Per
una volta lontano dalla serie dedicata al suo personaggio preferito,
Hoke Moseley, con La
macchina in Corsia Undici,
Charles Willeford sembra conoscere, e in parte condividere, le
riflessioni di Schopenauer sulla follia e sulla memoria, ovvero
l’idea che la prima si manifesti come nemesi della seconda. Il
protagonista di questo breve racconto, apparso per la prima volta su
Playboy nel 1961, è il primo a comprenderlo quando dice: “La
questione non è il dolore, è che non voglio perdere la memoria. I
miei ricordi non saranno un granché, ma non mi rimane altro, e li
voglio, li voglio tutti”. E’ quello che rimane a Jake Blake, nome
fin troppo evocativo per un regista con qualche problema di attinenza
alla realtà. Ha nutrito e coccolato la depressione e una pietra dopo
l’altra si è circondato di un muro impenetrabile. Coadiuvato
dall’alcol, ormai bollito in modo irreversibile, Jake Blake tenta
il suicidio con un rasoio malandato, ulteriore segno della sua
sgangherata corsa verso nel vuoto. Quando si ritrova immerso nel
candore di una clinica può soltanto credere che sia la sua salvezza,
quando è la plastica dimostrazione che non c’è limite al peggio.
Abituato a dirigere e a trastullarsi con le proprie titubanze
nell’effimera dimensione del cinema e della televisione, Jake Blake
è costretto a confrontarsi, ovvero a subire, una nuova routine fatta
di farmaci, infermieri, corridoi, incubi e dall’alta tensione in
fondo alla Corsia Undici. La violenza nella sua forma più abietta,
quella istituzionalizzata e codificata, è l’anticamera verso La
macchina in Corsia Undici
e, in effetti, Blake si trova in un cul de sac o meglio, per restare
negli ambiti delle patologie psicologiche, nella paradossale
situazione da Comma
22: se non ammette di
essere folle, e quindi di osservare le regole, la disciplina e gli
inviti dell'istituzione (ovvero se non collabora), lo aspetta un
trattamento più duro, ma se si convince e/o convince le istituzioni
della sua follia, ogni cura è possibile, compresa la macchina della
Corsia Undici, cioè l’elettroshock. Il ribaltamento dei ruoli,
imprevisto e repentino, conferma l’identità deviante di Blake e la
follia in sé dell’elettroshock e se un brevissimo racconto, quale
è La macchina in
Corsia Undici, non
consente di trarre considerazioni definitive o soltanto una
valutazione morale (è più folle il folle o il medico che gli
prescrive l'elettroshock?) di sicuro suggerisce in poche dozzine di
pagine un’atmosfera plumbea, l’odore della claustrofobia che si
avvicina, e non poco, alla ricostruzione di Ken Kesey in Qualcuno
volò sul nido del cuculo.
Con un taglio netto, nitido, preciso, essenziale nella forma ed
incisivo nel ritmo, con pochi ed evidenti dettagli che bastano a
creare un mondo credibile (se non proprio realistico), prerogativa,
quest’ultima, di ogni grande scrittore. In aggiunta, nonostante il
ridotto formato in cui è condensata La macchina in Corsia Undici,
non manca la sentenza definitiva di Charles Willeford, peraltro
emblematica: “Quello che ci resta, a fine partita, sono i ricordi,
e la capacità di ridere della nostra follia, o della nostra
stupidità”. Da non perdere.
giovedì 30 giugno 2016
mercoledì 29 giugno 2016
Willa Cather
E’
stata un’idea eccellente quella di assemblare Il caso di Paul
e La scarpetta d’oro perché sono speculari nello spiegare
che “il mondo è piccolo, le persone sono piccole e la vita umana è
piccola. Esiste solo una cosa grande: il desiderio”. Il legame e
insieme il contrasto tra I racconti di Pittsburgh è palese
già in quello che Willa Cather chiama anche Uno studio sul
carattere, che è poi Il caso di Paul. Un adolescente
ribelle e scontroso, che ha un modo tutto suo di reagire e di parlare
(“Non volevo essere gentile o scortese. Credo sia semplicemente un
modo che ho di dire le cose”) e a cui “bastava una scintilla,
l’emozione indescrivibile che faceva sì che la sua immaginazione
s’impadronisse dei suoi sensi, e la sua testa diventava tutto un
fiorire di immagini e storie. Allo stesso modo era vero che non aveva
la passione del teatro, perlomeno non in un modo tradizionale. Non
aveva alcun desiderio di diventare un attore, non più di quanto lo
avesse di diventare un musicista. Non sentiva alcuna necessità di
essere nessuna di queste due cose: quello che voleva vedere, fare
parte di quell’atmosfera, galleggiare su quell’onda ed essere
trasportato via, per miglia e miglia di azzurro, lontano da tutto”.
L’espressione del desiderio è anche la volontà di non restare
imprigionato nella cornice soffocante (anche un po’ bigotta) della
famiglia e di Cornelia Street, dove le vite sono precostituite sui
luoghi comuni, da cui è impossibile fuggire. E’ il leitmotiv della
prima parte del racconto che Willa Cather trasmette con grande
efficacia. La tensione generata dalle emozioni, dalle ambizioni e in
definitiva dalle scelte di Paul, lasciano intuire che si tratti di
qualcosa in più di Uno studio sul carattere e la
partecipazione al dilemma e poi al suo drammatico epilogo è assidua,
intensa e senza filtro. Questo succede perché, come scriveva Eudora
Welty, “quando leggiamo il mondo di Willa Cather lo sentiamo e lo
tocchiamo”. Vale a maggior ragione per La scarpetta d’oro,
dove il confronto tra Marshall McKann e Kitty Ayrshire è alimentato
dall’attrito tra la presunta normalità e una vita di “emozioni
disordinate” e/o un “mondo fatto di svolazzi”. Marshall McKann
è un industriale che, “ostile a mode, entusiasmi, individualismo,
a qualsiasi innovazione che non riguardasse macchine minerarie o
mezzi di trasporto”, è attirato e insieme respinto dal fascino di
Kitty Ayrshire, cantante e rock’n’roll star ante litteram. La
serrata discussione, a bordo di quel treno (molto simbolico) che
appare anche in Il caso di Paul, non è alimentata solo dalla
diversità tra uomo e donna che comunque Willa Cather, attraverso
Kitty Ayrshire, preferisce rimarcare: “Se riuscissi a trovare un
uomo davvero intelligente che fosse in grado di sostenere le proprie
opinioni, sarei disposta a cambiare le mie”. La divisione riguarda
le aspirazioni e i miraggi, la sensibilità e l’ammirazione, in
definitiva quel bisogno di “dissolversi in qualcosa di più
completo e più grande” (come ribadisce Kitty Ayrshire ispirata da
Cos’è l’arte di Lev Tolstoj). Alla fonte, diceva ancora
Eudora Welty, c’è sempre “il desiderio di un singolo cuore, di
una singola anima di rivendicare ciò che gli spetta, di attingere
alla sua quota di grandezza” ed è proprio quella pulsione
primordiale che Willa Cather sa distinguere anche nel tono, ponendo
l’accento sui contorni della tragedia per Il caso di Paul e
su quelli della commedia con La scarpetta d’oro. Due
racconti, un piccolo libro, una grande lezione.
venerdì 24 giugno 2016
Kent Haruf
Il
baricentro della trilogia della pianura si sposta nel secondo capitolo verso i fratelli McPheron, Harold e Raymond. Attorno a loro
due e a Victoria Robideaux e alla figlia Katie si coagulano, secondo
vie casuali e non, le gesta della tristissima famiglia Wallace,
Luther e Betty (i genitori) e Joy Rae e Richie (i figli),
dell’assistente sociale che li segue, Rose Tyler, di DJ Kephart e
del nonno Walter, di Dena ed Emma e della madre (Mary Wells) e volti
già apparsi, come Maggie Jones che, anche davanti a tanto
disordine e a tanta solitudine, non si scompone e dice: “Ho già
visto un sacco di casino in vita mia”. Capita a tutti e per ognuno
è un piccolo tassello, la battuta di un ritmo, e succedono così
tante cose nello “spettacolo della vita” di Holt, dove non
succede niente, ma è tutto importante perché, come dice Raymond
McPheron “ci sono cose che non si superano mai”. La
concatenazione degli eventi è tale che, raccontando anche un singolo
episodio, si rischia di rivelare tutta la trama di Crepuscolo. Merita di essere ricordato almeno il passaggio in cui i piccoli Dena e DJ si ricavano
uno spazio in una baracca costruita e arredata con i resti trovati
per le strade di Holt. E' dentro quelle sgangherate pareti che “per quel breve momento ciò che succedeva nelle case da cui
venivano sembrò avere scarsa importanza”. Quel poco di salvezza è lì e si tratta di una
distanza universale: più che l’America, Holt è la provincia, dove
tutti si conoscono e all’emporio ti chiedono se paghi subito o se
te lo addebitano sul conto della fattoria. In Crepuscolo,
quasi a rimarcare i confini della trilogia, la mappa di Holt e dei
dintorni che si allungano su tutti i quattro punti cardinali (Fort
Collins, Norka, Brush, Phillips, Fort Morgan, Greeley via via fino a Denver che resta molto lontana)
emerge come un bassorilievo. Anche i ritrovi abituali,
persino le strade e le campagne, ricorrono con maggiore frequenza,
come a confermare che “contavano quasi soltanto le consuetudini e i
capricci del momento”. Sono punti di riferimento nello spazio e
così nel tempo, perché come scriveva Simon Shama in Paesaggio e memoria, “il paesaggio, del resto, può essere intenzionalmente
disegnato per esprimere le virtù di una determinata comunità
politica e sociale”. Il genius loci di Crepuscolo e per estensione
di tutta la trilogia della pianura ha il volto di tutti i volti, la
vita di tutte le vite e Kent Haruf è stato straordinario a renderlo
trasparente con una “visibilità” come la intendeva Italo
Calvino che è l’altra faccia, quella in ombra, del suo
raffinatissimo stile. Parafrasando Dante nel corso delle sue Lezioni
americane, Calvino diceva che “la fantasia è un posto dove ci
piove dentro”, e a Holt piove, nevica, tira vento, gli unici
elementi degni di nota sono quelli meteorologici, insieme ai
movimenti del cielo in lontananza, all’orizzonte. D’altra parte
l’economia rurale dipende dalle stagioni e dalle declinazioni
climatiche e carpire le sfumature è l’elemento trainante, in fondo
la cifra stessa dell’abilità principale di Kent Haruf. Ed è leggere nei
paesaggi, nelle luci e poi nei gesti e nei dialoghi che si innestano
l’uno nell’altro, trasformandoli in strati ben accuditi di parole
che formano le storie. L’equilibrio si vede anche nella forma dei
paragrafi, che si modellano con armonia e si incastrano uno
nell’altro, senza soluzione di continuità. Tirando le somme per Crepuscolo e allargando l’ispezione all’intera trilogia
della pianura, il modello di riferimento e l’influenza più
evidente, riconosciuti a sua volta da Kent Haruf, vanno cercati in
William Faulkner, in particolare, quello di Mentre morivo,
dove scriveva: “è come se lo spazio che ci separa fosse tempo: una
qualità irrevocabile. E’ come se tutto il tempo, smettendo di
scorrere dritto davanti a noi in linea decrescente, corresse ora
parallelo fra noi”. La stessa natura di Holt (e dintorni) riporta
alla contea più famosa (per quanto altrettanto immaginaria) della
letteratura americana, quella di Yoknapatawpha e, sì, il termine di
paragone resta quello. Solo che Kent Haruf lo stempera con più
speranza e meno angoscia e anche una sua delicatezza che si traduce,
prima di tutto, nell’invenzione di un nome infinitamente più
accessibile, scelta di cui, tra l'altro, gli saremo grati per sempre.
mercoledì 22 giugno 2016
Flannery O'Connor
La
calligrafia è nitida, uniforme e lineare, almeno quanto ricco di
dubbi e paradossi è il contenuto del Diario
di preghiera. Un piccolo taccuino che
funziona come una carta d’identità perché Flannery O’Connor lo
riempie di appunti mentre sta scrivendo il suo romanzo d’esordio,
tra il 1946 e il 1947, partendo dall’istinto di riscrivere le
orazioni, e un po’ anche la dottrina. Il moto è spontaneo e
condizionato, alla fonte, dall’ingombrante personalità di Flannery
O’Connor: “Non intendo rinnegare le preghiere tradizionali che ho
detto per tutta la vita; ma le dico e non le sento. La mia attenzione
è sempre molto fuggevole. In questo modo sono attenta in ogni
istante”. Il rapporto con la preghiera si scioglie ben presto nel
confronto con la scrittura e di conseguenza con se stessa: “In
qualche momento insulso quando magari sto pensando alla cera per
pavimenti o alle uova di piccione, l’inizio di una bella preghiera
può salire dal mio subconscio e portarmi a scrivere qualcosa di
elevato. Non sono una filosofa altrimenti queste cose le potrei
capire”. Cerca un aiuto concreto nelle letture di Kafka, Coleridge,
Bernanos, Rosseau, Freud, Proust, Lawrence e Bloy (ce n’è
abbastanza da studiare tutta una vita) e se arriva a una conclusione
è che “La speranza, tuttavia, deve essere qualcosa di diverso
dalla fede. Inconsciamente la metto nel comparto della fede. Deve
essere qualcosa di positivo che non ho mai provato. Deve essere una
forza positiva, altrimenti perché distinguerla dalla fede? Vorrei
riuscire a fare ordine, per potermi sentire coerente da un punto di
vista spirituale. Non credo di essere io quella in grado di fare
ordine. Ma tutte le mie richieste sembrano fondersi in una, quella
della grazia, quella grazia soprannaturale capace di realizzare tutto
ciò che fa”. E’ il Diario di preghiera
di una credente piena di domande, ma le sue incertezze non riguardano
la fede, cui dedica un’energia costante (anche con una certa ironia
quando scrive: “Se potessimo mappare accuratamente il cielo alcuni
dei nostri promettenti scienziati inizierebbero a disegnare progetti
per migliorarlo e i borghesi venderebbero guide a 10 centesimi la
copia a chi a più di 65 anni”), piuttosto il suo ruolo sul mondo
terreno, in particolare la sua vocazione per la scrittura e per
l’arte. Essendo molto severa con se stessa, persino scrivere una
breve preghiera per Flannery O’Connor è uno splendido tormento
perché si trova ad analizzare con grande scrupolo ogni singola
parola, ogni motivo per cui dovrebbe inciderla sul suo taccuino.
Nonostante tutto, gli sforzi per vivere fino in fondo la fede non
sono diversi da quelli per comprendere l’utilità della scrittura:
la passione è sanguigna, intensa, reiterata e pagina dopo pagina il
piccolo Diario di preghiera
si svela così un workbook in cui Flannery O’Connor apre porte e
finestre sulle sue insicurezze e, insieme, sulle sue aspirazioni. Il
Diario di preghiera è
colmo di riflessioni sullo spirito e sulla natura della scrittura,
vista in tutta la sua difficoltà, quasi una confessione quando dice:
“Quanto è difficile mantenere qualsiasi proposito, qualsiasi
atteggiamento verso un’opera, qualsiasi tono, qualsiasi cosa. In
questi giorni trovo una certa pace nella mia anima il che è molto
bene, non ci indurre in tentazione. Il livello della storia, boh.
Lavoro, lavoro, lavoro”. E’ un’altalena di stati d’animo
estremi & assoluti, che vanno da considerazioni critiche
(“Mediocrità è una parola dura da attribuire a se stessi; eppure
mi ci ritrovo a tal punto che è impossibile non attribuirmela, e mi
accorgo addirittura mentre lo faccio che sarò vecchia e decrepita
prima di accettarla”) a constatazioni rassegnate (“Penso che
forse la speranza possa essere capita a fondo soltanto mettendola in
contrasto con la disperazione. E io sono troppo pigra per
disperarmi”) da plateali invocazioni (“Vorrei tanto riuscire ad
avere successo in questo momento riguardo ciò che voglio fare”) a
momenti di pura e semplice delusione, in cui la solitudine e
l’isolamento sembrano trionfare (“C’è così poca aria nella
mia scatola”). Eppure la forza di Flannery O’Connor è tale che
anche dopo aver strappato la sua ultima produzione perché “era
certo proprio degna di me; ma non degna di quel che dovrei essere”
(e la differenza è una preghiera in sé) aspira ancora & sempre
a scrivere un romanzo, “un bel romanzo”. Sarà La
saggezza nel sangue.
martedì 14 giugno 2016
Bruce Springsteen
Un
rapinatore che passa tre dei suoi primi sei mesi di vita in cella per
aver svaligiato una banca. A venticinque anni, ruba un cavallo e
diventa inafferrabile. Come succede spesso con i personaggi delle sue
canzoni, Bruce Springsteen cerca di renderli simpatici e
accattivanti, ma dove arriva Outlaw Pete,
le donne piangono e gli uomini muoiono. Una notte si sveglia
nell’incubo di aver visto la propria morte e parte al galoppo verso
il West, un passaggio obbligato dentro l’America in cerca di una
nuova vita. Per quanto citi, tra le fonti d’ispirazione, i
personaggi di The Wild, The Innocent & The
E Street Shuffle, a parte i contorni
picareschi Outlaw Pete
appartiene più al fiume carsico di profili noir e nerissimi che
affiora con una frequenza disordinata nel songwriting di Bruce
Springsteen e che ha avuto un ruolo predominante della galleria degli
assassini di Nebraska,
da Charlie Starkweather a Johnny 99
fino alle guerre mafiose evocate nell’incipit di Atlantic
City. L’epopea del fuorilegge e lo scenario
del West servono a condensare “passione e tragedia” di alcuni
temi fondamentali: la formazione di un uomo e la sua distruzione,
l’amore, la redenzione, la vendetta e, più di tutto il senso,
della giustizia e della predestinazione, della lotta e del rimpianto.
Come spiega lo stesso Bruce Springsteen: “Outlaw
Pete, in sostanza, è la storia di un uomo
che tenta di sopravvivere ai propri peccati, che sfida il destino
cercando di sfuggire al veleno che lui stesso porta in corpo. Il che
è impossibile, naturalmente: ovunque andiamo, i nostri peccati ci
seguono, e noi possiamo soltanto imparare a conviverci”.
Concentrare tutto il racconto epico in una canzone è stata
un’impresa complicata, mentre la versione arricchita dalle immagini
di Frank Caruso gli restituisce un senso di profondità e insieme di
leggerezza. Il disegno, i colori riescono a fissare alcuni passaggi,
a distinguerli con maggiore precisione, come l’incontro con la
ragazza navajo e la nascita della loro figlia. E’ il frangente più
sfumato e in ombra della storia di Outlaw
Pete, una deviazione momentanea che funziona
da preludio allo scontro con il cacciatore di taglie. La svolta
Outlaw Pete, anche dal
punto di vista grafico, è proprio lì perché come dice l’unico
vero giudice in tutto il West, quello di Cormac McCarthy in Meridiano
di sangue, “la legge morale è
un’invenzione dell’umanità per deprivare il forte a vantaggio
del debole. La legge storica la sovverte di continuo. Nessuna
verifica estrema potrà mai determinare se un punto di vista morale
sia corretto o erroneo. Di un uomo che cada morto in un duello non si
penserà di conseguenza che abbia dimostrato di essere in errore
riguardo al suo punto di vista”. La sentenza, come il cavaliere
sull’orlo del precipizio, rimane sospesa: l’eroe soccombe ai suoi
demoni, il fuorilegge entra nella leggenda, Outlaw
Pete continua a chiedersi se qualcuno là
fuori riesce a sentirlo, ma la vera risposta è un’altra domanda.
Quando Peter Bogdanovich chiese a John Ford se la morale di un
personaggio di uno dei suoi film non fosse un po’ ambigua, si sentì
ribadire: “Non è sempre un po’ ambigua la morale?”, ed è
un interrogativo che è sempre lì, ad aspettare, non solo nel
selvaggio West di Outlaw Pete.
giovedì 9 giugno 2016
Stephen Witt
Crisi?
Quale crisi? Pirateria? Quale pirateria? Sembra che Stephen Witt stia
dicendo: è successo qualcosa di epocale nell’industria
discografica negli ultimi vent’anni (sì, è così), ma cosa? Free
indaga con parecchi suggerimenti, tantissimi
riscontri, un’idea tutto sommato coerente del giornalismo
d’inchiesta e un ottimo piglio narrativo, che non guasta.
Dall’inizio alla fine, la trama è annodata alla vita, alla morte e
alla resurrezione dell’ mp3, raccontata in tutti i suoi particolari
da Stephen Witt, come se Free
fosse La stella di Ratner
di Don DeLillo. E’ giusto, ma è come trovarsi in un labirinto di
sensi unici e di domande paradossali. Valido per un romanzo, nella
realtà abbastanza ambiguo: l’architettura di Free
è elegante, colta, scorrevole, ma traballante a dir poco. Perché
multinazionali che producono prodotti fisici finanziavano la ricerca
di formati digitali compressi? Perché l’industria discografica è
passata dall’euforia del compact disc all’attuale diffusa
malinconia con un genocidio di posti di lavoro, ma lasciando
inalterati gli stipendi (milionari) dei manager? Per dare una
risposta a quest’ultima domanda, Stephen Witt segue la figura
emblematica di Doug Morris, executive che nel corso della lunghissima
carriera è stato sempre (ed è) al timone principale, una parabola
rappresentativa di alcuni vizi capitali dell’industria
discografica. Nel farlo, distribuisce un po’ di aneddoti, un po’
di notizie, fa un gran lavoro di ricerca, ma quello che c’è di
interessante, oltre alla pirateria, lo lascia a livello di allusione.
Per esempio, cita il procuratore di New York Elliot Spitzer che ha
costretto al patteggiamento extragiudiziale le principali etichette
discografiche perché sono state responsabili di aver corrotto le
stazioni radiofoniche (che novità, la payola). Ancora di più si
scopre che è stata prassi assumere interi call center per bombardare
di telefonate le emittenti televisive per far trasmettere questo o
quel brano. Per non parlare di spropositati budget per il marketing e
la promozione, tutto magari per dischi inutili come quello di Lindsay
Lohan, comunque votati al fallimento (artistico e commerciale). Lì
si vede che la pirateria è soltanto un placebo alla miopia
(eufemismo) dell’industria discografica nei confronti del digitale
prima, e della rete poi. All’avvento del compact disc, tutto quello
che i discografici sono stati capaci di fare è stato prendere un
catalogo e rivenderlo, e sono stati anni d’oro. Con la rete, per
loro stessa ammissione, non hanno mai saputo come fare. Per dire, il
massimo del successo ottenuto in questo senso da Doug Morris è stato
Vevo, un canale che in sostanza è il vecchio catalogo di videoclip
reso disponibile per vie digitali. Stesso meccanismo del compact
disc, fantasia al comando, sotto lo zero. Altri sono stati più
rapidi e scaltri, primo tra tutti Steve Jobs, uno che ha capito a
fondo i meccanismi del pop e infatti prima con gli mp3 nell’iPod,
poi nell’iTunes ha fatto saltare il banco. Non a caso, se si vuole
prendere una data per ricordare un punto di non ritorno è stato
quando gli U2 hanno regalato l'irrilevante Songs
Of Innocence a mezzo miliardo di persone
completando de facto la metamorfosi della musica, che infine è
diventata il gadget di lusso dell’hardware e del software. Questo è
il dettaglio vitale e mortale che sfugge a Stephen Witt, e per giunta
con un libro chiamato Free.
Altro che pirateria. E’ il mercato in tutto il suo splendore,
decadenza compresa.
martedì 7 giugno 2016
Richard Price
New
York, oggi, nei quartieri più popolosi, il Lower East Side, Long
Island, Harlem, il Bronx, confini invisibili da una marciapiede
all’altro, folla che sguscia dentro e fuori la metropolitana o è
bloccata nel traffico o è in coda al pronto soccorso. Tutta una
varia umanità di perdenti, di falliti, di piccoli criminali o, il
più delle volte, di persone per cui l’esistenza della legge è
altrettanto evanescente di quella della giustizia. Una squadra di
detective (in alcuni casi, ex) con molti conti da regolare con se
stessi, con un passato che ritorna come l’eco di una voce
sconosciuta, con un presente che, come minimo, è piuttosto
complicato, e infine con un nugolo di ossessioni e di fantasmi
onnipresenti, inseguono ancora le Balene
bianche ovvero “tutti criminali che avevano
commesso delitti osceni sotto il loro naso ed erano sfuggiti alla
giustizia”. Richard Price eleva all’ennesima potenza
l’elaborazione di un paesaggio umano nel minimo comune denominatore
di una metropoli che è sempre sorprendente nei suoi gangli storici e
architettonici e nell’assenza di regole di ingaggio che rivelano
una trappola, un agguato, un sotterfugio o un inganno a ogni angolo
ed è fatta di notti insonni, alcol (molto alcol), armi improvvisate
(e non), espedienti e coscienze tormentate. In questo habitat
pulsante e nevrotico le Balene bianche
hanno un ruolo predominante, pur essendo invisibili, e sono anche il
riflesso delle occasioni perdute, dei rimpianti, dei fallimenti
perché, come scriveva Herman Melville (uno che se ne intende, di
balene) “la città è presa dai suoi ratti, ratti di nave, ratti
di molo. Ogni civile bellezza e incanto sacerdotale che intimoriva i
cuori, legati dalla paura, soggetti a un potere migliore del potere
dell’io, questi come un sogno svaniscono e l’uomo arretra per
intere età nella natura”. Nella sua centralità, la condizione
esistenziale di Billy Graves riassume un po’ anche tutte le altre:
non sono eroi senza macchia e senza paura, anzi. Hanno anche famiglie
scomposte o disordinate con padri e figli e mariti e mogli, malati da
curare, giornate lunghissime da risolvere. Nello stesso tempo, con
un’indistruttibile vocazione all’amministrazione della giustizia
e un’aderenza incondizionata ai dettati della legge, Billy Graves è
anche la negazione delle Balene bianche
e dei rispettivi cacciatori. L’atmosfera noir (nerissima) non è
nella soluzione di un caso (anche se qui ce ne sarebbe un’ampia
scelta, ogni santa notte), è frutto della costruzione di esistenze
compresse dall’istinto della vendetta e dall’impossibilità del
perdono. Il passato riemerge, rimbomba e si ripresenta, anche uno
scambio di persona diventa la fonte di una reazione a catena di
omicidi, le vittime tendono ad autoaccusarsi, non c’è certezza che
regga, l’idea di verità vacilla e i detective sembrano ricordarsi
a fatica che nella loro formazione “in una prospettiva a lungo
termine, e al fine di formare gli uomini in modo ottimale e
prepararli a svolgere al meglio il loro lavoro, si tolleravano errori
e si passava sopra a tante azioni, proprie e altrui. Si creavano
segreti, e se ne mantenevano altri”. Balene
bianche è quasi naturalista nel cercare di
imprimere a fondo la natura di NYC e dei suoi abitanti solo che
Richard Price riesce a non perdere il senso dell’ironia e
soprattutto l’innata predisposizione ai dialoghi, dove resta
insuperabile. Sono le voci a dettare il ritmo (incalzante), a
sottolineare il carattere cosmopolita della città, a rendere il
senso del caos, fino all’ultima pagina, quando Balene
bianche trova una conclusione amara,
tagliente, perfetta in un’inquadratura che, da sola, rende l’idea
di un grande romanzo dei nostri tempi.