Chris Offutt viene beffato da un pesce enorme con conseguenze disastrose ma comiche. Taylor Brown racconta di uno squalo catturato nella marea. J. C. Sasser mette in rilievo un parallelo tra la tranquilla (si fa per dire) attività peschereccia e quella più turbolenta delle storie, mentre Eric Storey in Quello che conta davvero spiega il valore della pesca in sé, che poi è illustrato con maggiore ricchezza di dettagli da Ray McManus in Al di là delle sponde: “Dimenticati chi è il pescatore e chi il pesce. Conta soltanto il tempo che diamo e quello che prendiamo, fare e rifare da capo e, cosa più importante, c’è sempre un fattore che non puoi controllare. C’è chi riesce a pisciare fuori dalla barca. C’è chi no. C’è chi ha tempo. C’è chi non ce l’ha”. Si tratta di una magia dove la pesca, che comunque è l’argomento preponderante di questi venticinque racconti, è persino relativa, come spiega molto bene Gabino Iglesias: “Il cielo sopra le nostre teste è grande come il silenzio che c’è tra di noi. È un silenzio sacro, di quelli che possono esistere senza imbarazzo solo tra amici che hanno raggiunto un’intesa che va oltre le parole. Come tutte le cose perfette, il silenzio non dura a lungo”. Questa sensazione è espansa nel bellissimo Dove nascono i fulmini di M. O. Wash, capace di allineare la pesca, la memoria, l’ambiente in un continuum lirico e appassionante. Non è l’unico caso: le short story sono tutte avvincenti, anche se per motivi diversi. Condividono i tratti autobiografici, in particolare nell’elaborare i trascorsi dell’infanzia, che sono gli elementi ricorrenti dei racconti di Ron Rash e Jill McCourkle al punto che J. Todd Scott scrive che “conserviamo nei nostri libri e nelle nostre storie vecchie fotografie di noi stessi”. La pesca è vista allora come uno squarcio nel tempo, un attimo che definisce i riti di passaggio, centellinati nei ricordi delle stagioni passati nella wilderness, seguendo i fragili fili di amicizie perché come scrive ancora Gabino Iglesias, “i giorni sull’acqua vi restano dentro. A volte è per i pesci che avete preso, altre per la compagnia, altre volte ancora per ciò che significano”. Ma Al fiume è anche un viaggio particolareggiato nell’America: i racconti ci portano dentro anfratti naturali, torrenti o laghi artificiali, dai ruscelli al bayou, nell’oceano e negli stagni, dalla Louisiana ai Caraibi. Una componente rilevante assecondata da più autori riguarda i richiami costanti alla cultura e alle tradizioni southern che, di nuovo, associano al valore della pesca quello delle storie, che convivono in una singolare simbiosi. Poi, crescere nel Sud, con o senza la pesca, non è molto diverso da altre parti e infatti c’è un’uniformità, nonostante la provenienza disparata delle trame e, non è data soltanto dall’argomento ittico, che resta la spina dorsale della raccolta. Forse, aveva ragione Thomas McGuane quando, introducendo Il grande silenzio, sosteneva che “la pesca è una situazione in cui le valenze emotive sono immediatamente dipendenti da loro contesto”. È così: l’ambiente, la terra, il cielo, l’atmosfera si riflettono proprio sul piano idrico e, come dice ancora Ray McManus, è “strano come finiamo per assomigliare alle forme d’acqua che ci hanno visto nascere”. Nella corrente, reale e simbolica, non ci sono solo i pesci, che riservano spesso qualche sorpresa, ma ci ci finiscono un po’ tutti: un cervo e un labrador, le effimere e un alce, i serpenti e gli uccelli, i sogni e i ricordi, l’infanzia e l’adolescenza, il passato e il futuro perché il presente è una canna da pesca piegata dallo sforzo di chi abbocca e di chi fugge, di chi prende e di chi lascia. Jim Harrison, che è la spiritual guidance di tutti questi pescatori e narratori diceva, parafrasando Shakespeare, che “siamo natura anche noi”, e si capisce perché questi racconti ci parlino così da vicino anche se non siamo mai saliti su una johnboat o non sappiamo infilare un verme su un amo, che resta un gesto un po’ complicato.