John
Cheever racconta come nessun altro l’Italia, e Roma in particolare,
con la sua decadenza, con quel mood da declino irrimediabile
dell’impero, con quell'atmosfera di un paese arcaico, rustico,
senza speranza. La sua esperienza gli consente di riconoscere che “la
bellezza dell’Italia non è più tanto facile da avvicinare, se mai
lo è stato” e, da quel punto di osservazione, diventa insuperabile
nel cogliere, in poche righe, lo spirito fatale della città. Il
rumore della pioggia a Roma raduna
tre racconti brevi,
The
Bella Lingua,
Clementina
e Boy
In Rome
che, così assemblati, hanno un senso proprio e anche una continuità
logica. The
Bella Lingua
segue le peripezie di Wilson Streeter, in cui non è difficile vedere
un alter ego dello stesso John Cheever, che, come si sa, è stato a
lungo ospite dell'Italia e di Roma. All'inizio, la capitale gli
appare come “uno spettacolo esaltante, disorientante: le rovine di
Roma repubblicana e imperiale, le rovine di ciò che la città era
stata fino a poco tempo prima”. Il fascino esorbitante di ogni
angolo cittadino è preponderante nella fase della scoperta, poi le
osservazioni cominciano ad allontanarsi in modo deciso dalla vita del
turista, a cui “l’intera esperienza di viaggiare per un paese che
gli è estraneo viene immediatamente consegnata al passato”. Quando
le vacanze romane si allungano fino a diventare una sorta di esilio
volontario dall'America Wilson Streeter alias John Cheever si accorge
che “d’altronde organizzare qualsiasi cosa a Roma è così
complicato che lucidità e scetticismo cedono quando proviamo a
capire la descrizione di una scena in un tribunale, a proposito di un
contratto di locazione per esempio, o durante un pranzo, ovunque
insomma. Ogni dettaglio alimenta più domande di quante risposte esso
sia in grado di fornire e alla fine perdiamo di vista la verità,
come era destino”. The
Bella Lingua mette
in risalto la distinzione tra turista per caso ed emigrato perché
per quest'ultimo “il
passato non esiste: egli vive in un continuo e implacabile presente.
Il solo pensare di trovarsi in un altro paese, nella città o nella
campagna che è stata o potrebbe tornare a essere per sempre la sua
casa, vanificherebbe tutti i suoi propositi. Invece di accumulare
ricordi gli emigrati si trovano di fronte alla sfida di imparare una
lingua nuova e di capire i costumi e il modo di essere un popolo”.
Qui The
Bella Lingua si
incastra con naturalezza al racconto successivo, Clementina.
Clementina
è una domestica che proviene dalla campagna primitiva, dove i lupi
d'inverno scendono tra le strade del paese, e Roma, per lei, è già
un altro pianeta. Quando gli viene proposto di andare in America,
scoprirà che “nel lasciare un mondo per andare in un altro li
aveva persi entrambi”. Un racconto amarissimo (ispirato alla vera
donna di casa della famiglia Cheever) prima della conclusione di Boy
In Rome,
dove John Cheever riflette, ascoltando Il
rumore della pioggia
a Roma su “un posto senza polizia armata, senza nobili avidi, senza
slealtà, senza corruzione, senza ritardi, senza la paura del freddo,
della fame e della guerra. E se tutto quello che immaginava non
esisteva la sua rimaneva comunque un’idea nobile e questa era la
cosa più importante”. Crepuscolare.
sabato 30 maggio 2015
giovedì 28 maggio 2015
Bernard Malamud
Quella
di Bernard Malamud è una percezione molto raffinata e nello stesso
tempo umanissima della letteratura, introdotta come “una
benedizione capace di sanguinare come una ferita”. Dal punto di
vista dello scrittore, così come sull'altra riva del fiume, dove è
seduto il lettore, il tema è lo stesso perché, “raccontare storie
è un modo per trovare, passo dopo passo, il significato della vita.
E' una possibilità per immergere la punta delle dita nel mare
dell'esperienza e portare a galla la sostanza, portare su la
scrittura, nascosta, per poter raccontare quello che hai fatto e
quello che ti senti di dover dire”. Per me non esiste altro
è una felice antologia di riflessioni che, nonostante la forma
frammentaria e spicciola rende evidente una coerenza che non si
improvvisa, un'aderenza a quei valori, letterari (e non), che
impongono “uno sviluppo estetico e morale, dove estetica e morale
diventano una cosa unica”. Un'opera d'arte è “una collezione di
probabilità” e Bernard Malamud assegna quattro punti cardinali
molto solidi per riconoscere le fonti primordiali: “rabbia,
disgusto, amore, comprensione” sono le direzioni ineludibili da cui
si dipanano le sue coordinate letterarie perché poi “un artista
scrive una tragedia perché la gente si ricordi che è umana. Ci
mostra condizioni reali. Struttura per noi il significato della
nostra vita, in modo che ci balzi chiaro agli occhi”. La
trasmissione dell'intima conoscenza della scrittura è, in assoluto,
la più costruttiva, ideale e nello stesso tempo realistica che si
possa immaginare, anche tenendo che “per essere realisti serve
immaginazione”. Lo scintillante paradosso di Bernard Malamud,
cinque parole per condensare il senso di una visione artistica, non
nasconde le esigenze più intime della scrittura in sé. Quando dice
Per me non esiste altro, Bernard Malamud non evoca nessuna
immagine romantica dello scrittore, né quella estatica né quella
sofferente perché la sua attitudine è quella lineare, semplice,
diretta di chi sa bene che “scrivere, lavorare da soli per creare
storie, comporta molti inconvenienti, ma è decisamente un buon modo
per vivere la solitudine”. Non c'è un altro modo ed è l'unico
imperativo, o meglio, un'accorata raccomandazione a rivelare
l'idea definitiva, il profilo in alto rilievo dello scrittore secondo
Bernard Malamud. Il suo compito è descritto in modo essenziale,
lapidario: “Lo scrittore deve affrontare il fatto che entra in una
stanza, e che è meglio che vada in quella stanza, è meglio
che chiuda quella porta, è meglio che stia lì dentro ed è
meglio che scriva, e, qualsiasi cosa succeda, non parli mai
con nessuno”. Bernard Malamud si concede invece con generosità,
spiegando la funzione del romanzo e le possibilità del racconto, le
necessità della trama e quelle dei personaggi, ed è una fonte più
che autorevole avendo speso un'intera vita per comprendere che
“un'opera d'arte non è mai finita, ma a un certo punto dev'essere
semplicemente abbandonata”. C'è molto di più in Per me non
esiste altro, persino i segreti del lettore, oltre a quelli dello
scrittore, anche se poi è sempre lì, per forza, che Bernard Malamud
ritorna e ritorna perché “la scrittura è una cosa così fragile,
ed è strettamente legata alla capacità di continuare a mantenere
vive delle illusioni”. Un piccolo libro, una grande lezione.
giovedì 21 maggio 2015
Don DeLillo
E'
proprio vero, come scrive Martin Amis, che “i grandi
scrittori come Don DeLillo possono portarci dove vogliono, ma la metà
delle volte ci portano dove non vogliamo andare”. Vale in modo
specifico per L'angelo Esmeralda,
una raccolta antologica di racconti e di frammenti eterogenei nella
composizione e nell'origine che attraversa due secoli, partendo nel
1979 da Creazione e
arrivando al 2011 con La Denutrita.
E' l'underworld di Don DeLillo, un work in progress che si dipana in
una serie di flash, di istantanee, senza mediazioni, inseguendo
l'assurdità delle parole, l'espressione in simboli e vocaboli che
evocano mutazioni repentine, crisi, caos. E' sempre una scrittura
enigmatica, a volte criptica, non sempre (quasi mai) agevole, eppure
anche se nel loro evidente, incompiuto formato non possono competere
con la geometria maniacale dei suoi romanzi, le storie comprese da
L'angelo Esmeralda portano
sempre su una frontiera indefinita, che sia quella dei terminal
aeroportuali in Il corridore così
come la terra di nessuno nelle aree metropolitane senza legge e senza
giustizia nel racconto che offre il titolo della raccolta. E' dentro
queste cornici che si materializzano i personaggi di Don DeLillo: la
coppia querula in La mezzanotte in Dostoevskij che
ammette la vacuità del virus del linguaggio, confessando
candidamente che “meno le nostre discussioni erano profonde, più
ci infervoravamo” o l'uomo che andava al cinema in La
Denutrita, ipnotizzato dal
cinema e dal buio perché “qualunque
luna di inquietudine e malinconia alegiasse sulla sua esperienza,
recente o lontana, quello era il luogo in cui tutto aveva la
possibilità di evaporare”. Più
di tutti è Vollmer, lo specialista che non è specializzato in
niente in Momenti di umanità nella terza guerra mondiale.
Il confine su cui deve resistere è quello che gli offre la
prospettiva migliore, essendo in orbita attorno alla terra, e allora
ricorda che “tutte le guerre rimandano al passato. Navi, aerei,
intere operazioni prendono il nome da vecchie battaglie, armi più
rudimentali, da quelli che noi percepiamo come scontri nati da più
nobili intenti” e che “la guerra è una forma di nostalgia”. Se
non è la guerra, è un'evoluzione del conflitto, della frattura tra
una “realtà ingovernabile” e la crescente frustrazione di
persone che “speravano di ritrovarsi coinvolte in qualcosa di più
grande di loro”, e rimangono lì in un limbo di voci afone. Forse
Don DeLillo si identifica proprio con il protagonista di Momenti
di umanità nella terza guerra mondiale,
un osservatore lontano, a cui piace che “le parole abbiano una
certa reticenza, che rimangano aggrappate a un punto scuro nel più
profondo dell'interiorità”. Possono sembrare incipit o
interminabili finali di romanzi (il claustrofobico Baader-Meinhof,
più di tutti), con
una complessità tale da suggerire l'esistenza di romanzi dalle
dimensioni di Rumore bianco
o Underworld,
ma il leitmotiv di questi
racconti è sempre una dimensione onirica, psichedelica o comunque
distaccata dalla realtà, una separazione necessaria per quel “lavoro
massacrante” che è riflettere. Non sempre è il desiderio più
urgente, anche se resta il più necessario.
martedì 19 maggio 2015
Sherwood Anderson
L'essenza
dell'epica di Walt Whitman, il trasporto e l'emozione di Carl
Sandburg, l'eloquenza di Theodore Dreiser, le visioni delle città e
dell'industria dilagante, di un'America che ha deviato, e parecchio,
dalle sue intenzioni originali e fondanti, o forse sarebbe giusto
dire dalle sue speranze o meglio ancora dai sogni dei suoi minuscoli
uomini: i Canti del Mid-America contengono moltitudini e sono
trasportati da un entusiasmo per le parole, per la forza delle
parole, trascendentale. C'è un senso storico straordinario, un'idea
elevata del linguaggio: i versi sono frustate, sinuosi sulle pagine,
come vie dei canti si stendono con la forma di un poema, con il
trasporto di un manuale per i songwriter, un breviario in sé perché
le canzoni, le poesie hanno la forma di rituali visto che lo stesso
Sherwood Anderson introduce i Canti del Mid-America spiegando
come “il canto appartenga a e nasca dalla memoria di cose più
antiche di quelle che conosciamo. Nei sentieri battuti della vita,
quando molte generazioni di uomini hanno percorso le strade di una
città o passeggiato senza meta di notte per le colline di un'antica
terra, sorge il cantore”. Sorprende, a distanza di un secolo (i
Canti del Mid-America risalgono al 1918), l'aderenza alla
realtà, la strenua lotta verso una percezione non banale delle
mutazioni della realtà: Sherwood Anderson è già consapevole che la
“gente si era raggruppata nelle città. Ormai usavano le parole in
modo frenetico. Le parole li avevano soffocati. Non potevano
respirare” e che “non cantiamo ma mormoriamo nell'oscurità”.
L'amarezza non è nascosta, non è mai edulcorata perché i Canti
del Mid-America non hanno niente di consolatorio e Sherwood
Anderson è esplicito e profetico quando dice che “stiamo cercando
di aprirci un varco. Sono un canto io stesso, l'estremità di un
canto spezzato io stesso”. Non bisogna andare molto lontano per
lasciarsi penetrare dalla comprensione: i Canti del Mid-America
sono cristallini, a scanso di equivoci e di interpretazioni nel dire
che “la storia è vecchia, è stata raccontata da molti uomini in
molte terre. Le terre appartengono a coloro che le raccontano. Adesso
di certo questo è chiaro”. Quella terra è l'America, la promised
land tradita, la canzone stonata, la rivoluzione soffocata sul
nascere, nelle sue contraddizioni, nella sua violenza. Tra i tanti,
un verso di Sherwood Anderson sembra quasi un epitaffio: “Stavo
venendo con l'America, sognando con l'America, sperando con
l'America, poi arrivò la guerra”. Rimane l'orgoglio del poeta,
coraggioso e indomito fino alla fine nell'alzare la voce nei
bassifondi, nell'intonare i Canti del Mid-America con la
regalità di un inno, l'autorità di una sentenza e lo spirito di un
blues: “Staremo
giù nelle profondità fangose della nostra corrente, ci staremo. Lì
nessun poeta può venire fuori e sedere sulla traballante rotaia dei
nostri orridi ponti e farci arrivare in paradiso cantando. Stiamo
scoprendo, questo è quello che voglio dire. Arriveremo alla nostra
cosa qui fuori o moriremo per essa. Stiamo andando giù, innumerevoli
migliaia di noi, nell'orrendo oblio. Lo sappiamo. Ma, dico, bardi,
state lontano dai nostri ponti. Non impicciatevi dei nostri sogni,
sognatori. Vogliamo dare una scossa a questa cosa, la democrazia di
cui tanto si riempiono la bocca. Vogliamo vedere se siamo buoni a
qualcosa là fuori, noi americani reduci da ogni luogo dell'inferno.
Questo è ciò che vogliamo”. Una dichiarazione d'indipendenza,
quella più importante.
mercoledì 6 maggio 2015
Kent Haruf
La cronaca
della morte annunciata di Dad, un
uomo che ha respirato “prateria, vento e polvere” in una vita
dedicata al lavoro e alla famiglia comincia seguendo i ritmi tiepidi,
sonnolenti, desertici dell'heartland americano. L'unico sbalzo, nelle
pagine iniziali di Benedizione (molto
vicine alla perfezione) è solo un malore che coglie Mary, la moglie.
Niente di grave: una volta ricoverata “non trovarono nulla di
anomalo, salvo che era vecchia, lavorava troppo e occuparsi da sola
del marito l'aveva sfinita”. Ogni frase di Kent Haruf circoscrive
un momento, un'area, un pensiero nel mettere in scena, proprio con
una prospettiva teatrale, “la preziosa normalità”. La sua
ricostruzione è intensa nell'individuare i dettagli e nello stesso
tempo lancinante e commovente nel seguire le tracce invisibili dei
legami prima e delle odisse di ogni singolo personaggio poi, con “i
piccoli drammi, le loro abitudini”. Cosa c'è di strano nella vita
Mary e Dad l'hanno scoperto insieme nell'alveo di un matrimonio lungo
mezzo secolo. Cosa può rivelare il lungo crepuscolo e l'inevitabile
fine appartiene alla mappa dei ricordi, dei rimpianti, delle promesse
mantenute e di quelle mancate. Quando la storia di Clayton irrompe
senza preavviso Benedizione tracima,
lasciando scorrere le storie di sotterfugi, tradimenti,
riconciliazioni e facendosi permeare dalla realtà della guerra del
ventunesimo secolo, dalla discriminazione, dalla sofferenza. Clayton
era un commesso nel negozio di ferramenta di Dad. Scoperto a rubare,
viene allontanato senza appello dallo stesso Dad perché il suo
gesto, le sue inutili e tardive rimostranze lo fanno “dubitare di
tutto il dannatissimo genere umano. E non è così che la voglio
pensare”. Altre vicende si sovrappongono e si sviluppano in
parallelo e in perpendicolare al tema centrale di Dad e Mary (la
lunga e dolente parentesi del reverendo Lyle Wesley, della sua
famiglia e della sua chiesa) e Kent Haruf lima le pagine parola per
parola: i dialoghi appaiono ruvidi, persino monchi, quasi segmenti di
linguaggio in domande e risposte di poche sillabe. Non facile. Non
comodo. Per capire il paesaggio letterario (e non solo) di
Benedizione serve
quella definizione, eccezionale, di Sherwood Anderson nei Canti
del Mid-America: “C'è
una storia che gli uomini non possono raccontare, donne stanche la
raccontano, uomini stanchi la raccontano, echi di storie rimbombano
nelle sale delle anime, narrano di fantasmi alla porta della cucina,
fiochi laggiù nell'oscurità”. La frugalità della scrittura di
Kent Haruf sembra ricordare la necessità di risparmiare i “giorni
felici” di Schopenauer, quasi di rallentare, se non proprio di
fermarsi, per vedere, per ricordare, per carpire ancora una volta “la
gentilezza e la dolcezza reciproche tra le persone. Lo scorrere lento
del tempo in una notte d'estate. La vita normale”. Anche se non è
quella la Benedizione,
che è sempre ambivalente. La Benedizione
è la pioggia, verticale, inevitabile come la morte e la vita, e
nello stesso modo a doppio taglio, perché sulla pianura orizzontale
qualcuno sta mietendo e qualcuno sta aspettando, la fine, l'inizio.
Un romanzo duro, aspro, acuto. Straordinario.