Bartleby è
una figura scomoda ed enigmatica, ma non così distante. La sua
collocazione rispetto alla “condizione assoluta delle cose
presenti”, e per estensione al ritmo convulso e perfido di Wall
Street, non ha soltanto un valore simbolico. La presenza, perché
“una sua qualità primaria consisteva in questo: ch’egli era
sempre là, primo al mattino, costantemente
durante il giorno, ed ultimo alla sera”, lo rivela un corpo
estraneo e insieme un segnale d’allarme vivente. La connotazione
del suo rifiuto a collaborare (reiterato, cortese, fermo) è stata
indagata e messa in discussione persino dallo stesso Melville, che
ricordava come Bartlebly sia “una creatura di preferenze, non di
assunti”. La precisazione sgombra il tavolo dello scrivano di molte
supposizioni perché è l’idea stessa di “preferenza” che è al
centro del racconto di Melville. Forse non sono le motivazioni, ma
l’opposizione in sé da considerare, visto che Bartleby rimane
abbarbicato alla sua decisione fino alle estreme conseguenze.
L’abilità di Melville è proprio quella individuata da Gianni
Celati che spiegava come “il gioco narrativo consiste anche nel far
cadere nel vuoto le nostre interpretazioni”. La forma della sua
disobbedienza che disorienta l’avvocato, e narratore, che l’ha
assunto nel ruolo di scrivano, è ancora di più un modello di
coerenza, che lo trasforma in un personaggio unico. Il contorno dei
personaggi secondari, Turkey, Nippers, Ginger Nut non fa altro che
risaltare “quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella
sua rispettabilità, incurabilmente perduta!”, sentenza che,
secondo Melville, segna il destino di Bartleby. E’ proprio così,
anche nella lettura di Gianni Celati: “Stando al racconto, Bartleby
ha piuttosto l’aria di qualcuno che non abbia niente da dire, a
parte quella frase meccanica in cui concentra la sua maniera
d’essere. Oppure si può pensare a una creatura della
rassegnazione, che ha eliminato ogni comportamento superfluo, ed è
tutta in quello che fa, non in quello che pensa”. L’idea di un
rifiuto senza offesa, non una presa di posizione, quasi una forma
passiva di autodifesa, eleva Bartleby in un dissidente totale,
pacifico e silenzioso. Un personaggio destinato a sollevare le
ipotesi più elaborate. George Perec chiamava “pazienza” la sua
resistenza, mentre Gilles Deleuze sosteneva che Bartleby è più il
frutto di “un divenire umano” piuttosto che letterario, il figlio
di una “vocazione schizofrenica: anche catatonico e anoressico
Bartleby non è il malato bensì il medico di un’America malata, il
medicine man”.
D’altra parte Lewis Mumford identificava in Bartleby lo stesso
Melville, ma alla fine a tutti gli effetti resta la trasposizione
letteraria, quella che Gianni Celati enunciava mirabilmente così:
“La potenza della scrittura non sta in questa o quella cosa da
dire, bensì nel poco o niente da dire, in una condizione in cui si
annulla il dovere di scrivere. Ogni dover scrivere e voler scrivere è
la patetica vittima delle proprie aspettative. La potenza della
scrittura sta nell’essere senza aspettative, nell’essere
rassegnazione e rinuncia al dover scrivere, possibilità di rimanere
sospesa soltanto come preferenza”.
Racconto perfetto, finale intaccabile, Bartleby
è un classico che ha ancora molto da dire, anche con una frase di
tre parole ripetuta allo sfinimento.
venerdì 28 luglio 2017
lunedì 24 luglio 2017
Harold Bloom
La definizione di un
canone presuppone un vincolo e per Harold Bloom coincide con quella
che chiama la “differenza americana”. Comincia quindi con
l’identificazione di limiti e confini indefinibili perché “gli
Stati Uniti, considerati come un esito finale della cultura
occidentale, non sono mai stati un vuoto da riempire”. Le urgenze
dichiarate partono dal “bisogno di guarire dalla violenza, a
prescindere che venga dall’esterno o dall’interno” all’essenza
di una libertà sfuggente perché “non ci sono fondamenta da dover
accrescere”, necessità che si riversano nella “quadruplice
metafora americana della notte, della morte, della madre e del mare,
che per noi è diventata imperitura”. I contrasti non finiscono
qui. Nella suddivisione dei suoi prescelti, Walt Whitman, Herman
Melville, Ralph Waldo Emerson, Emily Dickinson, Nathaniel Hawthorne e
Henry James, Mark Twain e Robert Frost, Wallace Stevens e T. S.
Eliot, William Faulkner e Hart Crane, l’istinto critico di Harold
Bloom è impegnato nella contrapposizione, piuttosto che nella
ricerca di similitudini, scrutando persino nelle vite private, in
cerca di qualcosa in più dell’eccellenza estetica e formale, a
caccia del “demone” e soprattutto di quella “sensazione di
qualcosa di pervasivo che trasfigura un momento, un paesaggio,
un’azione o un’espressione naturale”. E’ chiaro che in questo
senso Il canone americano tende a rispondere a requisiti
universali, che Harold Bloom precisa così: “Un’individualità
che aspira senza fine alla libertà dal passato è destinata a
resistere alle effettive sovradeterminazioni che ci legano tutti nel
tempo. Finalmente veniamo affidati a una riva terrestre e cerchiamo
iscrizioni commemorative, frammenti ammucchiati contro le nostre
rovine: un intervallo e poi scompariamo. La letteratura alta si
sforza di allungare questo periodo: intorno a questi dodici autori
ruota, secondo me, la proliferazione della coscienza grazie alla
quale continuiamo a vivere e a scoprire il senso dell’essere”.
Sui dodici preferiti che istituiscono Il canone americano
aleggia costante lo spirito di Shakespeare, insieme disseminando a
tanti piccoli risvolti autobiografici, in gran parte riferiti alla
vitale esperienza dell’insegnamento, che Harold Bloom dissemina
nelle pagine, mentre alterna analisi lineari e trasparenti a
riflessioni più criptiche, che sconfinano nella filosofia, anche se
nel complesso Il canone americano offre un saggio rapporto tra
ricchezza e accessibilità, sempre nell’idea che “dovremmo
condividere una visione in cui la letteratura più alta diventa uno
stile di vita”. E’ un richiamo, esplicito, alla “finzione
suprema” di Wallace Stevens e Il canone americano diventa
allora un modo più ampio per sostenere che “poesie, romanzi,
racconti e drammi contano soltanto se contiamo noi. Ci offrono il
dono di una vita che prosegue, a prescindere dal fatto che inaugurino
oppure no un tempo senza fine”. Nella cernita, Il canone
americano si estende ai miti e ai classici consolidati, ma anche
in questo caso, avverte Harold Bloom, “tuttavia, scegliamo che cosa
citare e come riformularlo. Omero e Platone, Dante e Chaucer,
Shakespeare e Cervantes sono creatori primari. Odisseo e Socrate,
Dante il Pellegrino e Chaucer il Pellegrino, Amleto e Don Chisciotte
danno origine ai significati. Il loro lavoro ispira gli interpreti
primari: Montaigne, Emerson, Nietzsche, Kierkegaard, che definiscono
i limiti e le possibilità per trasmettere i significati e poi
trasmetterli in forma di saggezza. Dove si può trovare la saggezza?
I poeti, nei quali si annida l’imprudenza, confortano e consolano
anche quando non illuminano”. Fedele alla sua natura, Il canone
americano si estende nei richiami all’amicizia con Robert Penn
Warren, ai confronti con Frank Kermode, William James e Walter Pater
a cui è riservato un posto d’onore, in conclusione: “Disponiamo
d’un intervallo, e poi il luogo che è stato nostro non ci conosce
più. Taluni spendono quest’intervallo nel languore, taluni in
ardenti passioni, i più saggi almeno tra i figli di questo mondo,
nell’arte e nel canto. Ché l’unica nostra opportunità sta
nell’ampliare quell’intervallo, nel far entrare il maggior numero
di pulsazioni possibile nel dato tempo. Grandi passioni posso darci
questo accelerato senso della vita, dell’estasi e l’affanno
dell’amore, le varie forme dell’attività entusiastica,
disinteressata o meno, che prendono naturalmente molti di noi.
Assicuratevi solo che si tratta di passione, che effettivamente vi dà
questo frutto d’una coscienza accelerata, moltiplicata. Di tale
saggezza, la passione poetica, il desiderio della bellezza, l’amore
per l’arte, ha il massimo. Poiché l’arte viene a voi
proponendovi francamente di non dare altro che la qualità più
eletta ai vostri momenti mentre passano, e non avendo di mira che
quei momenti”. Una lezione che non finisce mai.
venerdì 21 luglio 2017
Paul Bowles
Quando Paul
Bowles parte per la prima volta verso il Marocco ipotizza giusto una
breve vacanza: “Sarebbe stato un periodo di riposo, un
divertimento, una pausa per quella sola estate. L’idea esaudiva il
mio massimo desiderio, quello di fuggire il più lontano possibile da
New York. Essendo del tutto ignaro di ciò che avrei trovato laggiù,
non mi facevo nessun problema. Mi avevano detto che avrei trovato una
casa da qualche parte, un piano in un modo o nell’altro, e il sole
tutti i giorni. Mi sembrava potesse bastare”. Ci trascorrerà gran
parte della sua vita e nella sua autobiografia, Senza mai
fermarsi, ammette di essere ossessionato “dal ricordo dell’aria
e della luce del Nord Africa”. Attraverso brevi storie, frammenti,
aneddoti, canzoni che Paul Bowles estrapola dalla cultura orale e
dalla letteratura locale (e non), Punti nel tempo sigla alcuni
passaggi (geografici, politici, religiosi, storici) del flusso
cosmopolita che permea il Marocco. Lima le frasi una alla volta, con
cura, parola per parola, confrontandosi con più lingue e attento a
volgere i vocaboli assicurandosi di avvicinarsi il più possibile al
senso, e ancora di più, all’atmosfera, di tutti i Punti nel
tempo. Un gran lavoro di lettura, prima, e di (ri)scrittura,
poi, tale da convincerlo che “la solitudine e gli studi possono
rendere un uomo tollerante”. E’ con quell’attenzione che
racconta il sacrificio di frate Andrea da Spoleto o la tragedia di
Sol e quella di El Aroussi, condannati entrambi dalla propria
bellezza. Tra crudeltà e mistero, tutte le storie collezionate in
Punti nel tempo, riportano all’essenza del Marocco, un
crocevia di culture che evidenzia i paradossi dei commerci e del
colonialismo e il ruolo enigmatico delle religioni, nell’esecuzione
brutale di una giustizia secondo basi divine e un sentore diffuso
dell’ingiustizia umana. Gli aspetti esoterici e fiabeschi, gli
enigmi e i silenzi, i pirati e i briganti, o l’episodio di Hattash,
furfante e imbroglione che fa della sua destrezza un’arte, sono
riflessi di poteri invisibili, capaci di atrocità e meraviglie, che
sembrano appartenere più alla terra che allo spirito del Marocco.
L’asprezza e l’unicità della conformazione naturale, dal mare al
deserto e viceversa, hanno un ruolo determinante, e non soltanto nel
fornire l’abbagliante fondale ai Punti nel tempo, ma anche
come fonte d’ispirazione per lo stesso Paul Bowles: “Mi bastava
essere immerso nel paesaggio, avvertire nelle narici l’odore delle
piante di fico, di cedro e di menta e udire il mormorio delle rapide
per sentirmi più che appagato”. L’ultimo frammento è proprio un
tributo ai panorami del Marocco: “Il fiume scorre rapido alla foce
dove la riva è fatta di cielo, e le piccole onde s’arricciano
all’indentro come un ventaglio spinto dal mare. Non ci sono
cartelli a mettere in guardia il nuotatore dagli squali che entrano
nel canale e lo pattugliano. A volte, prima del tramonto, arrivano
gli uccelli che camminano o zampettano sulla secca, ma prima che
faccia buio se ne vanno”. Scrupoloso e raffinato, Punti nel
tempo è un piccolo gioiello da riscoprire.
domenica 16 luglio 2017
Tom Wolfe
Va
cercata nella frase coniata nel 1961 da Shirley Polykoff, copywriter
dell’agenzia pubblicitaria Foote, Cone & Belding che si
occupava della tintura per capelli Clairol, “Se ho una sola vita,
lasciatemela vivere da bionda!”, la scintilla per tutti quei
“malinconici esseri convenzionali” refrattari a qualsiasi
progetto di ingegneria sociale. Era giunta l’ora di un po’ di
colore: la “gente comune” fuggiva da istituzioni e modelli
consolidati e si affrancava “dalla famiglia, dal vicinato e dalla
comunità, e creava mondi a se stanti. Questo fenomeno non aveva
alcun parallelo nella storia, specie considerandone l’ampiezza”.
A inneggiare una versione adulterata del Canto
di me stesso di Walt Whitman non
erano soltanto gli hippie, nonostante fossero la parte più
appariscente di quel decennio. Quello “spazio vuoto” venne
scoperto e occupato, in modi diversi, da anziani e coppie che
cominciavano a giocare un ruolo inedito nel tempo libero, con
sensibili variazioni nell’approccio quotidiano, dalla religione ai
costumi sessuali. Il lavoro da cronista, interpretato da Tom Wolfe
con tutto il suo stile, le sue divagazioni e la sua eccentricità è
però puntuale: non racconta come dovrebbe essere ma come è stata la
scoperta dell’io visto che “l’antico sogno alchemico era di
tramutare i metalli vivi in oro. Il nuovo sogno alchemico è mutare
la propria personalità: rifare, rimodellare elevare raffinare il
proprio io”. Su quell’onda tellurica si sono mosse, oltre alle
ineffabili leve della pubblicità, pronta a cogliere e a solleticare
i nuovi consumi, molte altre macchine più lente e goffe nel cercare
di catalogare il frutto di quello strambo flusso di coscienza
generale: “Il
quadro è sempre quello di una creatura sradicata
dall’industrialismo, compressa in metropoli assieme a gente che non
conosce, impotente contro i massicci mutamenti economici e politici:
in breve, una creatura come Charlie Chaplin in Tempi
moderni,
schiava e abbrutita, frastornata e sconfitta dalla macchina. Questa
vittima dei tempi moderni è sempre stata per gli intellettuali, gli
artisti e gli architetti una figura estremamente patetica”. Tom
Wolfe non fa sconti neanche allo stesso Le Corbusier: i
luoghi comuni sono messi alla berlina senza esitazioni, gli
stereotipi spogliati fino a svelarli per quello che sono, i modelli
precostituiti vengono scansati. La prospettiva di Tom Wolfe, che
tiene a distanza di sicurezza le opinioni, riesce a coinvolgere con
uno stile che è ipnotico e caustico. Il tono è sempre sarcastico,
irriverente, pungente. Mette in ridicolo le statistiche, le tesi e
l’invariabile
fallibilità delle teorie sociologiche perché è evidente che gli
esseri umani americani (e non solo) tendono a prendere traiettorie
bizzarre: “Per cominciare,
l’homo novus,
l’uomo nuovo, l’uomo liberato, il primo uomo comune della storia
del mondo con la tanto vagheggiata combinazione di denaro, libertà e
tempo libero, questo lavoratore americano, non si presentava nel
modo giusto”. I
presupposti non vengono mai rispettati, persino nell’ambito della
fede perché come ha notato altrimenti Harold Bloom “ridurre il
loro approccio a dinamiche socioeconomiche è utile solo fino a un
certo punto. Karl Marx è irrilevante per milioni di loro perché, in
America, la religione è la poesia dei popoli, e non il loro oppio”.
La definizione riduce e concentra con precisione accademica l’ottica
di Tom Wolfe: quella dell’io è una scoperta che smentisce tutte le
ideologie di massa e trasforma ogni singola esistenza in “un
dramma di significato universale” finché ognuno non diventa lo
Shakespeare di se stesso, salvo Tom Wolfe, che nei dubbi amletici ci
sguazza sornione da una vita.
mercoledì 12 luglio 2017
J. D. Vance
How
Can a Poor Man Stand Such Times and Live? chiede Blind Alfred
Reed, tra i songwriter capostipiti della cultura hillbilly. La
domanda nel titolo della sua canzone più famosa non è per niente
retorica. I limiti geografici, la campagna, le montagne, la natura
stessa degli Appalachi, sono solo la cornice di quel “mondo
interrotto”, come lo definisce J. D. Vance, la cui stessa esistenza
è da una parte uno schiaffo all’autorità, e dall'altra una
miscela esplosiva di analfabetismo, alcol, droga, violenza domestica
(e non) e miserie assortite. J. D. Vance nasce e appartiene a “una
banda sgangherata di hillbilly che cercavano la propria strada” e
la sua Elegia americana è un tentativo di tenere a bada “i
mostri” in una forma strana, un ibrido tra saggio e autobiografia.
Non una testimonianza facile, segnata dalle brucianti e ricorrenti
ferite psicologiche: cresciuto dai nonni, J. D. Vance viene da una
famiglia a “porte girevoli” sul lato paterno, con una madre
tossicodipendente e, più di tutto, in un contesto generale dove “il
degrado può anche sfuggire ai residenti perché è un processo
graduale: assomiglia più a un’erosione che a uno smottamento”.
La condizione rurale, già aspra, è attraversata dal processo
storico di deindustrializzazione e delle conseguente migrazioni che
rivelano come l’etica del “duro lavoro” non sia più
sufficiente (se mai lo è stata) a inseguire un’idea di successo e
di felicità. La povertà di un’America sconosciuta e nascosta
diventa via via più imbarazzante perché come scrive J. D. Vance
“non c’era nulla che facesse da collante tra noi e il tessuto
sociale americano. Ci sentivamo intrappolati in due guerre
apparentemente senza speranza, in cui una quota esagerata di
combattenti veniva da nostro quartiere, e in una economia che non era
in grado di mantenere la promessa più elementare del sogno
americano: uno stipendio sicuro”. Le vicende personali di padri e
madri confusi (se non pericolosi) e in genere “sopravvissuti”
intersecano la ricostruzione degli aspetti sociali ed economici che
distanziano la realtà hillbilly dal mito e dalle mistificazioni del
cosiddetto sogno americano perché “le famiglie della classe
operaia americana vivono un livello di instabilità che non ha uguali
al mondo”. Le forme di comunicazione claudicanti, nel migliore dei
casi, spesso grette, ruvide, con un vocabolario ridotto e riferimenti
culturali legati solo alle canzoni (Hank Williams, Johnny Cash,
Dwight Yoakam, Lynyrd Skynyrd), l’uso persistente della violenza,
verbale e non, ricorda a J. D. Vance che “a volte essere un
hillbilly voleva dire non capire la differenza tra amore e guerra”.
Lo scontro con l’idea dell’appartenenza a una comunità, figlia
di “una cultura che promuove sempre più il decadimento sociale
anziché contrastarlo”, i fantasmi dell’infanzia che ritornano,
hanno portato J. D. Vance a sforzarsi per trovare un’educazione
migliore, fino a laurearsi a Yale e a diventare avvocato. Certo che
se un hillbilly per trovare un po’ di ordine deve sperare (e
arruolarsi, come ha fatto J. D. Vance) nei marines, c’è una bella
fetta della torta americana che non è poi così invitante. L’idea
del fallimento serpeggia per tutta l’Elegia americana, che
in realtà è un tentativo di rammendare un’apologia hillbilly, a
proprio uso e consumo, dato che “la realtà si può tenere a bada
sono fino a un certo punto”. Si capisce, come dice J. D. Vance, che
“è la tregua che ho firmato con me stesso, e per ora funziona”,
anche se i limiti rimangono in evidenza. Il tono delle parti
confessionali e introspettive cozza con le analisi sociologiche ed
economiche. Le forme non si amalgamano, la storia resta al bivio,
anche se alcuni aspetti dell’Elegia americana hanno senza
dubbio il merito di guardare dentro un’America debole, prostrata,
diffidente e (persino) pericolosa per i suoi figli.
venerdì 7 luglio 2017
Philip Dick
Più
che cercare di immaginare le qualità oniriche degli androidi o le
intenzioni dei loro cacciatori, sarebbe utile un’ulteriore
riflessione sugli scenari creati e, in gran parte, anticipati da
Philip Dick. Dal deserto alla spazzatura e alle rovine metropolitane,
si tratta di un paesaggio stratificato ed estremo, popolato da una
varietà di esseri, da quelli senzienti e raziocinanti a quelli
limitati o “speciali”, dalle imitazioni meccaniche degli animali
domestici agli androidi in viaggio da e per il pianeta. Dentro questa
cornice, il denso tessuto della scrittura di Philip Dick è un’acuta
descrizione di una società crollata su se stessa, dove l’incognita
dell’organizzazione degli spazi urbani coincide con un contesto
autoritario e ossessivo. Non siamo molto lontani. Le leggi che
compongono il complicato ordine di San Francisco, un’architettura
frastagliata immersa nella “polvere radioattiva”, devono
controllare diversi livelli di coscienza, senza che i “modulatori
d’umore”, strumenti in grado di regolare la declinazione delle
emozioni, possano essere un granché d’aiuto. Gli androidi sono la
variabile imprevista che mette in risalto una condizione opprimente.
L’origine va cercata melle Predizioni
di Philip Dick, dove immaginava che alla fine del ventesimo secolo
“le prime colonie-bunker si insedieranno con successo sulla
Luna e su Marte. Con la manipolazione genetica verranno creati umani
paramutanti in grado di sopravvivere lontano dalla Terra o in
ambienti alieni”. Queste creature hanno la particolarità di
apparire come gli esseri umani ma “come ogni altra macchina, deve
funzionare al momento giusto”. Nella definizione di Philip Dick,
così come nella domanda contenuta dal titolo del romanzo si
moltiplicano i quesiti: gli androidi hanno un’anima? Cosa sognano?
E cosa sognano gli uomini e le donne? E i cacciatori di taglie? Rick
Deckard deve “ritirare” alcuni replicanti, ma, al di là dei suoi
scopi, perché? Quali allarmi stanno esprimendo? Gli embrioni delle
possibili risposte vanno cercate in Mutazioni
dove Philip Dick scriveva: “In alcuni dei miei racconti e romanzi,
ho parlato di androidi, robot o simulacri; il nome non ha importanza:
ciò a cui mi riferisco sono le costruzioni artificiali dall’aspetto
umano e, di solito, animate da qualche sinistro proposito.
Probabilmente, per me era scontato che se una di queste costruzioni,
un robot, per esempio, avesse avuto un scopo positivo, o quantomeno
decente, non avrebbe avuto bisogno di camuffarsi. Ormai, però,
quest’idea mi pare superata. Queste costruzioni non imitano gli
umani: per molti aspetti fondamentali, esse in realtà sono già
umane. Non stanno cercando di fregarci, per qualche scopo a noi
ignoto: seguono semplicemente i nostri stessi percorsi al fine di
superare problemi comuni”. Le condizioni sono mutate per tutti,
esseri umani, animali, replicanti, e nella visione di Philip Dick il
punto non è soltanto “l’androide organico” e la sua
collocazione, è l’insieme di tutte le forme di vita perché
“forse, in realtà, stiamo assistendo a una graduale fusione della
natura generale delle attività umane con le attività che noi umani
abbiamo costruito e di cui ci siamo circondati”. La caccia agli
androidi è la persecuzione dei ribelli, attingendo al fattore
dell’esperienza, s’inoltrano in una twilight zone dove
l’evoluzione della specie non è prevista. Quando gli androidi
aprono la porta a Rick Deckard, in una scena che è insieme simbolo e
svolta del romanzo, non è per ingenuità, ma perché
“l’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto,
prevedibilità”.
Su quella soglia, che delimita una sconfitta, s’incontrano
nell’espressione di “una qualità meccanica, riflessa”, che è
biunivoca. Nel mondo ipotizzato da Philip Dick, e in quello specifico
momento, il dilemma degli androidi fragili e titubanti, con il
cacciatore di taglie che li insegue cercando di rimuovere ogni
emozione per compiere una missione dalle motivazioni risibili, rivela
in fondo un dramma filosofico, che riguarda il senso stesso
dell’umanità, o di quello che ne resta.
lunedì 3 luglio 2017
Don Winslow
Dennis
Malone ha dettato legge nelle strade di New York con la Manhattan
North Special Force, un team della polizia chiamato, nel gergo di
Harlem, Da Force.
Per vent’anni “la sua città, la sua zolla, il suo cuore” hanno
combaciato, poi qualcosa si è rotto, e si è ritrovato a guidare una
folla di fantasmi verso un destino segnato. Don Winslow sa di mettere
mano a una materia instabile e scivolosa e non concede distrazioni.
Il ritmo tambureggiante, noncurante di qualche screpolatura, è un
tuffo senza rete. Seguire il sergente Malone negli androni e nelle
“verticali” di Harlem non prevede biglietto di ritorno. Non c’è
alcun elemento posticcio, suspense o colpo di scena. E’ un
naufragio metropolitano, ogni capitolo sempre più a fondo. Nella
costituzione stessa di Da Force,
che deve occuparsi dell’intersezione tra spaccio e violenza, c’è
il peccato originale che vede in Denny Malone, il protagonista
indiscusso: la sua squadra rispecchia la composizione cosmopolita
della città con gli elementi etnici originari (irlandesi, ebrei,
italiani e afroamericani), mentre quella di Rafael Torres è
costituita da latinoamericani. Anche se, come dice uno dei “fratelli”
di Malone, Monty Montague, “la
maggior parte dei poliziotti non distinguono tanto tra bianchi e
neri, ma tra poliziotti e tutti gli altri”, il confronto, e poi
scontro, tutto intestino all’unità di polizia, è il primo sintomo
dell’ambivalenza che regna sovrana nel romanzo.
Come è nella natura stessa della Corruzione,
dove vittima e colpevole sono intercambiabili, tutto è doppio, e non
solo sulla scena del crimine. Denny Malone e la sua squadra hanno
famiglie e figli, ma anche una vita notturna assai movimentata, con
vizi e lussi, amanti, fidanzate e puttane, alcol (un fiume) e droghe,
rituali e segreti. Da qualche parte, dovranno pure attingere. Per
dirla con le loro stesse parole, “ballano
nella giungla con tutti gli altri animali. O con gli angeli. Chi
cazzo può capire la differenza”. Come si può intuire dal titolo,
Da Force
si concede molto (molto) di più, le leggi sono sigle che viaggiano
insignificanti nell’etere, la dichiarazione dell’obiettivo minimo
e indispensabile è fin troppo esplicita nella sua ambiguità:
“Abbiamo un solo compito: tenere la posizione. Il resto sono
dettagli”. La trincea è Harlem: nonostante i recenti
aggiornamenti, l’architettura
cresciuta in modo disordinato, gli
isolati “fatti di ricordi”, le speculazioni edilizie e le
tensioni razziali sono rimasti elementi esplosivi insieme con “gli
ingredienti di sempre: povertà, disoccupazione, spaccio e gang”. A
maggior ragione, per Da Force,
“non importa quello che fai
o come lo fai (finché non finisce sui giornali), basta che tieni gli
animali dentro le gabbie”. Finché un procuratore con una carriera
spianata davanti non incastra Malone, scoperchiando un vaso di
Pandora dagli esiti imprevedibili. La
struttura, la geografia di Harlem, la natura stessa della storia
fanno di Corruzione
il nuovo capitolo della tragedia urbana americana dopo i romanzi di
Richard Price (a cui Don Winslow deve parecchio) e American
Gangster di Ridley Scott (da cui
filtra qualche riferimento visivo) insieme ai precedenti casi di
“infami” reali ovvero Serpico e Michael Dowd, emblematici non
tanto nello svelare il sistema, quanto nell’incrinare la certezza
che quel sistema sia ovvio e inamovibile visto che, come ammettono
gli stessi protagonisti, “siamo
tutti corrotti. Ma ciascuno a modo suo”.
Un concetto ribadito spesso, per far capire il meccanismo e le regole
della Corruzione,
è questo: “Come fai a superare il limite? Un passo alla volta”.
La corruzione è endemica e mutevole: assume forme diverse più si
risale la scala gerarchica, dal capo della polizia al sindaco fino a
Washington, dato che “il
sistema americano prevede che verità e giustizia si salutino se si
incrociano in corridoio, magari si scambino gli auguri di Natale, ma
il loro rapporto finisce lì”. La metafora è calzante,
la Corruzione
si regge sulla condivisione, sull’indifferenza, sull’omissione e
sul codice del silenzio. C’è quasi un altro romanzo implicito
nelle opinioni inespresse di Malone che, in uno dei momenti momenti
più drammatici, quando deve fare un discorso a tutta Da
Force, consiglia ai suoi uomini:
“Dite loro la verità: che non sapete nulla. Pensare di sapere
qualcosa e saperla davvero sono due cose diverse. Se date del
formaggio ai topi, loro continuano a tornare. Se teniamo pulita la
casa, i topi se ne vanno”. Le distorsioni sono molto più complesse
e senza accorgercene ci ritroviamo a chiederci i motivi dell’empatia
con Denny Malone che è corrotto fino al midollo e “infame”.
Forse perché, anche se si crede il re, lui e la sua squadra sono
soltanto le pedine sacrificabili di una partita più grande. Forse
perché “i poliziotti vedono
prima
le vittime e poi
i colpevoli”, e almeno questo gli va riconosciuto, ma
in fondo è soprattutto perché è soltanto l’ultima preda di una
feroce catena alimentare, e all’alba di ogni giorno è costretto a
dirsi che “a ogni modo, racconti a te stesso quello che serve per
fare ciò che devi fare. E qualche volta persino ci credi”.
Trascinante.
sabato 1 luglio 2017
Jack Kerouac
In una
missiva a John Clellon Holmes del 1952, Kerouac scriveva che “se
tutte le parole umane potessero essere scritte su quest’unica
pagina, le scriverei”. Le sue lettere, raccolte da Ann Charters (in
due volumi), sono la testimonianza dei ripetuti tentativi di giungere
a quell’ambiziosa meta. Kerouac è candido e si mostra in tutte le
ambizioni (“Ho cominciato a lavorare al grande romanzo la mia
ultima chance”) e le debolezze, senza nascondersi. Contraddittorio,
stralunato (“Ho tante cose da dire che mi confondo” scrive nel
1941 alla sorella), è sempre “nel bel mezzo di folli straordinari
eventi”, spesso sottolineati dagli sbalzi di umore. Nell’agosto
del 1955, dal Messico, confessa ad Allen Ginsberg: “Mi sento allo
sbando, effimero, inconcepibilmente triste, non so dove vado, né
perché”. Sei mesi dopo annuncia a Gary Snyder, da qualche parte in
America: “Poi ci toglieremo il cappotto e distruggeremo di nuovo il
senno, e andremo al diavolo con tutto il resto, fuori dai piedi
accidenti, mangeremo e ci sarà molto di più là da dove arrivò
anche se siamo dei veri e propri poveri sciocchi immacolati”. La
logica della prima persona plurale ricorre con una certa frequenza.
In una delle prime lettere, nel 1941, scrive a proposito di un gruppo
di amici di Boston: “Siamo sconosciuti, e probabilmente non
sfonderemo mai, ma le nostre discussioni sono molto accese e siamo
pieni di stimoli intellettuali”. La definizione si presta anche per
tutti gli epigoni della Beat Generation evocati lettera dopo lettera:
per quanto parziale sia la ricostruzione della corrispondenza di Jack
Kerouac rende già l’idea della fitta rete di amicizie, di
connessioni, incroci. L’inventario comprende un ritratto di Neal
Cassady tra parentesi, “(Come al solito Neal non ha fatto niente,
proprio come nel mio sogno, è arrivato come un fulmine a Città del
Messico e come un fulmine se n’è andato con la sua erba”), uno
esplicito di William Burroughs (“Un folle genio”), l’idea di
usare Un romanzo moderno
come sottotitolo di Sulla strada,
in omaggio al “modern jazz”, Miles Davis e Billie Holiday, i
dettagli delle tappe di un vagabondo irrequieto ed entusiasta,
annoiato e innamorato, un hobo che dice di aver “chiuso” con
l’America mentre non smette nemmeno per un istante di cantarla. Se
le lettere sono messaggi, segnali di fumo, avvisi di arrivi e di
partenza, strumenti utili per continuare il viaggio (come chiedere i
soldi alla mamma), per mantenere i contatti con gli amici, e per i
resoconti degli incontri e delle avventure, nell’insieme
l’epistolario è molto più complesso di quanto appare a prima
vista perché “ci sono stati meravigliosi sviluppi ingiustificati”,
a partire dalla spontanea osmosi con i romanzi. La voce è
inconfondibile, soprattutto quando Kerouac, imbattibile negli slanci
più euforici, detta la linea senza un dubbio al mondo che sia uno:
“Impara a battere mille parole al minuto, compra due registratori,
sconvolgi le stupide leggi, frega i giudici, fomenta le rivoluzioni
dalla tua soffitta, tira fuori tutto, porta tutto avanti, in alto,
vinci, stelle. Ah, rivolgimenti, appendici, galassie, tempo,
etichette, scatenato. Sì, adesso nei prossimi settanta milioni di
anni scambiamoci di tanto in tanto lunghe folli lettere e raccontiamo
tutto quanto (come dici) e questo non porterà niente di male
accidenti”. Era il 12 ottobre 1955, da Berkeley, California, e lo
scriveva ancora a John Clellon Holmes, anche se non è difficile
immaginare che il vero destinatario fosse se stesso.