Dal jukebox di una Notte al neon arriva la voce di Johnny Cash, un fantasma, uno dei tanti, e non sapresti dire se sono brutti sogni o ricordi. La distinzione è esile: le luci bluastre introducono in una dimensione parallela, dove l’imprevisto genera una condizione di inquietudine, paura, morte. È così fin da Deviazione, un racconto kafkiano dove un’innocua variazione della viabilità porta la protagonista, Abigail, ad addentrarsi in un incubo molto simile alla realtà. La cifra condivisa dai racconti di Notte al neon è proprio quella, sottolineata da connessioni casuali, o forse no, proprio calcolate: l’auto fuori strada in Deviazione si ritrova con Il flagellante che a sua volta si attiene alle stesse pieghe giudiziarie di Udienza per la libertà condizionata, California Institution for Women, Chino, California, un monologo che evoca ancora il fantasma di Charlie Manson. Nello stesso modo, le dipendenze dal fumo in Sigaretta elettronica e dall’alcol in Notte al neon sono la cornice degli incontri tra sconosciuti, ai margini della ghost town americane. Singoli dettagli riportano ai romanzi di Joyce Carol Oates, come il punteruolo da ghiaccio in Perché sono uomini che si rivede in Notte al neon, o nel caso più eclatante, “la bionda esplosiva che è anche la ragazza della porta accanto” al centro di Miss Golden Dreams 1949 e scampolo di un’ossessione a cui Joyce Carol Oates ha dedicato il voluminoso Blonde. La figura di Marilyn Monroe alias Norma Jean Baker è simbolo in sé dell’ambiguità del rapporto tra le vittime (donne) e i carnefici. L’obiettivo il più delle volte è il corpo femminile, quasi un’invidia per la bellezza, e il sesso è sbagliato, che sia consumato o meno resta in definitiva, inutile, o uno strumento per arrivare a qualcosa che non è né amore né felicità. L’elemento di disagio è costante, pervasivo, feroce e Joyce Carol Oates non fa niente per mitigarlo: destini terribili attendono le donne nelle decadenti città del Midwest ma come scrive in Voglia: “Ciò che viene definito caso magari è solo l’ignoto. Non si conoscono le connessioni tra le cose, proprio come una mosca intrappolata nella tela di un ragno non ha idea di dove sia finita. Per la mosca si tratta di caso. Per il ragno, di destino”. Una sensazione di continua allerta, snervante, a tratti insostenibile. Neanche le buone intenzioni di N, lo scrittore di successo protagonista di Curiosità (“Nessuna emozione mi coinvolge, a parte fossili di sensazioni vive, trasformate in linguaggio e, attraverso il linguaggio, in testi”) riescono a trovare uno sbocco. I rapporti tra uomo e donna restano monchi, tesi, fragili e comunque il risultato di una sottrazione più che di una somma. La scrittura di Joyce Carol Oates (resa alla perfezione nell’interpretazione di Claudia Durastanti) è una sfida continua, uno scintillante piano sequenza ininterrotto, continuo, martellante a dispetto dei tempi e delle modalità narrative. Passa con disinvoltura tra prima, seconda e terza persona (ce ne fossero altre, avrebbe usato anche quelle) dando voce a personaggi che fanno la cosa sbagliata dopo aver pensato a lungo a quella giusta (come il protagonista di Curiosità), ma alla fine è difficile anche una rudimentale cernita. Joyce Carol Oates è risoluta e tagliente, non concede nulla, nemmeno al lettore, che si trova davanti al fatto compiuto, a pensieri descritti fin nelle minuzie, a emozioni elencate una dopo l’altra con maniacale concentrazione. È così che i racconti di Notte al neon toccano corde sommerse e sensibili, emanando una scossa elettrica, conditi per contrasto dai continui richiami alla pittura, alla letteratura (in Intimità), alla musica come corollari che tendono a ricordare che “la vita non è estetica come l’arte”. Un discorso a parte merita il racconto o meglio l’embrione ormai sviluppato di un romanzo da cui prende il titolo la raccolta: le vicissitudini di Juliana con gli esseri subumani (maschi, particolarmente odiosi) con cui si incontra nei bar e poi con l’alcolismo, lasciano attoniti. La situazione è promiscua e snervante e Joyce Carol Oates non si lascia sfuggire l’occasione per celebrarla con una battuta singolare: “L’atmosfera era festosa come un ponte pericolante”. Livello superiore.
venerdì 23 dicembre 2022
lunedì 19 dicembre 2022
David Hajdu
Quando sale sul palco del Newport Folk Festival, la sera di venerdì 26 luglio 1963, Dylan è il rappresentante più giovane e in vista dell’intreccio tra il revival della musica tradizionale americana e il movimento dei diritti civili e, più in generale, di una rinnovata consapevolezza sociale e politica. Dylan è a Newport con Joan Baez e condividerà con la serata conclusiva, un momento simbolico che uno dei fondatori del festival, Theodore Bikel seppe cogliere in tutto il suo significato, così come lo riporta David Hajdu: “Non ci fu mai più un punto così intriso di speranza per il futuro”. In due anni, sarebbe cambiato tutto, a partire da Dylan, che in quel momento era parte di “quattro ragazzi” che stavano cambiando la musica, e il mondo. All’inizio tutto ruota intorno alle sorelle Baez. Entrambe vedono la luce a un concerto di Pete Seeger e scoprono la passione per il folk che è il leitmotiv di Positively 4th Street. Attorno a loro e su ambedue le coste americane, David Hajdu sa ricostruire il milieu in cui prolifera il revival, a partire dal Village e dalle sue coffee house, spesso locali di pochi metri quadrati destinati a diventare luoghi leggendari. Tra le tante testimoniane raccolte da David Hajdu, merita di essere ascoltata quella di Tom Rush: “Uscivamo, trovavamo questi vecchi dischi e li mettevamo, le chitarre sembravano scordate, le parole non si capivano. Ma era più potente di qualsiasi altra cosa che potevi sentire in giro”. L’arrivo di Richard Fariña, scrittore (compagno di università e di complotti di Thomas Pynchon), poeta, fomentatore di feste e guai, e sposo precoce della cantautrice Carolyn Hester prima e di Mimi Baez poi completa il quadro della doppia coppia (compresi Dylan e Joan Baez, naturalmente) che trascinò “un’estetica fatta apposta per essere largamente antitetica ai tempi e questo era un aspetto sostanziale per capire la presa che aveva la musica sui giovani in cerca di una propria identità all’ombra della generazione della seconda guerra mondiale”. David Hajdu tenta di ricollocare le diverse personalità in una prospettiva coerente. Tenendo conto che “Il folk era una musica storica per natura” e “glorificava l’unico e l’eccentrico, sfidava il conformismo e celebrava il regionalismo nel momento in cui stavano nascendo i mass media, le marche nazionali e i viaggi interstatali”, ricorda come Joan Baez fossa stata riconosciuta prima di tutti, come la protagonista di quell’effervescente momento storico. D’altra parte, come è in gran parte inevitabile, riconosce anche il merito a Dylan di aver deciso di “uscire allo scoperto”, liberandosi degli schemi, delle regole e delle tradizioni, nonché dei legami, come poi divenne chiaro, al di là degli episodi e degli aneddoti e della teorica accetta di Pete Seeger, al Newport Folk Festival del 1965, quando ormai il rock’n’roll aveva preso il sopravvento. Era una questione di combustione, come ebbe modo di notare in modo molto appropriato Richard Fariña: “Anni fa, gente come Dylan doveva accendere le candele da entrambi i lati, per farsi vedere. Oggi le accende direttamente al centro, con una fiamma ossidrica. Il rischio può essere mortale, ma più gente vede la fiamma”. È quasi un presagio: a lui e a Mimi Baez, David Hajdu riserva un ritratto più informale, tra le peripezie della scrittura e un matrimonio dai contorni bohémien, appassionato, tenero e turbolento fino al tragico epilogo.
lunedì 12 dicembre 2022
N. Scott Momaday
Il ritorno di Abele, un veterano della seconda guerra mondiale, apre uno scenario inedito tra i pueblo del New Mexico: “Di tutto, di tutto quanto aveva preceduto la partenza, si ricordava perfettamente, nei minimi particolari. Era il passato recente, quel susseguirsi di giorni e di anni senza significato, di terribile calma e di conflitto, tempo sempre istantaneo e confuso, che non riusciva a ordinare nella sua mente. C’era un frammento di ricordo preciso, ricorrente e distinto”. Spiegherà in seguito lo stesso Momaday: “Uno degli aspetti più tragici di Abele, così come lo intendo, è la sua incapacità di esprimersi. È in qualche modo un uomo senza voce. E nella sua situazione, nel contesto del mondo indiano, è una tragedia ben definita. È stato rimosso fisicamente. Ha perduto il suo posto nel mondo ed è perciò disperato e cerca di reinserirsi nel mondo naturale di appartenenza. Ma non vi riesce perché ha perduto la sua voce. Penso a lui come ad uno sradicato dalla tradizione orale. Questo caratterizza il suo dilemma”. Lo si vede nel passaggio forzato a Los Angeles, che è una frattura significativa. Disorientato dalla città, dai suoi rumori e dal movimento senza fine del traffico e dell’oceano, Abele non riesce a ritrovarsi, mentre si riaffaccia un antico terrore: “Aveva sempre avuto paura. Ai confini della sua mente c’era sempre qualcosa che faceva paura, qualcosa da temere. Non sapeva cosa fosse, ma era sempre lì, vera, imminente, inimmaginabile”. Alla mancanza di un luogo in cui riconoscersi, si associano parole (“Hanno tante parole, e tu sai che significano qualcosa, ma non sai cosa, e le tue parole non vanno bene, non sono le stesse, sono diverse, e sono le uniche che hai”) e immaginazione che hanno un valore diverso: “Devi stare attento dove cammini. C’è sempre un sacco di gente qua, soprattutto dopo la pioggia, e molto rumore. Senti le macchine sulle strade bagnate, che partono e si fermano. Senti un sacco di fischi e di clacson, e c’è un sacco di musica chiassosa tutto intorno”. L’identità indiana e americana collidono, si scontrano nella realtà ed emerge, alla radice, la disintegrazione delle culture native: “Se sei della riserva non ne parli molto: non so perché. Mi sa che pensi che non ti aiuterà molto, così cerchi di dimenticarla. Qualche volta però ci pensi; non puoi farne a meno, ma poi ti sforzi di dimenticarla. Devi pensare a un sacco di altre cose, e se non lo fai ti confondi. Se tutti venissimo dallo stesso posto, mi sa che sarebbe diverso: si potrebbe parlare, sai, e ci capiremmo”. Tosamah, che con le sue prediche, pare essere un contraltare di Abele, svela tutto il background indiano ricordando un aspetto importante che risale alla nonna: “Aveva compreso che nelle parole e nel linguaggio, e solo lì, poteva esistere in modo completo e perfetto”. Le parole sono soprattutto canti, da cui proviene lo stesso titolo di Casa fatta di alba, e di conseguenza “il semplice ascolto è fondamentale per il concetto di linguaggio, e ancora più fondamentale del leggere e dello scrivere”. I contrasti sono fortissimi dato che “una simile vastità favorisce l’illusione, una forma di illusione che comprende la realtà, e dove esiste nascono sempre stupore ed allegria”. Condensati nella fitta scrittura di N. Scott Momaday i serpenti a sonagli, i falchi, i lupi e i coyote, la vita dentro e sopra i canyon (memorabile la scena della caccia all’aquila), la wilderness in generale e gli esseri umani, servono a “vedere il nulla, il nulla assoluto. Vedere oltre il paesaggio, oltre ogni forma e ombra e colore, quello era vedere il nulla. Significava essere liberi e compiuti, completi, spirituali”. Da questa visione nascono le pagine più liriche di Casa fatta d’alba che prevede un secondo approdo alle mesas e al deserto: “Di primo mattino la terra giaceva enorme e pigra, riconoscibile soltanto come un tutto, senza alcun rilievo ad esclusione del proprio margine, puro e lucente, fin dove giungeva lo sguardo, e più oltre il nulla del cielo”. A quel punto di Casa fatta di alba, le invocazioni e le promesse si susseguono in cerca degli elementi primordiali, il silenzio e la memoria: “Tutto sarebbe andato bene di nuovo, sai. Ci saremmo ubriacati per l’ultima volta e avremmo cantato i vecchi canti. Avremmo cantato di com’era, di come non c’era nulla intorno, tranne le colline e il sorgere del sole e le nuvole. Saremmo stati ubriachi e, sai, in pace, belli. Dovevamo farlo in un certo modo, in quello giusto, perché sarebbe stato per l’ultima volta”. Quello che rimane è solo una speranza e, ancora una volta, è evocata cantando perché nella Casa fatta di alba più che le parole, conta il loro suono.
martedì 6 dicembre 2022
Tom Robbins
Nell’Indo-Tibetan Circus & Giant Panda Blues Band il cast animale e umano è ristretto, intimo e legatissimo. Tom Robbins li presenta così: “Avevano due tamnofidi o serpenti-giarrettiera. E la mosca tse-tse non era neppure viva. Non si poteva certo parlare di attrazione lungo l’autostrada”. C’è anche un babbuino, Mon Cul, ma i primati hanno i loro diritti e nessuno vuole considerarlo parte dello show. Quello che c’è da vedere non è un granché, ma è abbastanza da considerare l’ipotesi che “un individuo può essere libero e felice quanto vuole esserlo perché non c’è niente da perdere e niente da guadagnare”. È questa la teoria nel cuore del brillante esordio di Tom Robbins, frutto di una lunga coda psichedelica che nel 1971 gli permette di articolare attorno ai suoi variopinti personaggi una complessa composizione di discussioni filosofiche. La picaresca popolazione che affolla Uno zoo lungo la strada è uno dei diversivi cari a Tom Robbins, capace di stordirti a furia di iperboli. Per cui è vero che “la maggior parte degli attori si lasciava ormai trasportare da una propria estasi. Ballando. Cantando. Arrampicandosi sugli alberi. Contemplando la luna (di un arancione mango e sottile come una tortilla). Mangiando. Bevendo. Amoreggiando. Sognando. Ciondolando. Brancolando. Trapanando: rinfrescandosi le tonsille con pennelli alcolici”, ma d’altra parte il confronto tra Amanda (al centro di ogni discussione, anche quando non c’è), John Paul Ziller (con lei unito in matrimonio), Plucky Purcell e Marx Marvelous è senza sosta e travolgente. Detto questo, la ricchezza delle chiacchiere è sfuggente e intrigante: “È vero che Roland Kirk è l’intera orchestra di Count Basie vestita da donna?”, si chiedono ed è uno dei dilemmi che agita Uno zoo lungo la strada, ma bisogna fare attenzione perché “per un artista una metafora è reale quanto un dollaro”. Tom Robbins usa l’ironia per raccordare una moltitudine di divagazioni e l’apoteosi verbale che si spalanca in Uno zoo lungo la strada può ancora raccontare molto, pur tenendo conto dei limiti delle espressioni dell’epoca e degli svolazzi utopici: “In altre parole, l’appianamento di tutte le questioni, la soluzione di tutti i problemi, non sono determinati da quello che può rendere la gente più sana e più felice nel corpo e nella mente ma dall’economia. Dollari o rubli. Economia über alles. L’essenziale è che niente interferisca con la crescita dell’economia, anche se quella crescita sta castrando la verità, avvelenando la bellezza, trasformando un continente in un mucchio di letame e portando un’intera civiltà alla follia”. Come una folle riunione di condominio sulla Route 66 i protagonisti discutono di tutto, cercando di spiegare che l’anima è “una manifestazione elettrochimica, una sintesi di proteine, un baluginio di elettricità nervosa”, inseguendo i destini della farfalla monarca (e non solo: a tratti Lo zoo lungo la strada sembra un trattato entomologico), discernendo in allegria di un’epidemia di gonorrea o delle avventure discografiche degli Hoodoo Meat Bucket (l’accostamento con la malattia venerea non è casuale) o, ancora del senso dell’arte (“La funzione dell’artista è di fornire quello che non fornisce la vita”) fino ad arrivare alla lunga diatriba sulle religioni e sull’infinito. Un tema che serpeggia in lungo e in largo in Uno zoo lungo la strada e che comincia partendo dall’ipotesi che forse “la vita di Cristo era un esempio per i vivi e non una promessa di aldilà per i morti”. Nell’affollarsi di personaggi attorno allo strampalato convivio, ogni tanto si intrufola Tom Robbins in persona, ma senza infierire: “È evidente che sono lacerato dai dubbi. È tutto maledettamente sconcertante. Ma intendo perseverare, perciò consentitemi di andare avanti”. Alla fine si presenta persino Tarzan che, ça va sans dire, ha pure le sue opinioni. Il suo colloquio con Gesù Cristo in persona nel bel mezzo del deserto è impagabile ed è lo zenith di una trance letteraria, scoppiettante, caotica e geniale fino in fondo. Colonna sonora, inevitabile e obbligatoria, i Grateful Dead in tutte le loro incarnazioni.