il che lo rende più interessante. Se l’attribuiremo a una persona cominceremo a rendercene conto”, ed è certo importante comprendere perché “la ripetizione è e rimane trascendente”. Così Gertrude Stein in un passaggio ammette che “le parole non le capisco proprio” e le trasforma in qualcosa di sonoro e “questo è un suono e il fatto di essere premurosi e di esserlo ancora di più produce l’armonia dell’indugio”. Inoltrarsi nella sua scrittura prevede un grado di difficoltà non previsto nei manuali anche perché come dice in Stanze: “Questa che non è la ragione di una voce è ciò che resta di un offertorio”. Ci vuole una particolare predisposizione, e qui “c’è forse uno scambio, c’è forse una somiglianza con il cielo che ha permesso di stare lì e le stelle che riusciamo a vedere. C’è o non c’è. La domanda era questa. Non c’era nessuna certezza. Essere adatto ad un venir meno voleva dire che due qualsiasi mostravano indifferenza eppure stavano tutti cercando di mettere insieme, di mettere insieme quella riflessione”. Le sorprese arrivano in rapida successione, la Stein non fa sconti e dopo tutto “non c’è un movimento che indichi il silenzio, un movimento indica il meno, il più non è indicato è incantato”. L’unico leitmotiv è un substrato musicale (“L’armonia è così essenziale. C’è dunque piacere quando c’è passaggio, c’è quando tutte le stanze sono aperte”) sapendo che “non ci sono canzoni tristi. Una lezione ha la sua importanza” e che in fondo è vivida la sensazione è che sia “tutto un semplice tutto un semplice spettacolo” e che “in tutte le altre cose oh sì in tutte le altre cose le parole le une accanto alle altre hanno un suono vivace e allora significato ciò che significano e poiché significano possono significare come in effetti devono significare, voglio dire. Sì davvero”. L’esegesi non è richiesta né necessaria, qui ci sono “un mucchio di desideri. Tutti soddisfatti”, prendere o lasciare. Il coraggio per aver azzardato un ritratto, tra l’altro molto efficace, va riconosciuto a Sherwood Anderson: “C’è una città di parole inglesi e americane ed è da qualche tempo una città dimenticata. Parole robuste con le spalle larghe che dovrebbero marciare all’aperto, nei campi, sotto cieli azzurri, lavorano invece dietro a un banco in piccoli e polverosi negozi di granaglie, giovani vergini vanno impunemente in giro con puttane, parole illustri vengono impiegate per scavare fossi. Ancora ieri ho visto una parola, che un tempo avrebbe trascinato un’intera nazione alle armi, miserabilmente asservita alla pubblicità di un detersivo. Per me il lavoro di Gertrude Stein consiste in una ricostruzione, un rinnovamento completo dell’esistenza, nella città delle parole”. È un duro lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo.
venerdì 28 aprile 2023
mercoledì 26 aprile 2023
John Muir
Lo stupore e l’entusiasmo che alimentano le Meditazioni sulla natura selvaggia di John Muir sono contagiosi e quanto mai necessari a immergersi in “una ragionevole meraviglia”. Ogni passaggio raccolto in questa essenziale antologia dei suoi scritti si distingue per una predisposizione all’incanto e allo sviluppo di una considerazione che porta a pensare che persino i minerali e le rocce siano protagonisti di una vita propria. È uno dei passi più arditi, in quell’afflato verso la comprensione complessiva della natura in tutta la sua vastità, così espressa, en passant: “Questo meraviglioso spettacolo è eterno. È sempre l’alba da qualche parte; la rugiada non si asciuga mai in una sola volta; una pioggia cada sempre; sempre si effonde il vapore. Eterna alba, eterno tramonto, eterna luce e oscurità, su mari e continenti e isole, ciascuno a sua volta, mentre la terra rotonda continua a rotolare”. Una definizione che può essere solo maiuscola: John Muir parla di persino “palinsesto”, come se il paesaggio di flora e fauna fossero un dramma unico, peraltro comprensivo degli esseri umani, Dalla venerazione per gli alberi, che è la spinta principale delle escursioni di John Muir, allo stupore continuo di fronte alle bellezze dello Yosemite o delle burrasche nell’oceano o anche alla “storia di una singola goccia di pioggia”, l’osservazione è rivolta in modo costante e coerente all’evoluzione del paesaggio e alla condivisione della sua scoperta: “Com’è meraviglioso il potere della bellezza! La contemplo intimorito, e potrei lasciare tutto per lei. Un lavoro infinito e gioioso sarebbe quello di rintracciare le forze che hanno forgiato le sue caratteristiche, le sue rocce, le sue piante, i suoi animali e il suo tempo magnifico. Ovunque è bellezza al di là di ogni pensiero, sotto, sopra, conclusa e all’opera, per sempre”. Anche nella sua eterogenea composizione Le montagne mi chiamano segue una progressione chiarissima: a differenza di Thoreau, John Muir dice di non aver “mai cercato di abbandonare i credi o i codici della civiltà; essi se ne sono andati per conto loro, senza lasciare alcuna coscienza della loro perdita”. La contemplazione diventa una modalità di accesso al mondo e anche uno strumento che ne cambia la percezione: “Quando una pagina viene scritta una sola volta, può essere facilmente letta; ma se viene scritta più e più volte con caratteri di ogni dimensione e stile diviene presto illeggibile, anche se fra tutti i caratteri non c’è un solo segno o pensiero confuso e privo di significato che possa rovinare la perfezione della pagina. Le nostre limitate capacità sono allo stesso modo esitanti e incerte nel leggere le inesauribili pagine della natura, perché sono state scritte innumerevoli volte, con caratteri di ogni dimensione e colore, perché ogni parte di un carattere è una frase”. Ogni sentiero è un viaggio diverso perché “in fondo, non sappiamo mai davvero dove andremo, né quale guida dovremo seguire: uomini, tempeste, angeli custodi o greggi. Forse ognuno di noi è guidato molto più di quanto creda di sapere”. L’immersione nella wilderness avviene in modo spontaneo, come spiega John Muir: “Non è stato un ritirarsi, nessuna solenne abiura del mondo. Ero uscito solo per fare due passi, ma alla fine decisi di restare fuori fino al tramonto, perché uscire, come avevo scoperto, significa dover entrare”. Davanti alla solennità delle sequoie come al furtivo apparire di un’orchidea, John Muir parla di “unità” composta da molte unità e di un tempo in cui “ogni giorno si apre e si chiude come un fiore, senza rumore, senza sforzo. La pace divina risplende su tutto il maestoso paesaggio come la gioia quieta, entusiasta, che talvolta trasfigura il nobile volto umano”. Con un minimo sindacale di sensibilità e ricordando “quanto poco del mondo è soggetto ai sensi umani”, la mutazione è pressoché inevitabile, così come arrivare alle stesse conclusioni di John Muir, ovvero che “è il potere dell’immaginazione a renderci infiniti” e a portarci lontano finché “il posto in cui ci troviamo per caso sembra il migliore possibile”. Se serve un guida per arrivarci, questa è la migliore.
venerdì 21 aprile 2023
Questlove
Il ritmo della storia si percepisce subito dallo stile di Questlove alias Ahmir Khalib Thompson, che del resto è un batterista pronto alla battuta: l’idea che persegue è raccontare gli anni americani, cercando di dare un senso a quel varco temporale rappresentato dal recente segmento segnato dalla pandemia. La musica viene scelta come un filtro potente che Questlove sa arrangiare per ogni momento e sa plasmare con un racconto intenso. La percezione degli avvenimenti dal 1971 a oggi, con una deviazione netta l’11 settembre 2001, comprende un fitto elenco di words & music da Curtis Mayfield a Stevie Wonder (“Quello che volevamo comunicare penso fosse che certe canzoni di protesta sono eterne, poiché il comportamento umano non cambia da una generazione all’altra. Uno potrebbe dire che si protesta invano, ma anche che si tratta semplicemente di un modo per documentare il comportamento delle persone a prescindere dal punto della storia in cui si è atterrati”) fino a Thriller di Michael Jackson, sinonimo di “il quadro generale” delle visioni pop che ha distinto il ventesimo secolo. In realtà, quello di Questlove è un riepilogo cronologico della Black Music, per dirla con Chocolate Genius, ed è molto cool, almeno nel senso che viene spiegato con grande precisione, ovvero esercitando l’opzione di “rimanere indietro rispetto al beat abbastanza a lungo da poter prendere una decisione intelligente senza palesare il fatto che si sta rallentando il ritmo a proprio beneficio”. La simbologia musicale è utile a comprendere come Questlove collochi quelle che Frederic Braudel chiama “istantanee di storia”, in un flusso che rilegge, rivede e/o riascolta con il diaframma positivo della musica perché “questo è uno dei modi in cui funziona la storia, quando funziona: la grande arte si diffonde nell’etere, ma anziché renderci più eterei ci rende più affilati, ci spinge a cercare ancora”. Insistere è in qualche modo è inevitabile perché, come precisa Questlove, “la storia accade due volte: la prima in occasione dell’avvenimento e la seconda quando le persone si rendono conto che è accaduto. La seconda volta per queste persone è la prima, perché non sapevano che fosse avvenuto”. Gli “avvenimenti” vengono riportati bianco su nero, come se fossero un negativo dell’altro corso, quello musicale, che ha la dimensione e il tono di una conversazione ed è naturale che l’avvento dell’hip-hop, come strumento linguistico di più di una generazione, imponga un’accelerazione e cambi tutto in modo radicale. Per dire, l’interessante collegamento tra campionamento e nostalgia, una delle tante e utili digressioni di Questlove a cavallo tra storia e musica, può essere un valido e distinto cardine nella lettura, con la precisazione che “ancora una volta, è una questione di scala. Trarre conclusioni su larga scala a proposito del modo in cui le emozioni hanno modellato un’intera nazione in un periodo specifico è una cosa, un’altra è fornire un resoconto dei cosiddetti avvenimenti privati che precedono e motivano le cosiddette decisioni pubbliche degli individui. Alla fine si tratta di un elemento importante, perché la storia ha a che fare con i movimenti delle persone, e ciascuna di essere prova emozioni, emozioni che hanno una certa presa su quelle stesse persone”. Quell’idea che, con il crollo delle Twin Towers in una splendida cornice di settembre, la storia sia collassata, se non proprio finita come già sosteneva Francis Fukuyama sul finire del ventesimo secolo, viene smentita a colpi di James Brown e Al Jarreau, Living Colour e Public Enemy, Sun Ra e Terence Trent d’Arby nonché una sterminata e favolosa playlist dove ancora una volta “emozioni universali, gestite correttamente, possono diventare dei passe-partout che aprono le porte situate lungo il corridoio della storia. Lo so che sembra una cosa buffa da dire”. Il tono, informale e accattivante, frizzante e drammatico aiuta a collocare la complessità di Musica è storia in un flow ricco e al tempo intellegibile, capace di comprendere e spiegare che “le cose cadono a pezzi e si uniscono. Le persone nascono e muoiono. La stessa cosa accade alla band, alle tendenze, alle tecnologie, alle guerre, alle nazioni, agli ecosistemi e alle specie. La storia si ferma e poi riparte, ma soprattutto continua ad andare avanti”. Resta la musica, quella sì che è una storia infinita.
mercoledì 12 aprile 2023
Claudia Rankine
Come ha notato una delle tante amiche coinvolte nella “conversazione americana” con Claudia Rankine, Just Us non ha una strategia: è una sequenza di considerazioni e di dissertazioni che comprendono le analisi elettorali e la tendenza dei capelli biondi, Lemonade di Beyoncé e Aretha Franklin, le violenze poliziesche e le richieste di riparazioni di Ta-Nehisi Coates. Non tutti i passaggi sono chiari e/o immediati: Claudia Rankine valuta con ossessiva attenzione ogni dettaglio, ogni gesto. Lo dice, subito, in prima persona: “Ho imparato presto che essere nel giusto non è niente davanti al puro e semplice fatto di mantenere un posto nella stanza. Succede ogni sorta di cose mentre avanza la notte. Ma a volte mi prende l’idea che la ripetizione si dà se le ruote continuano a girare. La ripetizione è insistenza e uno può colludere solo fino a un certo punto. A volte io voglio solo lanciarmi tra gli ingranaggi. A volte, come ha detto James Baldwin, voglio cambiare una parola o una sola frase”. Forse è l’unico modo, se non si vuole cadere nella trappola dei luoghi comuni e quindi dello status quo che tutela il privilegio (maschio, bianco) e rende un’incognita la vita di tutti gli altri (neri, in particolare). Questo è il vero dilemma articolato da immagini, fact check, liriche, impressioni “a meno che, ovviamente”, come riflette ancora Claudia Rankine “non sia un gioco a somma zero, e quindi l’equazione porti sempre zero ed eccoci ancora qui negli Stati Uniti d’America, sempre in fila, sempre conniventi, sotto tutte le nostre scelte, dentro tutta la nostra falsa sovranità”. La determinazione di Just Us è proprio la capacità di intravedere “la foschia che permea questa esistenza che viviamo gli uni a fianco agli altri ci chiama a farci avanti. Non voglio dimenticare che sono qui; in qualsiasi momento noi tutti ci troviamo a fianco a qualcuno che è capace del meglio e insieme del peggio che la nostra democrazia abbia da offrire”. Nella complessità formale sovrappone poesia e inchiesta, cronaca e storia, introspezione e polemica, Claudia Rankine non fa sconti dell’affrontare come il razzismo resti annodato strutturalmente alla società americana (e non solo). È un lungo e antico discorso in cui richiama Saidiya Hartman: “Una cosa credo sia vera, che è un modo di vedere l’eredità della schiavitù in relazione al modo in cui abitiamo il tempo storico, è il concetto di intrico temporale per cui passato, presente e futuro non sono entità discrete e rimosse l’una dall’altra, ma piuttosto una simultaneità intricata che tutti abitiamo. Questa cosa per i neri è quasi un’ovvietà. Ma come si fa a narrarla?”. La domanda, puntualissima, è una costante in Just Us che Claudia Rankine prova a ribadire come un diritto unico: “Quello che so è che posso sempre chiedere, anche quando sento ciò che non vorrei sentire. Posso sempre chiedere”. Gli interrogativi si moltiplicano (“Cosa insorge dentro, tra di noi? Cosa emerge perché siamo la storia che abbiamo dentro?”) e la distanza è inamovibile, lì, dove si trova Claudia Rankine: “Io sono qui, senza minimizzare, cerco di capire in che modo ciò che voglio e ciò che voglio da te corrano in parallelo, giustizia e un varco per noi soltanto, just us”. Prima persona plurale è un tentativo di dare forma a “un recipiente che ci contenga tutti, sebbene non fossimo mai intesi in completezza; non fossimo previsti a figura intera”. L’identità negata è tale che Wendy Trevino ammette: “Siamo chi siamo, per loro, anche se noi non sappiamo chi siamo gli uni per gli altri & la cultura è un registro di noi che cerchiamo di capirlo”. Il dubbio è alimentato dalla stessa Claudia Rankine che non nasconde il peso di lacerazioni mai lenite e confessa: “Ancorata nel non sapere, anelo a elevarmi oltre l’irrequietezza delle mie forme di impotenza dentro una struttura che soffoca le possibilità”. Per riuscire a spiegarsi ricorre, di nuovo, alle parole altrui, quasi a voler comporre un’attenzione corale, e in questo caso quelle di Jill Stauffer: “La solitudine etica è l’isolamento che una persona prova quando, essendo stata violata o essendo membro di un gruppo che ha subito persecuzioni, si è vista abbandonata dall’umanità, o da chi ha potere sulle sue prospettive di vita”. Il dialogo ininterrotto porta a una conclusione in qualche modo definitiva quando Claudia Rankine afferma: “La mia preoccupazione è sempre che stiamo già morendo, intendo che siamo già morti nel mondo sociale che persiste accanto alle vite che viviamo, mentre instancabili affrontiamo tutte le panzane che ci raccontano nella nostra infinita lotta per la giustizia”. Una visione lapidaria, drammatica, ma estremamente concreta.
martedì 11 aprile 2023
Henry Miller
Crazy Cock è la dimostrazione plateale di quello che sosteneva Ballard, ovvero che “nelle pagine di Miller scorreva l’ozono del sesso, e la sua prosa possedeva un’energia affamata di vita”. Ispirato da tratti autobiografici, a partire dalla fuga della prima moglie, Crazy Cock è un delirio inarrestabile, con Henry Miller alle prese con le capriole di Hildred e Vanya e del suo alter ego Tony Bring, dentro una New York senza respiro: “Nella strada si soffocava per il gas che usciva dalle fogne. Fabbriche di cemento, baracche in rovina, notturni di bucati stesi a asciugare. Una bohème triste, sporca, desolata. Gli dolevano le ossa e un limo diluito e nauseante si spandeva sui suoi pensieri. Quel gas mefitico. Gli puzzava il cervello. A puzzare era il mondo intero”. L’apoteosi è tra Natale e l’ultimo dell’anno, e “una città, si disse, è come un universo, ogni isolato una costellazione vorticosa, ogni casa una stella fiammeggiante, o un pianeta estinto”: la rocambolesca triangolazione (dividono anche il letto), condita da una nuvola alcolica, è destinata a disintegrarsi, come è stato anche nella realtà perché, come ammette Tony Bring, “quella storia era a un tratto diventata troppo stupida. Come tre biglie su un tavolo da biliardo”. È tutto inutile, la forma geometrica è già imperfetta, ottusa e spigolosa e i personaggi poi sono predisposti al caos almeno quanto Henry Miller ad abbandonarsi alla scrittura. In più c’è l’effervescente e instabile ambiente del Village dove si svolgono gli psicodrammi: donne e uomini che si inseguono e si intrattengono tra segreti, misfatti, amplessi e piagnistei “tutti sulle spine. Tutti di pessimo umore, permalosi, nevrastenici, irritabili. Ipersensibili. Come un uomo che si lagna di avere i piedi freddi dopo che gli hanno amputato le gambe”. Passo dopo passo diventa evidente che “era in corso una lotta. Stavano lottando tutti insieme: lottando gli uni con gli altri, lottando con se stessi, lottando disperatamente per non lottare”. Alla fine, da New York a Parigi, “quella che era un’antica tragedia, nobile musica di mito e di leggenda, finisce in profilassi”. Né più né meno: nel trambusto degli esordi, Henry Miller si conferma un acuto osservatore e anche nel turbinio di Crazy Cock riesce ad annotare che “la società aveva talmente complicato i rapporti tra gli uomini, aveva così avviluppato l’individuo in una rete di leggi e di dottrine, di totem e di tabù, che l’uomo era diventato qualcosa di innaturale, qualcosa di staccato dalla natura, un fenomeno che la natura stessa aveva creato, ma che non controllava più”. Lo schermo del linguaggio è limitato, per quanto indispensabile e arriva a chiedersi se “forse la migliore soluzione consistenza nel sottoporre il caso a una giuria: a un imparziale comitato di esperti. Che ciascuno scelga il proprio uomo. Che ciascuno racconti la propria storia”. È chiaro che, giunti a quel punto, vale “la sensazione del movimento, più che il movimento in sé per sé”. Per Henry Miller alias Tony Bring “le parole correvano come incalzate da una frusta, macchiando la liscia, bianca superficie in una linea erratica e continua”. Non c’è molto altro e secondo Mary Deaborn, Crazy Cock “naviga a metà strada tra l’accettazione e la rivolta, la soddisfazione e il disgusto” e ha qualche margine di ragione perché “viene un momento in cui il tocco della realtà diventa così netto che uno non è più un individuo tormentato dalle circostanze, ma un essere umano tagliato a fette... Quello che un minuto fa poteva aver dato l’impressione di essere su un pianeta vivente, un palpito di splendore nell’universo della notte, diventa a un tratto una cosa morta come la luna che arde di un fuoco di ghiaccio. In tali momenti tutte le cose diventano chiare: il significato dei sogni, la saggezza che precede la nascita, la sopravvivenza della fede, la stupidità di essere dio”. Tutto quello che resta siamo “noi e i nostri personaggi, perché noi siamo i nostri personaggi, affondiamo come navi abbandonate, barche troppo imputridite per resistere alla prima tempesta”: non a caso Henry Miller ribadiva che “lo scopo della vita è vivere”, ed è molto meno ovvio di quanto sembri.
mercoledì 5 aprile 2023
Matthew Desmond
In uno dei tanti e inequivocabili passaggi raccolti da Matthew Desmond, qualcuno dice: “Siamo in America, qui”, come a ricordare i valori fondativi della terra dei sogni e delle speranze, delle libertà e delle opportunità, ma qualcosa è andato storto. E non poco, se anche la casa è diventata un miraggio e “i quartieri urbani sono mercati, in gran parte di proprietà, nel caso dei quartieri popolari, di coloro che non vivono all’interno dei loro confini”. La creazione dei ghetti e più avanti dell’idea di “slum perpetuo” risale agli inizi del ventesimo secolo ed è lì che Matthew Desmond segue i proprietari (in particolare Sherrena e Tobin) e gli affittuari (Patrice, Arleen, Doreen, Vanetta, Crystal, Scott) che si consumano in un legame biunivoco, un rapporto complesso e distorto, che ruota attorno all’esigenza primaria di un tetto sopra la testa. La povertà americana che Matthew Desmond lascia emergere non ha una collocazione morale: ci sono traslochi che fono fughe, sfratti che sono violenze, leggi che non sono giustizia, scarichi intasati e frigoriferi vuoti, caravan e topaie. La cornice è Milwaukee e per qualcuno “sembrava che l’intera città venisse sbattuta fuori”, ma è facile intuire che valga per ogni altra località american dove il futuro resta un’incognita. Il reportage di Matthew Desmond porta a galla mutazioni e vessazioni sociali che nemmeno la famiglia di Tom Joad poteva immaginare, ma qui a subirne le conseguenze sono sopratutto gli afroamericani: “Se il carcere era arrivato a caratterizzare la vita degli uomini dei quartieri neri poveri, lo sfratto stava modellando la vita delle donne. I neri poveri venivano sbattuti dentro. Le donne nere povere venivano sbattute fuori”. Se a logica dei proprietari è semplice (“Non sperare. Scrivi l’assegno”) violenze domestiche, gioco d’azzardo, dipendenze, disoccupazione e delinquenza alimentano un ciclo quotidiano di azioni e reazioni che vede uomini e donne (le donne, soprattutto) lottare per la sopravvivenza, invischiati in cause legali, regole scritte e non scritte dell’assistenza, prevaricazioni e deviazioni che arrivano fino agli scambi sessuali in cambio dell’affitto. La prospettiva di “un’equità abitativa” è una chimera e le possibilità di un cambiamento sono limitate, tanto è vero che gli inquilini di un parcheggio di caravan esprimono così tutta la loro disillusione: “Il nuovo management avrebbe instaurato un nuovo sistema, un modo più limpido, più professionale e più giusto di gestire il campo. In altre parole, le cose stavano per peggiorare”. Annota, di nuovo, Matthew Desmond: “Una comunità che vedeva così chiaramente il proprio dolore faceva fatica a cogliere le proprie potenzialità”, e questo perché come spiegano bene Frances Fox Piven e Richard Cloward “un movimento di protesta emerga dai traumi della vita quotidiana, le condizioni sociali che vengono normalmente considerate giuste e immutabili devono arrivare ad apparire ingiuste e mutabili”. L’ingerenza dei mercati, la vocazione alla competitività e all’aggressività, e i limiti di un welfare approssimativo diventano il brodo di coltura di subdole forme di segregazione e, di sicuro, limiti tanto invisibili quanto concreti alla ricerca della felicità, un mito tutto americano che qui naufraga una volta di più. Matthew Desmond supera il ruolo dell’etnografo e dell’antropologo, sceglie di vivere nei ghetti e nei campi di caravan per comprendere fino in fondo la realtà di “miseria e profitti nelle città americane”. Un lavoro sul campo, di testimonianza e di ricerca, di esperienza e analisi che gli ha lasciato scorie difficili da smaltire perché “la cosa più difficile per chiunque lavori sul campo non è entrare; è andarsene. E il dilemma etico più difficile non è come rispondere quando ti chiedono aiuto, ma come rispondere quando te ne danno tanto”. Un libro da affrontare con la giusta predisposizione e una bella dote di pazienza, ma che si porta dentro l’amaro sapore della verità.