Avendo dedicato una vita all’osservazione degli ambienti naturali, come guardaboschi e come libero pensatore, Aldo Leopold è metodico nel formulare l’approfondimento dalla sua contea sabbiosa del Wisconsin. Un punto di partenza circoscritto e ben definito nelle intenzioni, così come nelle conclusioni di Pensare come una montagna che per Aldo Leopold vuol dire, prima di tutto, considerare che “c’è valore in qualsiasi esperienza che ci ricordi la nostra dipendenza dalla catena alimentare suolo-pianta-animale-uomo, e della fondamentale organizzazione del biota. La civiltà ha sconvolto a tal punto la relazione elementare tra uomo e terra, grazie a innumerevoli gadget e vari intermediari, che la nostra coscienza di essa si sta affievolendo. Noi crediamo che sia l’industria a mantenerci, ma dimentichiamo ciò che mantiene l’industria. C’è stato un tempo in cui la cultura andava verso la terra invece di allontanarsene”. Le minuziose osservazioni quotidiane della flora e della fauna, di tutte “le cose libere e selvagge”, riportate poi nel suo almanacco con un fraseggio colorito e informale, si rivelano in realtà una trama fitta e approfondita che si distende dalle complessità del rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente in cui vivono al mito, tutto americano, della wilderness. Se al primo sguardo gli splendori e le asperità naturali sono soprattutto “cibo per gli occhi”, ed è vero, poi Aldo Leopold si convince che la contemplazione può portare da una comprensione specifica a una visione molto più ampia proprio perché “la nostra capacità di percepire l’essenza della natura inizia, come nell’arte, dal grazioso. Attraverso fasi successive si espande al bello e via via fino a valori non ancora catturati dal linguaggio”. La conoscenza dell’ornitologia, della botanica e della geologia, delle pratiche agricole si dipanano ogni volta con grande generosità, ma anche con un’attitudine ecologica disincantata e in sé molto lucida e ancora più attuale oggi che nel 1949, quando A Sand County Almanac (ovvero Pensare come una montagna) uscì per la prima volta. Raccontando le trasformazioni della prateria, delle paludi, dei boschi e dei corsi d’acqua, Aldo Leopold è un esploratore appassionato, ma anche consapevole che, pur mettendo in conto ogni sforzo possibile, “tuttavia ogni nostra tutela della natura selvaggia è destinata a fallire, poiché per prenderci cura dobbiamo poter vedere e accarezzare, e quando in troppi hanno visto e accarezzato non restano più luoghi selvaggi di cui prendersi cura”. Dovendo Pensare come una montagna, la buona volontà non è sufficiente: occorre considerare che “la terra come comunità è il principio base dell’ecologia, ma che essa sia qualcosa da amare e rispettare è un’estensione di natura etica”. Questo è il passaggio centrale del pensiero di Aldo Leopold, il seme che lascia le lande americane per diffondere un’idea elevata, ma nello stesso tempo limpida, dell’esistenza sulla e della terra perché “in fondo tutto si riduce alla stessa cosa: vivere in pace”. La voce di Aldo Leopold giunge forte e chiara e se proprio serve un’interpretazione valga quella di David Jéròme che nella colta e precisissima introduzione scrive: “Pensare come una montagna equivale ad importare nelle pratiche quotidiane il punto di vista olistico, o sistemico, dell’ecologia scientifica e quindi a rivestirla di una dimensione etica: sapere contemplare significa immediatamente sapere imporsi delle regole, dei limiti ma anche delle forme positive di interazione con l’ambiente”. In realtà, Aldo Leopold lo dice in modo molto più rustico e osservando la “valorizzazione” dei territori selvaggi, ovvero la proliferazione di strade e gadget, si chiede “a che serve tanta libertà senza uno spazio vuoto sulla mappa?”, ed è una domanda che può sorgere soltanto quando si comincia davvero a Pensare come una montagna.
venerdì 26 luglio 2019
martedì 23 luglio 2019
Joan Didion
Nel 1970, con i massacri della Kent State University e del Jackson State College nell’aria, Joan Didion, parte per un viaggio alla scoperta delle radici americane, con un’ambizione tutta sua: “Avevo una teoria: se fossi riuscita a capire il Sud, avrei capito anche qualcosa della California, perché molti dei pionieri californiani venivano dal confine meridionale”. L’idea è farne un articolo per Rolling Stone che nel frattempo gliene commissiona un altro sul processo a Patti Hearst. Non concluderà nessuno dei due pezzi, ma, come scrive Nathaniel Rich, “gli appunti di Didion, superiori per eleganza e chiarezza alla prosa pubblicata dalla maggioranza degli scrittori, offrono un ritratto affascinante di quell’epoca. Ma anche profondamente disturbante”. Gli estremi delle pagine di un diario sono ricordi in movimento, note a margine di una sosta, impressioni dal bordo di una piscina, riflessioni a cena scrutando tra una portata e l’altra e pensieri alla guida sulle highway. Il Sud è complicato e l’Ovest è soltanto un’appendice enigmatica. È il collegamento creato da Joan Didion a tessere un purissimo filo americano. Il viaggio nel Sud è una “sensazione di mocassini acquatici” (i serpenti sono onnipresenti fino alla fine, anche se in California assumeranno le sembianze dei crotali) con lo sguardo che cerca di individuare le forme ricoperte dal kudzu, il rampicante selvatico che nello stesso tempo distingue e nasconde il paesaggio e notando puntualmente che “a New Orleans la wilderness è percepita come molto vicina, non è la wilderness dell’immaginario dell’Ovest che redime, ma qualcosa di volgare, antico, maligno, non è la wilderness concepita come fuga dalla civiltà e dai suoi disagi ma come minaccia mortale a una comunità precaria coloniale nel profondo”. È “il tempo alla rovescia” a caratterizzare le osservazioni di Joan Didion (“A Sud ci si accorge dei treni. Davvero si vive in un’epoca anteriore”) e quegli attimi, tra un condizionatore che non funziona (“Tutto sembra guastarsi sul Golfo”) e la ricerca della lapide di Faulkner (missione fallita) la accompagnano a scoprire dal vivo quello che C. Vann Woodward declinava in The Search for Southern Identity: “Ogni gruppo, di qualsiasi misura, che rifletta su di sé, fabbrica miti sul proprio passato: sulle proprie origini, sulla propria missione, sulla propria rettitudine, sulla propria benevolenza e generale superiorità”. Joan Didion resta scettica rispetto al Sud confessando che “in un certo senso sono rimasta sott’acqua, tutto il mese” e, di conseguenza, ammette con un certo candore che “forse non ci siamo capiti, o forse sì”. Il paradosso è che la lucidissima visione del Sud di Joan Didion prende forma una volta tornata sulla West Coast: “Al centro di questa storia c’è un segreto terribile, un nucleo in cianuro, e il segreto è che la storia non conta, non fa differenza alcuna, non risulta. La neve cade ancora sulla Sierra. Il Pacifico trema ancora nella propria fossa. Le grandi placche tettoniche sfregano l’una contro l’altra, quando dormiamo e quando ci svegliamo. Serpenti a sonagli nell’erba secca. Squali sotto il Golden State. Nel Sud sono convinti di aver insanguinato la propria terra con la storia. Nell’Ovest pensiamo che nulla di ciò che facciamo possa insanguinare la terra, cambiarla, o toccarla”. Una rappresentazione netta, approfondita e tagliente che porta Nathaniel Rich a concludere così la sua scrupolosa introduzione per A Sud e a Ovest: “Eppure, anche nella sua manifestazione più informale, la voce di Didion, così sensibile al grottesco, alle vanità che danzano sotto la superficie delle nostre esperienze quotidiane, resta inconfondibile”. Impeccabile.
martedì 16 luglio 2019
Rachel B. Glaser
Come è stato documentato da Jon Wiener in Dimmi la verità, per tutta la durata della sua permanenza sul suolo statunitense, John Lennon venne seguito, pedinato, controllato e monitorato da un’intera squadra di agenti dell’FBI. Nel momento fatidico, l’8 dicembre 1980, non c’era nessuno. È impossibile non pensarci leggendo La Jon Lennin Xperience, secondo racconto di Piscio sull’acqua di Rachel B. Glaser, che ci trasporta nella realtà virtuale di un videogioco dove si interpreta John Lennon (compreso un complicato traguardo da raggiungere insieme a Yoko Ono). Con una sorpresa dietro l’angolo: se il finale purtroppo è noto e invariabile, Rachel B. Glaser sfodera un cambio di prospettiva geniale e spiazzante. Non è l’unico, perché ha una cifra tutta sua nello spostare i ruoli, dall’autore al narratore, dal personaggio principale al comprimario, arrivando persino a rendere protagonista il libro in sé, come succede in L’ombrello magico (“Quando non ci sono libri interessanti a tenermi occupato, leggo me stesso. Conosco a memoria ogni mia parola”), compreso un piccolo elenco che somma Nabokov, Cheever e Henry James. Volendo cercare dei punti di riferimento nelle metamorfosi stilistiche andrebbero aggiunte Lydia Davis per l’elasticità delle strutture, Jennifer Egan per l’attenzione alla modernità e forse George Saunders per gli aspetti più surreali (a partire da Convenzioni iconografiche prerinascimentali e del primo Rinascimento: la rappresentazione italiana della flagellazione di Cristo, un titolo che è già un concept), ma i racconti di Rachel B. Glaser parlano ad alta voce: le repentine variazioni dell’ordine, della trama, dei punti di vista sono rapsodiche, inaspettate e impreviste perché a dispetto degli algoritmi e delle ossessioni digitali, in Infezioni scopriamo che “per fortuna la vita non può essere contenuta in uno stupido programma del cazzo”. Infatti Rachel B. Glaser annovera tanto le vere contorsioni sentimentali in La fidanzata triste (“Avere un fidanzato è avere il ruolo privilegiato in un racconto”) o le simboliche mutazioni che affliggono Le due Ellen. C’è qualcosa di kafkiano in loro e così in quelli che Il ragazzino chiama “non-momenti”. È una dimensione temporale indefinita, ma a suo modo logica: i racconti di Piscio sull’acqua sono costruiti nel vuoto, legando frammenti e seguendo imprevedibili soluzioni. La sorpresa è l’elemento che unisce le trame insieme a infinitesimali dettagli che si allacciano e si trasformano con le voci che si incastrano una nell’altra. C’è una costante, tra tutti i racconti, fatta di piccoli punti di riferimento sparsi che vengono collegati dai “legnetti”, la cui assidua presenza ricorda il potere divinatorio degli steli di achillea nell’I Ching, al tono, che resta sempre molto lineare e ordinato, come se la consapevolezza che “una vita è una cosa enorme” meriti una forma di rispetto stilistica. In effetti c’è un substrato di amarezza che si insinua nella ristretta terra di nessuno tra reale e virtuale e non a caso Piscio sull’acqua è punteggiato di richiami nella fitta colonna sonora (Pearl Jam, Nine Inch Nails, Kurt Cobain, Radiohead, Bob Marley, OutKast, Paul Simon, Kylie Minogue nonché gli Stones di Exile On Main Street) che sottolinea la “scintilla elettrica” del pop, onirica e psichedelica. Per inciso, qui è utile ricordare cosa scrivevano a proposito Hugh Barker e Yuval Taylor in Musica di plastica: “Quel che si intende per autentico tende a essere influenzato esattamente da ciò che si percepisce come falso, in senso peggiorativo; considerare autentico qualcosa, di conseguenza, spesso diventa un giudizio morale oltre che estetico”. Rachel B. Glaser supera quella dicotomia, le traiettorie sono disorientanti e ricordano piuttosto le “strategie oblique” di Brian Eno, dove è il caso a determinare l’evoluzione delle storie. Succede con La casa dei sogni, L’addestratore della scimmia o, più di tutte, in Piscio sull’acqua, dove Rachel B. Glaser rivela uno dei segreti meglio nascosti del rock’n’roll quando dice che “Chuck Berry riesce a fregare il tempo, lo rinchiude nelle battute, e tiene. Funziona”. Deve essere lì che ha imparato il trucco.
lunedì 15 luglio 2019
Mark Twain
Reporter a bordo della Quaker City, una nave che nell’estate del 1867 anticipava le crociere oceaniche, Mark Twain colleziona 62 capitoli attraverso una quindicina di differenti nazioni, dal Marocco alla Siria (e una buona parte dell’Europa nel mezzo) e li raduna, un paio d’anni dopo, in Gli innocenti all’estero, di cui Finalmente Parigi rappresenta la prima, spumeggiante parte. Scritto con molto trasporto, il diario di viaggio di Mark Twain è immediato, divertente, caustico, e comincia ben prima di arrivare a Parigi. I fuochi d’artificio brillano già alla partenza. Quando sulla nave, per ingannare il tempo della traversata atlantica, va in scena un finto processo, Mark Twain lo illustra così: “I testimoni erano stupidi, inaffidabili e contraddittori, come sono sempre i testimoni. La pubblica accusa e il difensore erano eloquenti, polemici e vendicativamente prepotenti l’uno contro l’altro, così come avviene sempre ed è giusto che sia. Alla fine, il caso è stato discusso, e debitamente concluso dal giudice con una sentenza assurda e un verdetto ridicolo”. È un osservatore sornione e sardonico: non gli sfugge nulla, né delle relazioni tra i passeggeri né dei contorni e delle storie dei luoghi che di volta in volta affrontano. Memorabile la descrizione di Gibilterra, che “ha resistito a diversi lunghi assedi, uno dei quali è durato quasi quattro anni (ma fallì), e solo gli inglesi riuscirono a conquistarla grazie a uno stratagemma. La cosa stupefacente è che una persona sana di mente non dovrebbe mai nemmeno sognarsi di tentare un’impresa così impossibile come catturare la rocca assaltandola, eppure hanno tentato più di una volta di farlo”. Il tenore dei commenti non cambia, una volta trovata Finalmente Parigi. Anzi, per Mark Twain la Ville Lumière è uno spettacolo en plein air a cui concede con generosità spunti sfavillanti e adatti a ogni occasione, come la scoperta del ballo più chiacchierato dell’epoca: “Dunque, questo è il can-can. Il concetto alla base di questo ballo: danzare nel modo più selvaggio, chiassoso e furioso possibile; esporsi il più possibile se si è donna; e tirare calci più in alto possibile, e questo a prescindere a quale sesso si appartenga. E in quello che ho detto non c’è nemmeno una sillaba d’esagerazione. Qualsiasi persona posata, rispettabile e non più giovanissima presente lì quella sera può testimoniare sulla veridicità della mia dichiarazione. Erano presenti numerose persone del genere che ho appena descritto. Suppongo che la morale francese non sia affatto così puritana da lasciarsi turbare davanti a simili sciocchezze”. Mark Twain riesce a divagare partendo da piccole differenze (le candele, invece del gas, che in camera gli impediscono di leggere) o da ricostruzioni più elaborate come la parata con Napoleone III e Abdul Aziz o la visita al cimitero monumentale del Pére-Lachaise fino alla conclusione della visita parigina. Il commiato è un sentito arabesco: “Dunque, abbiamo visto tutto quello che c’era da vedere, e domani andremo a Versailles. Vedremo ancora qualcosa di Parigi ma solo per poco, allorché torneremo indietro per riprendere la nostra linea di marcia in direzione della nave, per cui potrò riservare a questa meravigliosa città un addio condito di rimpianti. Percorreremo molte migliaia di miglia, una volta partiti da qui, e visiteremo molte altre grandi città, ma non ne troveremo nessuna così incantevole come Parigi”. Subito dopo, l’ammirazione per Versailles dove “nulla è piccolo, nulla è economico” traspare da ogni singola riga con l’evidente intento di renderne lo splendore, almeno quanto l’intenzione di Mark Twain è rivelata nella sua conclusione: “Ah, ora finalmente mi sento come un individuo che si sia riscattato da una cattiva reputazione e che abbia dato lustro a un emblema prima offuscato, mediante una sola azione buona e giusta fatta all’ultimo momento”. En passant, la tappa parigina per Gli innocenti all’estero, così come la riporta Mark Twain, è un tassello non indifferente della lunga e capricciosa liaison degli americani con la capitale francese, foriera di uno stuolo di narratori e testimoni che rimangono in debito (e non poco) con queste pagine.
giovedì 11 luglio 2019
Elaine Castillo
Nei meandri brulicanti delle Filippine, giovanissima e affamata, Paz (Pacita) vuole mettersi un dente d’oro per imitare la sorella: risparmia e rubacchia e alla fine trova un dentista maldestro che per soddisfare il suo desiderio le provoca un’infezione che le fa perdere tutti i denti. Ma Paz è indomita e coraggiosa, diventa infermiera e sposa Pol, stimato ortopedico (nonché rinomato playboy), rampollo del clan dei De Vera. Per ricostruirsi una vita emigrano a Milpitas, nella Baia di San Francisco: lui si adegua a fare la guardia giurata, mentre Paz accumula turni su turni nel tentativo di ripianare i conti delle carte di credito. I suoi sforzi non sono sufficienti a anche perché deve mantenere uno stuolo di parenti, a casa e negli Stati Uniti. In più, hanno una figlia, Roni, l’unica amerikana tra loro, e Hero, che è la nipote, arriva per farle da autista e da baby sitter. Hero ha un passato tumultuoso e doloroso: ha aderito alla guerriglia ed è stata catturata e torturata dagli agenti della dittatura di Marcos. Un giorno deve portare Roni da una guaritrice, per curare il suo eczema. È lì, nel ristorante di Adela, che conosce Rosalyn. Ci vorrà un po’ ma tra le due ragazze nasce un sentimento che fanno fatica a gestire e che per Hero funzionerà come una leva nel mostrarle la sua nuova esistenza: “Buffo, scoprire questo di sé proprio adesso: che era possibile nutrire pretese tanto profonde e irremovibili senza neppure saperlo; evidentemente c’erano pretese in grado di sopravvivere per anni dentro il nucleo di una persona. Buffo, quanto poco ancora sapesse di se stessa, quanto ancora ci fosse da vedere, e da cui farsi confondere. Era buffo alla maniera in cui sono buffe le cose un secondo prima che si mettano a scavarti dentro, a torcerti e a strapparti”. Non è l’unico colpo di scena, anche se L’America non è casa è del tutto privo di trucchi e di effetti speciali. Al suo esordio, Elaine Castillo sceglie un approccio ravvicinato e stratificato: mescolando i punti di vista dalla seconda alla prima persona e le lingue (inglese, tagalog, ilocano e panganisan) ottiene l’effetto denso e ammaliante di una voce dentro le famiglie filippine, che si allargano a dismisura tra nonni, zie, nipoti e parenti acquisiti. Si trovano e si ritrovano spesso: la definizione dell’identità è affidata alle ricorrenze che si trasformano in feste per tutta la comunità (Paz spende diecimila dollari che non ha per il compleanno di Roni) dove la musica e il cibo hanno ruolo dominate. La musica perché “apriva una fenditura, piccola quanto bastava, dove il ricordo potesse dipanarsi in sicurezza” e il cibo (onnipresente) nelle elaborate descrizioni di Elaine Castillo è protagonista assoluto persino nell’eloquente finale. Come se fosse l’espressione più intensa, naturale e densa della nostalgia: L’America non è casa perché si tratta di essere lì e non essere lì, una condizione irrimediabile per tutti gli emigranti, perché come ammette Paz “sei stata straniera tutta la vita; quando finalmente te ne vai, l’unica cosa che ti auguri è un’estraneità più sopportabile”. Ogni occasione è un tentativo, coerente e insistente di ripristinare “l’effettiva condizione del mondo, un mondo in cui c’erano ancora musica melensa, lechón kawali, pioggia forte ma passeggera, sport in tivù, vacanze annuali, famiglie affettuose, amore ricambiato”, ma che fluttua come “uno scherzo di tali, surreali proporzioni che l’unica conclusione a cui si poteva giungere era che non fosse per niente uno scherzo; e se non lo era, e non era un sogno, poteva essere solo... Vita. Vita vera. Ordinaria esistenza”. Non è così semplice: per quanto le opportunità siano infinitamente superiori alle Filippine, resta il fatto che L’America non è casa, le difficoltà e le tensioni sono costanti, se non opprimenti (compresi gli echi delle rivolte di Los Angeles nel 1992) e lì fuori, comunque, “c’è una storia, o si è trattato di... Una parola che non dirai, che non concepisci, una parola che aleggia come smog sulla tua vita e quella di tutte le altre donne che ti circondano. Non lo sai. Guardarti in faccia non ti dice niente, e non c’è nessuno a cui chiedere”. Notevole.
mercoledì 10 luglio 2019
Don Winslow
Il confine è punteggiato dallo slogan Adán vive, nei corrido, nelle voci, nelle storie che vengono tramandate (tutto è basato sulle voci e sulle storie), ma la scomparsa di Adán Barrera, primus inter pares tra i narcotrafficanti, ha diviso il Messico come uno specchio infranto perché “non tutti i fantasmi sono morti”. Le famiglie Esparza e Tapia, gli Ascensión e i Núñez, la sorella di Barrera e quello che resta del cartello di Sinaloa, con i figli d’arte, Los Hijos, che si consumano tra una festa e l’altra, sono pronti a darsi battaglia. Tutti si proteggono con schieramenti di guardie del corpo, ma c’è sempre una falla, un traditore, un rovescio improvviso: in Messico ricomincia un’orgia di violenza per il controllo del territorio e per la vendetta, che, in ogni caso, resta l’elemento dominante. Tanto è vero che “solo i morti hanno visto la fine della guerra” come dice l’epigrafe scelta da Don Winslow attribuendola ancora a Platone e perpetrando così la svista (come a suo tempo Ridley Scott in Black Hawk Down), dato che l’aforisma è di George Santayana. Su, al Norte, Art Keller sa che Adán Barrera è solo un ricordo (gli ha sparato in faccia due colpi, in Guatemala, in una missione segreta) e che per sua natura “la guerra alla droga tende a diventare un fatto personale”, ma c’è un passato che non passa mai. Anche lui è prigioniero degli spettri che ha creato, è l’esca e il ragno in una tela troppo fitta che Il confine divide e nello stesso tempo unisce. Quando gli viene offerto il posto di direttore della DEA, Art Keller capisce che avrà un altro ruolo nella sua storia, e altri nemici, molto più infidi, lo aspettano al varco oltre alle ombre che riemergono insieme agli incubi. Riflette, più che sparare, seguendo il corso di gente che esce dal carcere o ci rientra, uccide e viene ammazzata. I suoi interlocutori non sono più agenti sotto copertura, informatori o forze speciali di un paese o dell’altro pronte a intervenire al suo comando. Deve confrontarsi, in giacca e cravatta, con senatori, governatori, procuratori, funzionari e segretarie, ambizioni ed elezioni e tutti gli intrighi tra Washington e New York City. È così che il Messico e gli Stati Uniti appaiono come le due facce della stessa moneta, così lontani e così vicini: l’esercizio del potere si staglia su entrambi i lati che Il confine delimita. Se da una parte c’è Art Keller, con i suoi dubbi e i suoi tormenti, dall’altra Rafael Caro, un narcotrafficante che, dopo trent’anni di carcere, vive come un monaco e cerca di gestire la diaspora delle famiglie, indirizzando una faida dentro l’altra, nella logica del divide et impera e con lo scopo recondito di diventare il nuovo e assoluto patrón. Niente che non abbia già spiegato a suo tempo il Macchiavelli quando diceva che “se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenzia pervengono, o con frode o con forza esservi pervenuti”, ma l’alternarsi di “denaro, rabbia, paura, droga, sesso” trova nuovi e antichi protagonisti della saga di Don Winslow. Da Belinda (o la Fósfora), una psicopatica che inventa modi sempre più aberranti per combattere e distruggere i nemici, ai ritrovati Nora Hayden e Sean Callan fino a Hugo Hidalgo, figlio di Ernie (il partner di Art Keller all’inizio di tutto), Il confine è un labirinto shakespeariano nell’affastellarsi delle sue trame e Don Winslow è soltanto una guida, un anfitrione in questa discesa negli inferi dove l’avidità, l’ingordigia, la crudeltà e qualcosa che va molto, molto oltre il cinismo dominano i rapporti scarnificandoli al punto di non lasciare più nulla di umano. Attraverso Art Keller, guarda nell’America di oggi dei muri e delle polarizzazioni e infiltra nella fiction la triste cronaca, compresi quarantanove studenti spariti nel nulla e così Il confine è insieme un romanzo che avvolge, ipnotizza e tiene incollati alle sue novecento pagine, ma anche una cruda percezione dello “stato dell’unione”. È davvero un libro importante, come ha detto Stephen King, perché non fa sconti. Lo stile di Don Winslow si fa ancora più compatto e tagliente nel seguire Art Keller nell’insolita veste di burocrate. Nella sua nuova posizione, deve manovrare, deve intravedere attraverso le pieghe dell’intreccio tra potere politico, giudiziario, finanziario e mediatico seguendo il flusso della corruzione che può assumere forme molteplici: è ambivalente, viaggia dal basso all’alto e può essere via via sempre più subdola. Il rischio (concreto) che i proventi del narcotraffico possano influenzare il governo americano o (basterebbe quello) avere un orecchio vicino negli ambienti che contano, è qualcosa che va oltre la dimensione di un romanzo. È quello Il confine di cui parla Don Winslow che è stato oltrepassato e da cui non c’è ritorno.
giovedì 4 luglio 2019
Jennifer Clement
L’ossessione tutta americana per le armi ha offerto a Jennifer Clement il terreno ideale per ricostruire in Gun Love uno spaccato impietoso e drastico di un’umanità dolente, emarginata, confusa e devastata dall’incuria e dalla solitudine. Margot (madre) e Pearl (figlia) vivono in un’automobile prodotta alla fine del ventesimo secolo, parcheggiata sul limitare di un campeggio di roulotte in Florida. Gli elementi paesaggistici sono pochi e determinanti: attorno ci sono soltanto le paludi e una discarica che incombe con i suoi miasmi. Margot lavora in un ospedale per reduci, Pearl va a scuola e inganna il tempo vagando nel parcheggio delle roulotte, che è un po’ un capolinea di esistenze disastrate. Il principale (e unico) momento collettivo sono le funzioni del pastore Rex. Il massimo divertimento è sparare agli alligatori, non un granché. Una condizione esistenziale e sociale che Joe Bageant in La Bibbia e il fucile ha descritto così: “Come per tantissimi americani, il loro concetto di libertà personale è ridotto ormai a un pallido simulacro, al simbolismo insito nel fatto di possedere un’arma o alla libertà di esprimere la propria individualità comprando e accumulando altra immondizia insensata”. Il riscontro, secondo il punto di vista di Pearl, è immediato: “Nel campo roulotte tutti vendevano qualcosa, promettevano qualcosa o sognavano qualcosa. Nessuno credeva in niente. Non ci voleva molto a capirlo”. Lo equilibrio di Margot e Pearl, che pensano di vivere e di potersi nutrire di canzoni, convinte che “l’unica cosa di cui tutti in realtà abbiamo bisogno è ascoltare una canzone e lasciarci trasportare”, meglio ancora se è un blues di Louisiana Red o Albert King, è spezzato dall’arrivo di Eli Redmond, un enigmatico outsider di cui Margot si innamora immediatamente, e irrimediabilmente. Il colpo di fulmine è suggellato da un dono speciale: neanche a dirlo, Eli le offre una pistola con la certezza che “se un uomo regala un’arma alla sua donna è perché si fida davvero di lei”. Il gesto è ambiguo, la motivazione sibillina e foriera di ulteriori sventure, che non mancheranno perché “quando ci sono di mezzo le armi si finisce sempre con il trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Di armi in quell’angolo dimenticato della Florida ne girano un bel po’: le hanno tutti, dai veterani al pastore Rex che le ricompra per toglierle dalle strade fino a Ray e Corazón che le nascondono in una roulotte abbandonata che Pearl comincia a usare quanto Eli e Margot la sloggiano dalla vecchia Mercury per ovvie ragioni. È facile intuire che, con tutte quelle pistole e fucili in circolazione, una o più vittime sono da mettere in conto, più prima che poi. L’evento produce una spaccatura netta in Gun Love: Jennifer Clement sa che “ci sono parole così affilate che ti ci puoi tagliare” e lascia scorrere Gun Love in due parti esatte e speculari, come i lati di un vinile, e nella seconda il parcheggio delle roulotte viene lasciato al suo amaro destino e la trama si annoda a un pellegrinaggio verso Corpus Christi, sulla tomba della cantante tex-mex Selena Quintanilla-Pérez uccisa da un colpo di pistola il 31 marzo 1995, a soli ventitré anni. Un’ultima istantanea che Jennifer Clement infila nelle pieghe di Gun Love con la stessa discrezione che distingue la sua voce: un tono distaccato eppure partecipe, come se stesse raccontando la storia sul campo, come se fosse cosciente che “le armi da fuoco possono avere un posto nell’animo di un uomo”. Lo scriveva ancora Joe Bageant, che infine è stato capace di trovare la saldatura tra la Bibbia e i fucili che scorre nelle vene dell’America ed è alla fonte di Gun Love. Solo che Jennifer Clement va oltre e nel svolgere tutta l’amarezza che circonda e imprigiona Pearl ci ricorda, con estrema chiarezza, che le armi non sono fatte per difendere, sono fatte per uccidere.