Diceva
Miguel Algarín: “Il poeta vede la propria funzione come quella di
un trovatore. Narra alle strade il racconto delle strade”. Era
proprio quello il ruolo principale di Pedro Pietri, solo che lo
interpretava a modo suo, seguendo l’istinto più di tutto, e
restando incollato a quel proposito che ripeteva sempre: “Non
voglio parlare di quello che succede nella vita reale perché allora
finirei per mentire”. Ne parlava, eccome, e l’umanità degli
scarafaggi e delle cause perse di Pedro Pietri si rivela, poesia dopo
poesia, una visione eccentrica, eppure stimolante, non addomesticata,
incorreggibile. La sua lingua è inafferrabile, tambureggiante, un
modello di carta vetrata che la poesia e l’America non hanno più
in catalogo. Basta una piccola selezione delle sue Cabine
telefoniche, schizzi di vita
quotidiana nelle strade di New York e impressioni di un artista fuori
servizio, come si descriveva nella Cabina
telefonica 972: “Quando non sono
in giro e qualcuno giura d’avermi visto nel periodo in cui non mi
sono visto io (quel che faccio allora è andare di filato a casa per
sognare a occhi aperti d’essere in qualche altro posto) finché
diventa una noia e accendo le luci spegnendole”. A volte sono
frammenti di dialoghi a cui manca l’esatta metà, avvisi ai
naviganti di relazioni claudicanti come il messaggio della Cabina
telefonica 580: “Non ci sarò per
colazione come ti avevo promesso ma tu non starci troppo male prendi
le ciambelle incollale al soffitto e quando ti vien fame fatti un
paio di salti”. Ancora di più, quello della Cabina
telefonica 801, un calembour che ben
rappresenta i coloriti toni di Pedro Pietri: “No certo che no non
guardo un uomo come guarderei una donna c’è una bella differenza
in un caso mi tira da matti nell’altro no, ma non ti dico qual è
l’uno e qual è l’altro, se vuoi proprio saperlo comincia a
toglierti qualcosa”. Se il primo strato appare luccicante, per via
dei riflessi di quell’ironia brillante e tagliente, sbucciando i
versi emerge davvero lo spirito del troubadour, la lucidità dei
sognatori indefessi, dei fuggitivi, dei bardi imprigionati nelle mura
delle metropoli, New York nel caso specifico. Il luogo, la terra di
nessuno è proprio quella, come scriveva in Intermezzo
da lunedì: “Devo lasciare la
città, quando quel che vedi è quel che vedi e quel che non vedi non
vedi e l’immaginazione è classificata come bagaglio eccedente
all’aeroporto dove cornici per quadri sono cornici per quadri e le
code si allungano sempre di più per biglietti di prima classe su uno
scaffale dove un poeta è diventato poeta agli occhi di tutti tranne
che ai suoi”. Quel retrogusto amaro e malinconico, complementare
all’irrequieta voce di Pedro Pietri si rivela in Una
poesia senza titolo (che, a ben
guardare, c’è un motivo anche in quest’assenza) quando dice:
“Non ho progetti per oggi o domani, i muri son già stati scrutati
per bene. Ogni cosa è compresa incompresa, riesco solo a pianificare
il passato di questi giorni”. Se ne è andato dieci anni fa, e il
suo epitaffio potrebbe coincidere benissimo con la conclusione di
Biglietto d’addio d’uno
scarafaggio suicida in un complesso popolare:
“Addio, mondo crudele, ne ho abbastanza di prenderlo in quel posto
a causa delle tue parole incrociate. Non ci sarò quando cadrà la
bomba, inoltra la mia corrispondenza alla tua coscienza, quando ne
rimedi una”.
domenica 29 novembre 2015
domenica 22 novembre 2015
Kurt Vonnegut
Le
Galápagos di Kurt Vonnegut sono proprio quelle stesse di
Charles Darwin e allora toccano al rinomato ospite gli onori di casa:
“L’arcipelago è in se stesso un piccolo mondo o meglio un
satellite attaccato all’America”. I presupposti scientifici si
fermano lì eppure sono più che sufficienti a fornire il principio
irrinunciabile e comune per entrambe le interpretazioni delle Galápagos. Una coincidenza rivelata anche dall’uso dei pronomi,
quando Kurt Vonnegut raccontava la genesi del romanzo: “Ho
scritto Galápagos per il libro in sé, così come si dipinge
un quadro per il quadro in sé. Il libro era un problema tecnico e ho
passato un periodo d’inferno per farlo funzionare. Sono menzogne
creative, come se mentissi sul banco dei testimoni; tutto deve
reggere”. Tesi: un milione di anni dopo la sua estinzione,
garantita da un’apocalisse nucleare, il genere umano si è evoluto
ripartendo dall’arcipelago delle Galápagos con un manipolo
cosmopolita e caotico di naufraghi. Ipotesi: il vero habitat è fatto
di parole, e non c’è maldestro cervello (“Sia detto in lode
all’umanità quale allora si configurava: un numero crescente di
persone andava ripetendo che i loro cervelli erano irresponsabili,
inaffidabili, odiosamente perniciosi, affatto privi di senso della
realtà: in poche parole, un disastro”) o macchina, come il
Mandarax o il Gokubi (tutti da scoprire), in grado di elevarsi da
quello stato primordiale e assoluto. Vonnegut segue l’istinto,
lasciando che sia la sua progenie di personaggi (a partire da Leon
Trotsky, figlio di Kilgore Trout, disertore in Vietnam ed enigmatica
voce fuori campo) a generare da sola la trama, con un ritmo elettrico
e sconcertante, attraversato da micidiali digressioni che, in un modo
o nell’altro, prima o poi, riprendono la giusta rotta. Anzi,
proprio la tracciano, come se Galápagos fosse una sorta di
suite di jazz (molto, molto free) che, con la forza
dell’improvvisazione, aumenta e accentra la tensione. Il crescendo
è sincopato: uno scenario dopo l’altro, la visione di Vonnegut si
fa via via sempre più sorprendente. Prima è la crociera della Bahía
de Darvin, una nave che a sua volta ha tutta una storia nascosta
tra le lamiere, ad attirare un singolare campionario di “esseri
estranei alle congiunture evolutive”. Ne basterebbe già la metà,
poi arriva la guerra tra Perù ed Ecuador che, pare di capire, è
l’inizio della fine. Invece è il cardine centrale di Galápagos,
quello che spinge la nave dei folli alla deriva, e il bello deve
ancora venire perché la soluzione finale è l’apoteosi
dell’inimitabile verve di Kurt Vonnegut. L’approdo è solo
l’epicentro da dove il romanzo si moltiplica. A quel punto, Galápagos ha già attraversato fasi concitate e complesse,
magari ci si è ambientati, si è compreso il senso della crudele
ingenuità della danza delle sule o il pericolo vampiresco dei
fringillidi e Kurt Vonnegut cambia ancora registro. Irriverente,
sarcastico, spettacolare quando all’apogeo delle esplosioni
umoristiche (e non) conclude che “le persone sono quello che
sono, detto questo è detto tutto. Sotto questo aspetto, la legge
della selezione naturale ha voluto che gli esseri umani fossero
affatto trasparenti. Tutti, maschi e femmine, sono esattamente quel
che sembrano”. Un vortice di impressionante potenza, con una risata
sempre in agguato, e attenzione agli asterischi, possono nuocere
gravemente alla salute.
giovedì 19 novembre 2015
Kent Haruf
Diceva
tempo fa Jim Harrison, l’unico scrittore che, con Cormac McCarthy,
si può accostare a Kent Haruf: “A me piace il coraggio, mi
piacciono l’amore e la morte, sono stanco dell’ironia”. Ecco,
nel Canto
della pianura c’è
la vita che va e che viene e si dipana nel racconti di Kent Haruf
come una ballata country & western, diciamo Alone
And Forsaken di
Hank Williams, per non sbagliare. L’essenza è quella, anche se c’è
una forza nei protagonisti che riesce a superare la tristezza di
momenti imprevisti, duri e infelici. L’aiuto inaspettato arriva
proprio da Kent Haruf che rimane vicino ai suoi personaggi e concede
a tutti una seconda chance. Chi resta escluso è perché ha bisogno
di un avvocato o si lascia l’ipotetica Holt alle spalle. La fuga
apre altri scenari, non previsti, mentre il Canto
della pianura è
fatto di piccoli incastri, che si rivelano di volta in volta, senza
particolari colpi di scena. Comincia con un germoglio vitale più,
nella gravidanza di Victoria Roubideaux, poi si snoda all’interno
di un perimetro ben delineato, una mappa che potrebbe stare su una
pagina del libro, con una mezza dozzina di punti strategici, compreso
il domicilio del protagonisti. Si incontrano per traiettorie
divergenti e inafferrabili: i legami sono molto fragili e vengono
definiti dallo stesso ambiente, dalle stagioni, dalle condizioni
atmosferiche. Sembrerà paradossale, ma la vita nelle smalltown è
limitata dagli spazi, e dai difetti congeniti delle parole e del
linguaggio. L’espressione del paesaggio attraverso il senso di Kent
Haruf per la frase, asciutta, eppure densa, forte e ruvida, ma
elegante nella sua essenzialità, è la forma lineare, orizzontale
(perché così è il territorio) di una narrazione limpida, senza
esitazioni, “plain spoken”, come direbbe John Mellencamp, e per
non andare troppo lontani dal titolo. La bellezza del Canto
della pianura sta
proprio in quel parlare piano, chiaro, che la scrittura di Kent
Haruf, appuntita e artigianale nella composizione, e così accurata
della definizione, riesce a rendere come se fossimo lì, sulla terra,
nella polvere e nella neve. Non leggi, non immagini: sei dentro, gli
sei accanto. Lo senti, il Canto
della pianura.
Li senti, uomini (e bambini) e donne che si inseguono, si
abbracciano, si abbandonano, si perdono e si trovano.I profili
psicologici dei personaggi di Ike e Bobby, della madre chiusa in
camera, di Tom Guthrie e Maggie Jones emergono senza bisogno di
spiegazioni. Incontri che si compongono e si consumano seguendo le
bizze di un destino che è impalpabile come il vento sulla pianura. I
profili si stagliano nitidi, alcuni convessi, altri concavi, si vanno
a incastrare e si specchiano uno nell’altro. Divergenti,
complementari, perché Holt, che è difficile chiamare città, non è
poi così grande. C’è una tenerezza, all’improvviso, dove meno
te l’aspetti, un po’ di compassione sulla pianura dura e fredda.
Una nota di speranza battuta dalle raffiche di gelo e dall’odore
degli animali che spunta dai burberi fratelli McPheron. Parlano
pochissimo, anche meno degli altri, ma si rivelano generosi quel
tanto che basta da rendere meno arido il tempo che passa,
inesorabile. Forse sono anche naïf, perché c’è una bizzarra nota
di brio nei loro passaggi in Canto
della pianura, ma l’effetto
benefico dei McPheron sull’intera storia è la conseguenza di gesti
spontanei (o quasi) che si propagano incontrollati, dentro e fuori,
mitigando piccoli e grandi contrasti da una casa all’altra, un
giorno più, un giorno meno. Holt è solo il punto in fondo alla
domanda, non c’è via d’uscita. L’astio, la solitudine, e poi
la tristezza. Avere una possibilità, non restare soli. Fine delle
alternative. L’ironia della vita può aspettare, ancora un po’.
lunedì 16 novembre 2015
Wallace Stevens
Le
ultime poesie di Wallace Stevens raccolte in Il
mondo come meditazione suonano
come una sorta di eredità spirituale, un estremo lascito che di
volta in volta assume le sembianze di augurio, profezia, testamento,
saluto e arrivederci. E’ vero che “una
poesia non è necessario che abbia un significato, e come la maggior
parte delle cose in natura spesso non ne ha”, d’altra parte
considerare Il
mondo come meditazione
implica il riconoscimento, tra i versi, di una riflessione
filosofica che comincia, come scrive in Conversazione con tre donne
del New England, quando
“il modo della
persona diviene il modo del mondo, per quella persona e, a volte, per
il mondo stesso”. Quello di Wallace Stevens è “un modo di
pronunciare il mondo entro la propria lingua”, spiega in Sulla via
dell’autobus, perché “siamo
esseri fisici in un mondo fisico, il tempo è una delle cose di cui
godiamo, una delle realtà non filosofiche. Lo stato del tempo
diventa presto uno stato di mente. Vi sono molte cose immediate nel
mondo che noi godiamo: una poesia perfettamente realizzata dovrebbe
essere una di queste cose”. Nella pratica, può essere tutto,
essendo fatta di parole che “sono
insieme icona e uomo” ed è nella sua applicazione che Wallace
Stevens si rivela, nel tempo, un poeta essenziale, indispensabile nel
sapere interpretare Il
senso ordinario delle cose o
Il corso di un particolare,
ovvero la primitiva realtà, sempre cosciente che “per quanto si
dica che siamo parte di tutto, la cosa implica un conflitto, una
resistenza; e l’esserne parte è uno sforzo che diminuisce: si
sente la vita che dà la vita così com’è”. Questa attitudine
lo vede più struggente che mai nel cogliere la “bella
rappresentazione” kantiana della bellezza naturale seguendo Il
fiume dei fiumi in Connecticut
(“Colmo di spazio, specchio delle stagioni, del folclore dei sensi
tutti; chiamatelo, ancora e sempre, il fiume che non scorre in alcun
dove, come un mare”) e celebrando gli alberi, che “sono mondi”,
iniziando con La
regione novembre
(“Più e più profondi, più e più sonori, gli alberi ondeggiano,
ondeggiano, ondeggiano”) per giungere a una sostanziale definizione
in Il mondo come
meditazione quando
scrive: “Gli alberi hanno l’aria di portare nomi tristi e star lì
a ripetere sempre la medesima cosa, come in tumulto, perché un
opposto, una contraddizione, li ha provocati e ora vogliono
replicare”. Se questa non l’arte di un pittore, di uno scultore o
di un fotografo, è, senza alcuna esitazione, il frutto
dell’insistenza con cui Wallace Stevens intende
sostituire all’idea di ispirazione, “l’idea di uno sforzo della
mente non dipendente dalle vicissitudini della sensibilità”. Nel
concedersi, il poeta dissimula anche l’ora del crepuscolo, prima
rievocando l’odissea di tutti gli uomini con La
vela di Ulisse (“Non
è questa la serenità di spirito del poeta. E’ la sorte che dimora
nella verità. Obbediamo le sollecitazioni del nostro fine”) poi,
quasi con un tono colloquiale, in L’uomo
malato, firmando un
toccante commiato: “Scegliendo da dentro di sé, da tutto ciò che
ha in sé, una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio,
le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette”.
Talmente poetico da confondere anche un rigoroso Frank Kermode che lo
definiva “un dottore incomparabilmente sottile, per non dire
angelico”, se non fosse che anche l’invenzione del paradiso,
secondo Wallace Stevens, coincide con l’imperfezione, per cui non
resta altro, come
diceva qualche
anno prima, nel 1941, che “seguire l’idea della nobiltà in ciò
che si potrebbe chiamare il disastro della realtà, in particolare la
realtà delle parole”. Normale, straordinario, assoluto.
lunedì 9 novembre 2015
Benjamin Franklin
La
Cronaca di un massacro di indiani è
un pamphlet di Benjamin Franklin che rilegge un episodio della vita
lungo la frontiera negli anni
precedenti l'inizio della guerra d'indipendenza americana. Siamo nel
1763
quando i Paxton Boys, una pattuglia di coloni di origini irlandesi,
massacra un manipolo di indiani Conestoga, senza alcun motivo
apparente. Le
notizie dell'epoca riportano un eccidio efferato, ma di dimensioni
numeriche ridotte, rispetto a scontri, guerre e guerriglie ben più
disastrosi. Solo che la strage avviene in un contesto politico già
squilibrato, su linee di confine, fragili e limitate che non
riescono più a definire con qualche margine di sicurezza i rapporti
tra i nativi, i coloni e gli inglesi. Le terrificanti scorribande dei
Paxton Boys non sono casuali: c'è un metodo nella concatenazione dei
loro assalti che si nutre del rifiuto delle leggi e degli accordi e
dell'apologia della violenza come strumento per regolare la vita (e
la morte) nella wilderness. Le motivazioni hanno sottili connotazioni
economiche e politiche che un altro testimone, il predicatore John
Woolman spiegava così: “La gente di frontiera tra cui tale male è
così diffuso, è spesso povera, e si avventura oltre i confini di
una colonia per poter vivere in maniera più indipendente da coloro
che possiedono la ricchezza, i quali spesso fanno pagare alti canoni
d'affitto per le loro terre”. Questa reazione a catena, sulle basi
dello sfruttamento della terra e degli uomini, lascia intravedere
nelle gesta dei Paxton Boys i germi della rivolta che porterà alla
guerra d'indipendenza. Le parole del pamphlet di Benjamin Franklin
lasciano intendere che quello è un solco ben preciso nella genesi
della nazione americana. Quello che contempla non è soltanto la
condanna, logica e spontanea, del massacro di civili inermi e delle
dinamiche in cui è maturato. Mette in evidenza anche la debolezza
delle istituzioni, del diritto, delle colonie, persino della
conoscenza dei nativi e delle terre che abitano. In un pamphlet
successivo, quando già gli Stati Uniti erano diventati una realtà,
Benjamin Franklin scrivevrà: "Chiamiamo selvaggi questi popoli
perché i loro costumi sono diversi dai nostri; che crediamo
rappresentino la perfezione della civiltà. Essi hanno la stessa
opinione dei loro. Se esaminassimo con imparzialità i costumi delle
diverse nazioni, forse troveremmo che, per rozzo che sia, non c'è
popolo che non abbia principi di buona educazione, e che non ce n'è
alcuno così educato che non conservi qualche residuo di barbarie".
Nella perentoria presa di posizione, in Cronaca
di un massacro di indiani,
non solo in difesa dei nativi, ma anche di una logica di vita civile
e pacifica, non
mancava l'affondo morale: “Concluderò dicendo che qualunque
codardo può maneggiare le armi, colpire dove sa che non vi sarà
reazione, ferire, mutilare e assassinare, mentre risparmiare e
proteggere è prerogativa degli uomini coraggiosi”. Tanta
ostinazione
gli guadagnò l'ostilità generale tanto da
costringerlo a lasciare l'America per Londra. Un esilio che non gli
ha impedito di diventare uno degli intellettuali fondamentali per
l'America anche e proprio per la sua predisposizione a cercare di
capirne le contraddizioni già agli albori della sua storia.
L'America
si è retta, e si regge da sempre, sul confronto degli opposti, su
una convivenza difficile e complessa, con una violenza pronta ad
esplodere in qualsiasi momento. Altro che melting pot.
giovedì 5 novembre 2015
Philip Caputo
Un
libraio citato da Philip Caputo, Ken Lopez, ha raccolto una
bibliografia di più di tremila volumi sulla guerra del Vietnam.
Oltre a essere documentato il suo punto di vista è ben argomentato:
“In Vietnam, almeno in letteratura, la brutale assurdità e
casualità della vita e della morte si condensa spesso in pochi
terribili attimi in cui il mondo cambia drasticamente, e a volte
definitivamente, per tutti. Per la maggior parte di noi, che abbiamo
vite comuni, si tratta di un processo molto più lento, sottile e
meno percettibile, ma la sua natura è la stessa. In un'epoca in cui
i limpidi precetti morali delle generazioni che ci hanno preceduto
sono stati in gran parte abbandonati, la guerra del Vietnam, con la
sua suprema ambiguità morale, riflette e illumina la nostra
condizione generale: è, in definitiva, una perfetta metafora dei
nostri tempi”. Esatto: Philip Caputo è uno che ci è andato
convinto e ispirato dalla retorica istituzionale che prima cercava di
arrivare nell'intimo di “hearts and minds” e poi si lanciava
nelle missioni “search & destroy”, come se entrambe le
opzioni fossero sullo stesso piano. La condivisione dei valori
dell'età della frontiera, un mito creato con molta cura, ma pur
sempre un mito, l'eccitazione di essere al centro dell'azione e della
storia, con un posto prenotato nella terra degli eroi, le sofferenza
una volta sul campo (il caldo, la polvere, l'insonnia, la paura, i
caduti) si sommano senza soluzione di continuità nel racconto di
Philip Caputo, che è abbastanza onesto da lasciar trasparire le
emozioni e i sentimenti ambivalenti di fronte alla guerra. In
Vietnam è l'addetto al body count, la macabra contabilità delle
battaglie e in quel tragico ruolo ogni slogan si squaglia nel fetore
dei cadaveri smembrati, senza alcuna pietà. Philip Caputo non
risparmia nulla e affronta tutti i dettagli con un certo coraggio,
cogliendo almeno “il benefico effetto di eliminare alla radice
qualunque idea stupida, astratta e romantica”. Laggiù, ognuno ha
sua visione: chi la vede come una guerra per bande, chi la scorre
come un elenco statistico, chi come una missione, chi come una
vacanza, chi come un'avventura. Philip Caputo non aggiunge proprio
nulla: la scrittura è livida, schematica e anche se si concede con
abbondanza nella descrizione delle missioni, gli episodi sono
reiterati e ripetuti. “La situazione rimane invariata. Tutto
tranquillo” è il refrain delle sentinelle notturne e si adatta
anche al racconto di Philip Caputo: sicuramente una testimonianza
coraggiosa (una volta tornato Philip Caputo rispedì al presidente le
decorazioni, tra l'altro) che però non aggiunge nulla, rispetto a
Inseguendo Cacciato di
Tim O'Brien o Nell'esercito del faraone
di Tobias Wolff citati nell'epilogo insieme a Ken Lopez e a un
interessante punto di vista dello storico John Hellman: “Il Vietnam
è un'esperienza che messo seriamente in discussione il mito
americano. Gli americani si imbarcarono nella guerra del Vietnam con
l'idea che ne sarebbe derivata un'epopea tipicamente americana.
Quando la storia dell'America in Vietnam prese una piega inaspettata,
la vera natura della storia americana nel suo complesso fu oggetto di
un intenso dibattito culturale. Al livello più profondo, l'eredità
del Vietnam è la disgregazione della nostra storia, della nostra
spiegazione del passato e della nostra visione del futuro”. Non una
sconfitta qualsiasi.
lunedì 2 novembre 2015
Anne Waldman
La necessità
di coagulare un'esperienza tanto vasta, come è stata la cosiddetta
Beat Generation, si è sempre scontrata con l'impossibilità di
definirne i limiti temporali, storici e stilistici. D'altra parte una
qualche forma di selezione si è resa via via sempre più
indispensabile, se non altro come prima ricognizione panoramica,
anche se l'impresa è tutt'altro che agevole come si è ben accorta
Anne Waldman: “Curare questa
antologia è stato un po' come lottare con un drago tentando di
cacciarlo in una scatola di fiammiferi”. La curiosa metafora rende
bene la spontaneità della natura di The Beat Book,
costruito con “un'attenzione concentrata piuttosto che
onninclusiva” che riporta, sì, i nomi fondamentali della Beat
Generation, i più noti e i più spettacolari (Allen Ginsberg, Jack
Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso) ma anche Lenore Kandel,
Lawrence Ferlinghetti, Lew Welch, Philip Whalen, Michael McClure,
John Wieners, Amiri Baraka (a suo tempo, LeRoi Jones) con l'omaggio a
Miles Davis, Bob Kaufman, Joanne Kyger, Gary Snyder, Peter Orlovsky e Diane Di Prima:
a cui va il merito di aver saputo esprimere con il limpido fraseggio
della poesia che “il terreno dell'immaginazione è l'assenza di
paura”. Questo è il minimo comune denominatore che rende The
Beat Book un vademecum solido e
coerente poi, come spiega con precisione Anne Waldman, “all'inizio
ciò che coinvolge, diverte e attira è il mito della Beat
Generation, il suo leggendario, la sua immagine culturale, ma alla
fine ci si concentra sulla scrittura stessa e si esulta scoprendo che
essa ancora respira”. Eccome. Giusto per rinfrescare la memoria,
ecco qualche frammento a testimonianza della diversità e della
complessità della percezione contenuta nell'indefinibile terra
comune delal Beat Generation. Una prima asserzione, lucidissima e
nello stesso tempo visionaria, di William Burroughs: “Io dico che
tutto quello che non va avanti va fuori... Ma sapete cosa possiamo
fare con la parola mettendoci un tocco speciale. E poi parlano
dell'energia che c'è in un atomo. Tutto l'odio tutta la paura tutto
il dolore tutta la morte tutto il sesso è nella parola. La parola
una volta era un virus che uccide. Può diventare ancora un virus che
uccide. La parola è troppo rovente da maneggiare e allora stiamo
seduti sul culo aspettando la pensione”. All'estremo opposto, uno
scampolo delle confessioni e delle confusioni di Neal Cassady: “Per
me coltivare una giusta amministrazione delle idee in modo da
trattenerle e da essere capace di metterle giù in modo chiaro è una
difficoltà onnipresente in cui mi si impappina la mente. Tra
l'altro, era proprio in questa linea di cercare di salvare qualcosa
per la scrittura finché sarei riuscito a imparare a farne tutto un
processo soltanto di pensare e poi mettere giù quel pensiero”. Tra
un delirio (sacrosanto) e l'altro si trova anche la dichiarazione
d'indipendenza di Jack Kerouac a John Clellon Holmes nel 1946:
“Eravamo una generazione di furtivi. Capisci? Sapevamo dentro di
noi che non serve a niente sbandierare chi sei a quel livello, ossia
al livello del pubblico;
era un modo di essere beat, cioè di impegnarci, con noi stessi,
perché per noi tutti era chiaro a che punto eravamo, stufi di tutte
le forme, di tutte le convenzioni del mondo”. Un'ambizione
rivoluzionaria, una logica da outsider, una cristallina innocenza con
cui Allen Ginsberg conclude così la premessa a The Beat
Book: “Avevamo un gran lavoro
da fare, e lo facciamo, cercando di salvare e guarire lo spirito
dell'America”. La sconfitta è innegabile, la tragedia della realtà
è sempre più forte, ma, come scrive Ann Waldman “l'impulso
delicato e vivido ad afferrare il mondo al volo magicamente tramite
il linguaggio” è rimasto integro, non integrato, beato, non
battuto.