Il 16 dicembre 1932 Federico García Lorca introduceva una lettura di Poeta a New York all’Hotel Ritz di Barcellona dicendo: “Signore e signori, ogni volta che parlo di fronte a molte persone mi sembra di aver sbagliato porta. Mani amiche mi hanno spinto ed eccomi qui. Metà della gente va smarrita tra scenari dipinti e fontane di stagnola, e quando credono di aver trovato la loro stanza, o il tiepido cerchio di sole, si trovano a che fare con un caimano che se li inghiotte o... Con il pubblico, come me in questo momento. E oggi non ho darvi altro spettacolo che una poesia amara, ma viva, che credo potrà aprire i vostri occhi”. È una presentazione validissima per La fiamma, raccolta di “poesie e pagine scelte dai quaderni” che è un tuffo senza rete di sicurezza nel turbolento mare di Leonard Cohen. Mendicante di parole che si definisce “un tipo comune con problemi”, si accosta alla poesia con assiduità, forse anche con un metodo, come dice in Accade al cuore: “Lavoravo sempre con rigore, ma non la chiamavo arte”. La discrezione e l’umiltà (ammirevoli), davanti agli scarabocchi che poi germogliano in versi e canzoni per una voce inconfondibile (La fiamma contiene anche le liriche degli ultimi album di Leonard Cohen, Popular Problems, You Want It Darker, Old Ideas e quelle scritte per Blue Alert di Anjani Thomas) si comprendono solo con la consapevolezza che “la poesia giunge da un luogo che nessuno domina e che nessuno conquista”. L’esempio migliore di questa inafferrabilità è una delle schegge più antiche, Il mio avvocato, (1978): “Il mio avvocato mi dice di non darmi pensiero, dice che il ciarpame ha ucciso la rivoluzione. Mi porta alla finestra dell’attico, mi dice del suo piano per falsificare la luna”. Il complotto delle parole che ha ordito Leonard Cohen è ancora più fitto e si svela in un lavorio continuo, una sorta di work in progress senza uno schema preciso, ma con un senso molto ben definito, anche in ogni singolo frammento. La fiamma non è una banale raccolta postuma e posticcia, frutto di un lavoro di assemblaggio: c’è una costante, proprio nell’avanzare della poesia di Leonard Cohen che ripropone il tema ricorrente del desiderio e delle forme con cui si esprime, che spesso coincidono con le figure femminili abbracciate e lasciate, ammirate e travolte. Circondato da donne, viziato, assediato, tradito Leonard Cohen vorrebbe scendere a patti (come scrive in Un trattato: “Magari ci fosse un trattato tra il tuo amore e il mio”), ma nella scintilla che lo brucia c’è una distanza dall’amore, come se fosse imprendibile. È come se mancasse sempre un passo, o meno ancora, e pare infine sublimarlo in Vuoi che sia più buio: “C’è un innamorato nella storia, ma la storia è sempre la stessa”. E non solo, c’è una sensazione agrodolce quando Leonard Cohen constata: “Sono arrivato fin qui per la bellezza, e ho lasciato indietro così tanto”. Le metafore sfumano dall’intimo alla cronaca di tempi brutali e caotici che Leonard Cohen scruta con disincanto. In Sto guardando la bandiera è laconico quando dice: “Sto guardando la bandiera con la mano sul cuore. Se solo potessimo vincere (una di) queste guerre che ci piace cominciare”. È persino fatalista in Ciò che sta per accadere 16.2.2003 ammettendo che “Tutto quello che fai o ti astieni dal fare ci condurrà nello stesso posto, il posto che non conosciamo”. Difficile distinguere se l’attenzione è rivolta agli eventi bellici dell’epoca o a conflitti privati, che non sono mancati. È probabile che le dediche siano ambivalenti perché come scrive in Non importa “la storia è narrata con fatti e con bugie”, e poi, ancora, con maggiore precisione, “la storia è raccontata con fatti e con bugie, possedete voi il mondo, dunque non importa”. Un’ultima ombra di desiderio, la speranza che “torneranno il vino e le rose”, come invoca in Una strada, l’acuta osservazione in Gli specchi dell’ascensore (“L’intera impresa di viaggiare e alloggiare ha raggiunto punte da pericolosa avventura erotica”), il nome di Dylan che ricorre e appare e scompare, un appassionato ritratto di Tom Waits e l’omaggio finale a Federico García Lorca contribuiscono a quella sensazione di entrare in una stanza dove è successo di tutto in nome della bellezza e qualcosa, in mezzo al disordine, ci dice di nuovo che ne valeva la pena.
lunedì 28 ottobre 2019
mercoledì 23 ottobre 2019
Howard Fast
Bisogna partire dal presupposto che “è nella natura dell’uomo saper scrivere soltanto degli inferni che si è creato da sé”, per capire come Howard Fast alias Walter Ericson abbia saputo tradurre un romanzo storico in una lezione morale, già esplicita nella dedica ai figli, dove spiega che quella di Spartacus “è una storia di uomini e donne di coraggio che vissero molto tempo fa e i cui nomi non furono mai dimenticati. Gli eroi di questa storia sostennero la libertà e la dignità umana, e vissero nobilmente e bene”. Il confronto con Roma è implicito, diretto e inequivocabile: imperversando per quattro anni, le rivolte di Spartaco mettono a nudo la decadenza, l’ambiguità e la fragilità della repubblica. Le vittorie ottenute sul campo, una sorpresa vista la rinomata efficienza delle legioni romane, giungono perché gli schiavi non hanno nulla da perdere e lottano per un concetto elementare: gloria o morte (o forse è meglio dire: gloria e morte). Anche Spartaco ribadisce che “non combattiamo per noi stessi, combattiamo per il mondo intero” con la convinzione che “una volta almeno nella vita, nella storia e nelle leggende d’ogni popolo c’era stata l’età d’oro, quella vissuta dagli uomini senza peccato e senza rancori, insieme, in pace e in amore”. La differenza è che nella capitale restavano convinti che “la giustizia era lo strumento dei forti, da usarsi secondo il desiderio dei forti; la moralità, come gli dei, era l’illusione dei deboli” e, di conseguenza, che “la ragione è Roma e Roma è ragionevole”. La corruzione endemica, la decadenza che ha portato a divertimenti senza più gioie, l’opulenza cresciuta a dismisura sulla pelle (letteralmente) degli schiavi, fino all’estrema follia del pubblico massacro dei gladiatori, ovvero la spettacolarizzazione del conflitto, della battaglia e, in definitiva, della morte sono componenti che aleggiano in Spartacus in forma di contrasti e riflessi. Con una scrittura quasi da feuilleton, descrittiva e minuziosa, volta a portare il lettore direttamente nel 71 avanti Cristo, tutto preso dall’avvincente metamorfosi di Spartaco, da schiavo al limite della sopravvivenza a guida dei ribelli, Howard Fast ne racconta le gesta seguendo l’iter di una sequenza di flashback che partono dal viaggio da Roma verso Capua, con fondamentale tappa a Villa Salaria, di Caio Crasso, della sorella Elena e dell’amica Claudia Mario. Lungo la via Appia hanno modo di trovarsi a stretto contatto con i caduti inchiodati alle croci perché “Roma non scherza. La punizione è adeguata al delitto, e in questo consiste la giustizia di Roma”. Il monito, ultima coda di uno spargimento di sangue spropositato, è palese perché “un uomo sulla croce non è più un uomo” ed è sottinteso che convenga a tutti che rimanga sottomesso. A Villa Salaria, i giovani viaggiatori trovano, radunati per l’occasione da Howard Fast, tre personalità rappresentanti altrettanti forme del potere: Crasso, il generale vittorioso e ricchissimo che ha sconfitto Spartaco, Gracco, l’abile politicante teso a commerciare voti e prebende, e Cicerone. Ospiti ben allietati da sofisticati menù e dalle raffinate abitudini patrizie, che Howard Fast non manca di sottolineare dettaglio per dettaglio, come per ribadire che, se da una parte vengono serviti “filetti freddi anitra affumicata e arance candite”, dall’altra si soffrono la fame e la sete e ogni altra privazione di un inferno che “ha inizio là dove gli atti semplici e necessari della vita diventano mostruosi; e questa esperienza, attraverso tutte le età, fu condivisa da tutti coloro che provavano l’inferno creato dagli uomini sulla terra”. Nel lussurioso convivio tocca a Gracco rispondere alle sollecitazioni che le cronache hanno portato fino alle periferia di Roma: “Noi razionalizziamo l’irrazionale. Convinciamo il popolo che la più grande soddisfazione nella vita è di morire per i ricchi, e convinciamo i ricchi che devono rinunciare a parte delle loro ricchezze per mantenerne il resto. Siamo dei maghi. Creiamo un’illusione, e questa illusione è a tutta prova”. È grazie a questa architettura di mistificazioni e paradossi che la repubblica si regge, e quando la realtà resta “solo un’inizio” e la verità diventa impossibile “non perché non esistesse, ma perché non era giustificata dai tempi”, rimane la forza militare a imporre l’amministrazione e l’ordine di Roma. Il vero scotto da pagare lo rivela Varinia, la compagna di Spartaco, nel dialogo finale con Gracco, che l’ha voluta con sé a tutti i costi: “Non abbiamo messo a fuoco il mondo. Tutto quello che volevamo era la nostra libertà. Tutto quello che volevamo era di vivere in pace. Non so parlare come te, non sono stata educata, non so parlare bene nemmeno la tua lingua; quando parli mi confondi. Non mi confondevo quando ero con Spartaco. Sapevo quello che volevamo: volevamo essere liberi”. Le guerre servili restano un capitolo lancinante nella storia di Roma, un nervo scoperto nella traballante natura della repubblica. Spartaco, come ripete Varinia, è convinto che “non c’è nulla di più importante che essere un uomo, un uomo semplice, comune e umano”, mentre Roma si regge sullo sfruttamento indiscriminato di uomini e donne. Detto questo le spire del romanzo sono avvolgenti: Howard Fast è convinto della scelta di Spartaco, sta dalla sua parte e non lascia alcun dubbio in merito e la storia si legge con scioltezza, nonostante la promiscuità, gli intrighi, le trame e i complotti che annodano le vicende personali alla sorte della repubblica. Su quello Howard Fast tende a calcare la mano, mettendo in risalto di volta in volta le contraddizioni di Cicerone, Gracco e (più di tutti) di Crasso che rimangono comunque angosciati, nonostante la vittoria, la terrificante repressione contro i ribelli e la damnatio memoriae perché Spartaco ha assunto lo status di leggenda che, ormai, per le condizioni in cui versa la repubblica, è qualcosa in più di un fantasma. È un segno del destino.
sabato 19 ottobre 2019
Willy Vlautin
Ogni personaggio se ne porta dietro un altro, come se la disgregazione delle storie personali dovesse comporsi in una sequenza sincopata di incroci collaterali, le vite saldate a due a due da segmenti dentro una sorta di rete invisibile e casuale. Il denominatore comune di The Free è la fatica di vivere in America, assediati dalla solitudine che imperversa come un virus a cui pare non esserci rimedio. È la dimensione in cui vivono (e muoiono) i personaggi di The Free, a partire da Leroy Kirvin, già dall’incipit, rappresentante di un’intera nazione di reduci e veterani delle guerre americane. Sconvolto dall’esperienza militare, Leroy tenta il suicidio e si ritrova immobilizzato e intubato in un letto di ospedale. Nell’infelice posizione, Leroy introduce Freddie McCall e Pauline. Freddie lavora nella casa famiglia dove era ospite dopo essere tornato, ferito, dall’Iraq. È separato, ha due figlie, una delle quali ha un costante bisogno di cure mediche, una questione spinosa con un welfare ridotto ai minimi termini. Per far fronte a tutti i conti, Freddie, ha una seconda occupazione nel negozio di vernici di Pat Logan, il classico figlio di papà imbelle e incapace. Pauline è l’infermiera che accudisce Leroy, non meno di un padre disturbato e irascibile a cui è legata da “un ineluttabile senso di responsabilità”. A sua volta Pauline incrocia Jo, che smuove in lei un senso di pietà e di solidarietà: “C’erano state delle volte, quando aveva iniziato a fare l’infermiera, in cui si sentiva sopraffatta dai suoi pazienti. Si sentiva sommersa e intrecciata alle loro vite. Aveva impiegato anni per costruirsi un muro di protezione, e a volte aveva ancora lo stesso problema. Adesso si concedeva solo qualche attimo di cedimento, poi trovava il modo di ricomporsi alla svelta. Ma quella ragazza le ricordava troppo se stessa e il modo in cui si sentiva alla sua età. Sola e inascoltata e indesiderata e insignificante”. Jo, che poi si scoprirà chiamarsi Carol, fa parte di una una pattuglia di outsider, tossici e disperati. Le sequenze, a cascata, sono intervallate dalla presenza onirica di quello che resta della coscienza di Leroy che, nella sua infermità, “aveva la costante sensazione di precipitare e le uniche cose che riusciva a vedere erano le cose dell’inferno”. Nel contrasto appaiono anche la fidanzata, Jeanette, e la madre Darla, che lo assiste leggendogli romanzi di fantascienza. Un cappa tristissima li avvolge tutti come se fossero incastrati in una disperazione da cui non sanno come liberarsi. L’attenzione è scrupolosa, ma anche spietata, perché Willy Vlautin non concede nulla ai suoi personaggi, che arrancano a fatica dentro vite con due lavori, avvolti nell’indifferenza, ospiti in malinconiche camere di motel e in auto che perdono letteralmente i pezzi per strada e che si ritrovano a dormire in un sacco a pelo perché non hanno pagato le bollette del gas. In The Free c’è un’umanità che vive ai margini, ai limiti dell’indigenza, eppure è travolta dalla storia, sia essa il riflesso dell’ennesima crisi economica o di un lontanissimo conflitto nel deserto del Medio Oriente: la luce invernale, aspra e tagliente, porta il marchio di un sano, indiscutibile realismo. C’è il fantasma di Raymond Carver che aleggia in The Free e si addensa nel romanzo, come se fosse una catena di racconti che si succedono senza soluzione di continuità. Le atmosfere sono livide e dure perché forse ha ragione Leroy Kirvin quando pensa che “forse la gente si consuma, semplicemente”, eppure, tra tutti, Freddie e Pauline riescono a vedere un futuro, una speranza anche nel bel mezzo di una desolazione senza via di fuga. Willy Vlautin è molto coraggioso nel raccontare i tentativi di tenere insieme i pezzi, l’insistente ricerca di una ragione per credere ancora e per andare avanti, affondando le mani nell’America di oggi, incompiuta e dolente. Un romanzo scomodo e necessario.
lunedì 14 ottobre 2019
Stephen King
L’istituto ha una planimetria che, in tutti i suoi livelli, sprofonda in cavità sotterranee che nascondono persino un forno crematorio. Senza dubbio, già la forma è quella di un’istituzione totale, visto che corrisponde alla definizione di Erving Goffman in Asylums, ovvero è un “luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”. C’è qualcosa di peggio: L’istituto è il capolinea per frotte di bambini rapiti, per via di presunte capacità paranormali, e destinati a diventare l’ennesima arma segreta e imbattibile. E qui Stephen King distingue subito e con premura i buoni dai cattivi: L’istituto è retto da uno staff particolarmente odioso che ha in Julia Sigsby e Trevor Stackhouse i suoi apici, ma alti gradi di perfidia e sadismo sono distribuiti tra il personale come quel virus riconosciuto anche da Asylums: “Quando si agisce su gruppi di individui, accade che essi siano controllati da un personale la cui principale attività non risulta la guida o il controllo periodico (come può essere in molti rapporti fra datore di lavoro e lavoratore), quanto piuttosto un tipo di sorveglianza particolare, quale quella di chi controlla che ciascun membro faccia ciò che gli e stato chiesto di fare, in una situazione dove si tenderà a puntualizzare l’infrazione dell’uno contrapponendola all'evidente zelo dell’altro che, per questo, verrà costantemente messo in evidenza. Che sia il gruppo di persone controllate a precedere il costituirsi del piccolo staff controllore o viceversa, non è questo il problema; ciò che conta è che l’uno è fatto per l’altro”. La vera battaglia è mentale, sembra suggerire Stephen King: L’istituto nega l’individualità, ben rappresentata dal talento genialoide di Luke, la cui intelligenza associata agli effettivi poteri di Avery, sarà determinante nel fomentare la rivolta contro le nefandezze umane che, dietro le mura dell’istituto (poi, degli istituti, come si scoprirà), trovano lo spazio vitale per diffondersi. Gli aspetti più protervi e feroci, le torture, gli esperimenti, la negazione in sé dell’habeas corpus con la l’idea di formare delle “reclute” nascono nei contorni di un retaggio militare e di un malcelato senso di patriottismo, dietro cui si sono protratti i peggiori abomini (illegali) e sono le condizioni primarie per cui esiste e prolifera L’istituto. Hanno un ruolo pesante nella costruzione della storia insieme ai cliché che Stephen King distribuisce come ingredienti che conosce da sempre, che assembla a modo suo, con uno stile consolidato e intaccabile. Stephen King riflette e usa anche i luoghi comuni (per dire: l’unione fa la forza) e ricicla per l’ennesima volta l’idea di It, almeno nelle linee generali, dove i bambini combattevano (gli unici a poterlo fare) contro un mostro grande quanto l’intera città. Dentro L’istituto devono lottare con qualcosa di peggio: la forma stessa dell’istituzione, il mondo oscuro degli esperimenti dei governi si nutrono della “mortificazione” degli individui ovvero si affidano“alla mutilazione personale che deriva dall’essere privati del corredo per la propria identità”, così come la definiva Erving Goffman. La struttura implica regole coercitive, e le costrizioni, le violenze, le privazioni, gli esami ed gli esercizi degni del dottor Mengele, hanno finalità del tutto imperscrutabili. È evidente che c’è qualcosa di malefico, ma L’istituto, come ogni istituzione, ha qualche falla nella sua rigida struttura. È fisiologico: pigrizia, noncuranza, ripetitività lasciano uno spiraglio a cui Luke, più intelligente che telepatico e telecinetico, si avvia ad affrontare anche grazie alla collaborazione della totalità degli abitanti di una small town sudista, che dispongono di armi e orgoglio sufficienti per mettere a soqquadro qualsiasi operazione speciale, militare o meno che sia. Un altro stereotipo, utile a Stephen King per spingersi oltre la missione di “rendere plausibile l’impossibile”, perché L’istituto rappresenta e contiene, per quanto dissimulate nel rocambolesco evolversi del racconto, le idiosincrasie delle istituzioni e delle loro deformazioni, lasciando intuire, nella sua concezione, un afflato orwelliano tutto da decifrare.
venerdì 11 ottobre 2019
Tom Drury
Il profilo di Pierre Hunter non è molto distante da quello di Tiny Darling, uno degli abitanti più in vista della Grouse County. È solo e ha una spiccata sensibilità per la vita all’aria aperta e per i guai che, nella cittadina di Shale, gli vanno incontro quasi per inerzia, innescando quella reazione a catena che alimenta Il movimento delle foglie. A differenza della Grouse County, la Driftless Area è più vicina alla regione dei Grandi Laghi: la limitata prospettiva dell’infinita pianura trova i rilievi di colline e altopiani, l’ambiente condensa gli elementi naturali della wilderness, dalle foreste agli specchi d’acqua, le variazioni climatiche tendono ad essere ancora più estreme. Sono annotazioni che rimangono sullo sfondo, ma contribuiscono in modo determinante a definire Il movimento delle foglie. È proprio sulla superficie congelata di un lago che si accende la miccia: dopo un Capodanno particolarmente alcolico e caotico, in cui si è guadagnato l’attenzione della polizia, Pierre decide di andare a pattinare, ma scivola nel ghiaccio. Stella Rosmarin, che lo stava osservando dalla riva, gli salva la vita, non senza una certa abilità. Il fortuito incontro li avvicina e, nello stesso momento, sigla quell’impercettibile distanza che rimarrà immutata per tutto Il movimento delle foglie: Pierre e Stella sono i due fuochi di un’ellisse attorno a cui si sviluppa la storia, come se il loro legame avesse una funzione magnetica, proiettata nel passato per Rosmarin e nel futuro con Pierre. È come se un destino fosse già tracciato lungo le geografie impresse dai movimenti delle glaciazioni. I personaggi sono sparpagliati, eppure incardinati uno con l’altro, secondo un ordine invisibile. Nella sostanza, costituisce la trama, nel senso più intimo della parola, che Il movimento delle foglie sviluppa in cerca di “un momento di perfezione, cosa rara in questo mondo scomposto”. All’ellisse di Stella e Pierre se ne sovrappongono altre due, che partendo da loro s’incastrano in un terzo fuoco, quello di Shane Hall. L’aggancio rovinoso tra Pierre e Shane, un altro outsider con un bel po’ di questioni in sospeso con l’ordine costituito, delimita il primo intreccio che però, nella realtà che Il movimento delle foglie lascia affiorare, è successivo all’intersecarsi delle vite di Stella e Shane. Una sfasatura voluta, almeno quanto l’evidente contrasto tra i due incontri: Stella e Pierre si trovano sul ghiaccio, mentre a circoscrivere l’intrusione di Shane nella vita di Stella è un incendio. Attorno gravita un nugolo d ifigure, ma lo schema è quello e lo sfalsamento dei piani temporali ottolinea che i personaggi di Tom Drury sono “ostaggi della sorte”, come il titolo della rappresentazione campestre che introduce il rocambolesco finale, forse perché “la gente passa la vita a figurarsi le cose peggiori e migliori, ma il più delle volte sono le cose medie che si verificano”. La leggera nota di fatalimso non mente: Tom Drury incanta con una leggerezza inusitata dando forma a “una sorta di sogno miope in cui tutto appariva più liscio e più verde e più discreto che nella vita reale”. Il suggerimento aiuta a introdurre nelle atmosfere che, attraversando Il movimento delle foglie, filtrano con uno stile sobrio ed essenziale. La sensazione è quella di trovarsi in una bolla di alcol, leggera, inebriante ma altamente infiammabile che Tom Drury identifica in “una tranquillità spaventosa”. È il mood di una love story, ma una anche di una storia di fantasmi, e se la sovrapposizione non è certo una novità, lo è l’approccio di Tom Drury che con Il movimento delle foglie costruisce un ibrido che si distingue per un paio di passaggi surreali (o sovrannaturali) dispensati con garbo e, proprio per questo, inseriti con tatto ed eleganza nel contesto complessivo. Come l’ecosistema di un lago anche Il movimento delle foglie è tutto concluso su se stesso, come se nell’enormità geologica del Midwest settentrionale ci fossero vie dei canti circolari, se non proprio concentriche, che restringono gli orizzonti, altrimenti inavvicinabili, ricordandoci una volta di più che “siamo immersi in un mondo enorme e meraviglioso che è più o meno un mistero anche per quelli che ci pensano a fondo”. Consigliatissimo.