Brian Panowich incastra i cliché come proiettili nel caricatore di un’automatica: il colpo da un milione di dollari (un milione e duecentomila, per la precisione), la coppia di agenti dell’FBI, il contrasto tra i federali e i locali, gli scontri lungo la catena di comando, l’amicizia sui lati opposti della legge e della strada. I dettagli originali arrivano dal combattimento dei galli e dal piccolo William, che convive con la sindrome di Asperger, e collegando le due notizie già si svela un po’ troppo, ma i personaggi di Brian Panowich hanno una loro vita che prende forma nel corso dell’intricata trama di Hard Cash Valley. Il protagonista principale, Dane Kirby, si porta dietro qualche reminiscenza autobiografica di Brian Panowich (è stato un pompiere come lui) e la tragedia di aver perso una famiglia in un incidente. Non è proprio un supereroe: arranca a fatica, ha in tasca un’infausta diagnosi, è tormentato dai rimpianti e dalle indecisioni del presente, in particolare nel rapporto con la fidanzata, Misty, e con un vecchio amico, Ed Lemon, coinvolto in uno strano caso di omicidio. Quando viene convocato dall’FBI sulla scena di un altro (brutale) delitto, Dane Kirby sembra non avere possibilità nel confronto con gli agenti Roselita Velasquez e Geoff Dahmer (che ha pure il cognome di un serial killer cannibale), tirati a lucido, aitanti, assertivi e aggressivi, e del loro ambiguo capo, August O’Barr. Per non dire della coppia di filippini che imperversa con ferocia inusitata alla caccia del bottino. Uno dei due ha qualcosa di mostruoso nella sua determinazione: Fenn è il classico personaggio secondario che, nello svolgersi della storia, arriva a occupare un ruolo di primo piano, convinto che “quel paese era il peggiore di tutti. Gli americani erano un popolo debole, bambini grassi e viziati che seguivano alla cieca dei leader il cui obiettivo era chiaramente quello di mantenerli tali”. La sua considerazione è dovuta a motivazioni particolari e al fatto di sentirsi straniero ed estraneo, ma il ruolo dei luoghi e dei legami è fondamentale in Hard Cash Valley come se il territorio fosse una mappa disegnata dai movimenti dei protagonisti. In questo Brian Panowich è debitore, come tutti, a Flannery O’Connor quando diceva: “La terra che sta a cuore allo scrittore nel modo più obiettivo è, naturalmente, la regione che più da vicino lo circonda, o semplicemente la terra, col suo insieme di usi e costumi, che conosce abbastanza bene da utilizzare”. È così che riesce a districarsi tra l’anonimo paesaggio urbano e quello tutto da decifrare nei frangenti più selvatici della Georgia: “Su a nord, in posti come McFalls County, almeno c’erano grandi alberi a stemperare l’afa, e soffiava una brezza costante dalle montagne. In città non tirava un alito di vento, e chi ci viveva doveva accettare l’idea che non esistesse una via di fuga naturale dalle bordate improvvise dell’estate. L’unico sollievo era trovare un luogo provvisto di aria condizionata in cui nascondersi: una macchina, un ufficio, una scatola”. La distinzione non è soltanto climatica: Hard Cash Valley è sull’altro versante ed è come essere oltre un confine dove giusto e sbagliato si confondono, come le strade senza nome che si inerpicano sulle montagne. Ci sono zone franche, dove il governo federale non può arrivare, e pare evidente che per Brian Panowich la distanza è insuperabile e che soltanto uomini combattuti e tormentati come Dane Kirby possano colmarla. L’ammonimento offerto alla “collega” Roselita Velasquez, nel momento in cui stanno per affrontare la resa dei conti finale è lapidario: “Da queste parti l’unica cosa che conta è non lasciare tracce”. Bisogna seguire l’istinto: meno razionalità, più fiuto. Non è soltanto una questione di spazi: è anche il passato che non passa mai ed è il motivo per cui Hard Cash Valley è ornato da una ghost story, per via delle frequenti apparizioni di Gwen, la moglie di Dane Kirby. E tra i fantasmi non vanno dimenticati i residui dei Burroughs che aleggiano sopra Bull Mountain. Sono ancora lì, proprio come le montagne della Georgia, inamovibili, indistruttibili.
mercoledì 24 febbraio 2021
martedì 23 febbraio 2021
Louise Glück
Viviamo in “un tempo governato da contraddizioni”, che è anche un “tempo di attesa, di azione sospesa” e in attesa che un “tempo propizio” si riveli “come un’azione compiuta”. Il tempo è tutto ed essendo Averno una destinazione a suo modo definitiva (è il lago di origine vulcanica nell’area napoletana che veniva considerato l’ingresso negli inferi), Louise Glück gli si avvicina con misurata cautela, levigando le parole e i versi, orientandosi con premura nel delicato equilibrio tra la forza dell’immaginazione e la pratica urgenza dell’osservazione. È evidente già in Ottobre, dove scrive: “Ciò che altri hanno trovato nell’arte, io l’ho trovato nella natura. Ciò che altri hanno trovato nell’amore umano, io l’ho trovato nella natura. Molto semplice. Ma lì non c’era nessuna voce”. Il rapporto tra natura e arte, una costante nella poesia di Louise Glück, si fa così determinante anche in Averno che secondo la postfazione di José Vicente Quirante Rives “è un libro di poesie profondamente femminile se per femminile intendiamo anche il principio della vita. Averno è il libro di Persefone, di lei e delle sue declinazioni. Averno diventa metafora dell’inferno che prima o poi tutti visitiamo, il luogo dove si entra ragazza e si esce donna ferita per sempre. Ascoltare la natura per silenziare la violenza della propria mente”. Il suono riporta la notizia che “le canzoni sono cambiate, ma davvero sono ancora assai belle. Sono ridotte a uno spazio minore, lo spazio della mente. Sono cupe, ora, di desolazione e angoscia”. È lì che Averno si colloca in una posizione per sentire, sapendo che “eppure le note ricorrono. Sono stranamente sospese in previsione del silenzio. L’orecchio ci si abitua. L’occhio si abitua alle sparizioni”. Dall’elemento naturale e mitologico, ci si inoltra nelle esigenze e nei tormenti individuali perché proprio come dice Persefone l’errante “i personaggi non sono persone. Sono aspetti di un dilemma o conflitto”. E lo si vede ancora in più in Prisma, che, in definitiva, “alcuni finali erano tragici, quindi accettabili. Tutto il resto era un fallimento”. L’estrapolazione di José Vicente Quirante Rives è ancora una volta un’utilissima guida in questo ulteriore passaggio: “I versi di Glück sono la dimostrazione di quanto raccontare il dolore può alleviarlo. L’alchimia prodigiosa, il paradosso che fa spesso del canto l’unica via d’uscita della tragedia. Mentre canti non sei morto, sembra dirci l’autrice dal suo angolo, perché Glück non è una poeta che va incontro al lettore, e men che meno si esibisce per conquistarlo. Lei recita a bassa voce parole scarne di sopravvivenza”. È una descrizione che trova conferma nelle parole stesse della poetessa, quando dice che “ho cercato di essere accurata in questa descrizione, caso mai qualcun altro mi segua. Posso testimoniare che quando il sole tramonta in inverno è incomparabilmente bello e il ricordo di esso dura a lungo”. Seguendo la natura circolare del lago in sé e dei cicli delle stagioni, Averno ritorna agli inizi primordiali proprio lì dove “siamo ciascuno di noi, quello che si sveglia prima, che si scuote prima e vede, là nel primo albore, lo sconosciuto”. La finestra aperta non spalanca soltanto un intervallo verso l’immediato orizzonte, ma anche sul tempo che passa e riesci “a vederne un pezzo” perché ammette la stessa Louise Glück in Paesaggio “vivevo nel presente, che era quella parte del futuro che potevi vedere”. Averno è un invito a guardare oltre, più lontano, più a fondo, e senza la necessità di raggiungere nulla.
giovedì 18 febbraio 2021
Don DeLillo
Un atterraggio di fortuna. Il Super Bowl. La pubblicità. Il buio, lo schermo nero, l’assenza di messaggi e di segnali che implica il ritorno alla memoria come una sorpresa unica perché da noi ormai “non viene più quasi niente fuori dal nulla. Quando un elemento mancante viene a galla senza l’ausilio di alcun supporto digitale, ognuno lo annuncia all’altro con lo sguardo perso in lontananza, l’aldilà di ciò che si sapeva un tempo e che è andato smarrito”. Ed eccolo lì, Il silenzio. Non sono chiari i motivi dell’improvviso black out: il preludio di una guerra mondiale e/o il risultato di una catastrofe nucleare distinguono “l’abbraccio casuale che segna la caduta della civiltà mondiale”. L’incognita nell’equazione di Don DeLillo non è la causa, le cui dimensioni apocalittiche sono propedeutiche piuttosto a evidenziare le risposte dei personaggi, giunti a una condizione cruciale: “Niente più meraviglia, niente più curiosità. Il senso dell’orientamento gravemente compromesso”. Sganciati dalle protuberanze digitali, Jim Kripps e Tessa Berens, Martin e Diane Lucas e Max Stenner si ritrovano coinvolti in una danza di ipotesi, finché arrivano a considerare il fatto concreto (l’unico possibile) che “qualunque cosa stia succedendo là fuori, noi siamo pur sempre persone, i frammenti umani di una civiltà”. L’insistenza sull’idea di una civiltà che da una parte si sta disgregando e dall’altra prova a giocare su un equilibrio fragile, costituisce quel grumo narrativo rarefatto e concentrato che Il silenzio svolge con precisione geometrica, costringendo ogni possibile valutazione a considerare che “lo stato delle cose, il mondo esterno, tutto questo avrebbe richiesto un altro tipo di sguardo non appena le circostanze l’avessero consentito”. Le convergenze iniziali diventano traiettorie imprevedibili e mentre uomini e donne provano a collimare esigenze irrinunciabili (curarsi, capirsi) un dubbio amletico comincia a farsi strada: “E se non fossimo davvero quello che crediamo di essere? E se il mondo che conosciamo venisse sottoposto a un nuovo assetto davanti ai nostri occhi mentre stiamo fermi a guardare, oppure mentre stiamo seduti a parlare?”. Gli interrogativi sono virulenti, spuntano a sorpresa dove le linee temporali si intersecano (“Le cose semplici, descrittive: che fine avevano fatto?”) e quasi come una resa, Il silenzio è il riflesso di come “la situazione contingente ci dice che non c’è altro da dire se non quello che ci viene in mente, perché tanto alla fine nessuno di noi ne conserverà memoria”. Don DeLillo aggiusta la bilancia misurando con tutte le precauzioni necessarie quando pesa la tecnologia sulle nostre vite, ormai legate a sistemi che “più sono avanzati più sono vulnerabili”, non ultima l’intelligenza artificiale “che tradisce ciò che siamo e il modo in cui viviamo e pensiamo”. La forma, elusiva in modo esponenziale, con tutte le ellissi e le reiterazioni possibili e immaginabili, riesce a contenere lo stridore della realtà (“Non dobbiamo far altro che considerare la situazione in cui ci troviamo”), a toccare i nervi scoperti dell’attualità (“La gente deve continuare a ripetere a se stessa di essere ancora viva”) e, in un tempo parallelo e intangibile, prova ancora a trovare “in tutte quelle sillabe, da qualche parte, qualcosa di segreto, recondito, intimo”. Oggi, Il silenzio ci dice chi “siamo noi, più o meno”, e chi è Don DeLillo al 100%.
lunedì 15 febbraio 2021
John O'Hara
John O’Hara invita a guardare dal buco della serratura, dentro un vicolo buio o in un club all’ora di chiusura. La discrezione va messa da parte, il voyeur scruta in abissi invisibili a occhio nudo. Solo che i racconti di The New York Stories, coprendo un periodo dal 1936 al 1966, aprono uno squarcio importante della storia americana del ventesimo secolo. I protagonisti sono sfuggenti, ombrosi, sempre a rischio, con una svolta dietro l’angolo che li attende: la precarietà è il denominatore comune, ma incorniciata in uno scenario foderato di velluto. I piccoli drammi borghesi, i tre matrimoni, i due cani e la bruciatura di sigaretta in Agatha, per esempio, bastano e avanzano a fornire la trama della storia. Per La cervellona è un licenziamento, in Di solo pane, sono sufficienti padre e figlio, Willie e Booker Hart, a una partita di baseball ed è Lo smidollato a spiegare che “Be’, quando si cade, si cade. I dettagli possono variare da un caso all’altro, ma in sostanza è sempre la stessa storia”. I particolari sono congiunzioni tra racconti, i dialoghi sono sferzanti, sia che riguardino un incidente a sfondo razziale in Ellie (siamo nel 1946) o Una serata in famiglia infestata da troppi martini (l’alcol è onnipresente) o i codici di comportamento espressi da Harrington & Whitehill: “A New York non puoi indossare la stessa camicia per due giorni di fila, non se fai l’impiegato”. I racconti appaiono monchi, con il finale lasciato in sospeso, come se toccasse al lettore completare l’opera, impresa necessaria in Ultimo, ultimo spettacolo, che si regge sui ricordi della guerra e di Londra, così come in Spirito sportivo, dove John O’Hara si addentra nel sottobosco malavitoso di New York seguendo le gesta di personaggi più consumati che annoiati. Sono il riflesso di una civiltà decadente, dove La carriera pubblica del signor Seymour Harrisburg ha un sussulto, giusto la fama di quel quarto d’ora, perché coinvolto in un caso di omicidio. John O’Hara ha una percezione acuta, a tratti eccessiva, degli ambienti, dei movimenti, delle figure e dei momenti. La sua ossessione dipende anche dal fatto che, come si dice in A vita privata “ogni giorno recitano la stessa commedia”. Le voci si distinguono nitide, le New York Stories sono definite da una cornice teatrale, e, non a caso, attingono spesso al mondo dello spettacolo ovvero dallo showbiz, come lo chiama John O’Hara. Tra John Barton Rosedale. L’attore degli attori o Joan Mamford che in Chiamami, chiamami attraversa la città per rifiutare una piccola parte o l’attrice un po’ avanti negli anni (Hollywood è un ricordo nelle fotografie) e la figlia di un antico fidanzato che si presenta già ubriaca in Posso rimanere qui?, è una processione di carriere che sono arrivate ai titoli di coda. Gli incontri, i drink e le fitte conversazioni sono solo tentativi di inseguire vite che scompaiono, si dissolvono o sfumano nei rimpianti. Nel migliore dei casi la gente delle New York Stories è intrappolata al bancone come in The Nighthawks di Edward Hopper, e il silenzio è la fine. Così la partita con John O’Hara è a punti: cita Henry Miller, H.G. Wells, Oscar Wilde e i luoghi comuni americani vengono disintegrati uno dopo l’altro, senza alzare la voce, con elegante distacco. Un metodo che diventa ben presto riconoscibilissimo: una volta seguito il suo sguardo, si resta ipnotizzati.