L’intensità
della poesia di Jorie Graham è tutta nella sua aderenza alla realtà, almeno per
quanto riguarda la scintilla iniziale, l’ispirazione, nell’annusare la vita che
viviamo, ovvero “l’immensa sospensione del respiro del mondo”, in questo secolo
che poi non è molto diverso dall’altro. L’abilità che si evince leggendo Il
posto è invece quella di
riuscire a bilanciare una specifica competenza nell’ordinare le parole in versi
con la spiccata attitudine di attenersi a quella realtà che la poesia deve e vuole
trasformare con una convinzione inattaccabile perché “dobbiamo scrivere la
storia del visibile che il domani venga investito dell’oggi, come le parole
giunte per caso dalla stanza accanto, fatti gravi raccontati in voce calma, il
mondo un posto in prestito che abbiamo usato, dobbiamo scrivere dell’uso che ne
facemmo, non sempre evidente il significato, non importa quel che dopo scopri
del nostro pensare, ma il proscenio così chiaro, per tutto il tempo, umano.
Come abbiamo fatto a rimanere vivi senza poter più abitare”. Il posto è la migliore celebrazione di questo
modo di vedere e scrivere. C’è un’osmosi continua tra la percezione e la
scrittura: il flusso poetico è incontaminato, coerente e costante e, verso dopo
verso, si avvia a formare un continuum tra l’esperienza della vita e quella
della poesia. Da una parte, il senso delle stagioni di Jorie Graham spicca e Il
posto si rivela un luogo
di emozioni multiformi, che assumono attraverso il contorno del paesaggio (Tramonto rende alla perfezione, attraverso le
parole, la luce della marea ed è capace di imitarne il ritmo) il profilo della
riflessione e dell’introspezione rese
esplicite da Cagnes Sur Mer 1950:
“Così qui, io di nuovo, rileggo il libro del tempo, il mio unico tempo, come se
ci fosse un fatale errore la cui natura non so rintracciare, o la forma, o
l’origine”. D’altra parte c’è Wallace Stevens ai margini di queste pagine
perché “non tutti i giorni il mondo si accomoda in una poesia” e Jorie Graham
balla sul filo di rasoio della realtà aggrappata alla volubile natura dei
versi: “Mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio, macchia scura
dove una storia non diventa ancora un’altra, e parole, non giunte a me ancora,
ancora non proveranno a dirmi da dove vengono le cose, né dove vanno, dove
risplenderà il flusso dell’inclinazione nella sua veloce discesa”. La sorpresa,
una volta tanto, sta nell’attualità dolorosa di Lavoro, che dimostra come nella dolcezza del
suo linguaggio, che scivola secondo linee sinuosidali sempre elegantissime,
Jorie Graham non rinuncia ad affrontare argomenti d’ordinaria brutalità. Quella
crisi a cui serve una Tregua
per dire che “ci contiamo per esser certi d’esserci tutti, qui dentro, insieme,
unici azionisti” o la convivenza con la paura il Messaggio
dalla cattedrale di Armagh o ancora con il dubbio in Il futuro della fede (Sulla particella Z 52 del contratto di compravendita) dove dice: “Non puoi arrivare cieco a
destinazione, o portare il peso per tutto il viaggio”. Toccante.
lunedì 28 aprile 2014
mercoledì 23 aprile 2014
James Baldwin
Negli
Appunti americani sono raccolti i
saggi che hanno reso nota la lucidità dell’analisi e l’efficacia dello stile di
James Baldwin. Sulla carta, almeno all’anagrafe, è passato mezzo secolo, eppure
questi pensieri sono sempre attualissimi. L’ossessione per l’essere americani e
afroamericani nello stesso stempo è sviluppata secondo coordinate multiple e
poliedriche, e senza fare sconti perché come scrive James Baldwin, “diventare
un americano comincia dal momento in cui si rifiutano tutti gli altri legami,
qualsiasi altra storia, e si adotta la veste della terra che ci ha adottato.
Questo problema si è posto a tutti gli americani durante la nostra storia, in
un certo senso è la nostra storia, e sconcerta l’immigrante e rende insicura la
seconda generazione, a tutt’oggi”. La complessità degli Appunti americani deriva dalla sua scrupolosa natura, fitta di toni e
note polemici che non risparmiano nessuno. A scanso di equivoci e un po’ come
indispensabile premessa, James Baldwin precisa che “tuttavia, le questioni
sociali non sono in genere il pensiero primo dello scrittore, che sia giusto o
no; è assolutamente necessario che egli stabilisca fra sé e quelle questioni
una distanza che gli permetta, come minimo, chiarezza, così che prima di poter
guardare avanti in un modo che abbia un qualche senso, gli deve essere prima
permesso di rivolgere un lungo sguardo all’indietro”. Partendo dal blues, dal
gospel, dagli spiritual e insistendo poi sull’onda autobiografica tra Parigi e
New York, nell’articolazione degli Appunti americani, James Baldwin insegue la chimera di un’identità e ne
ammette l’incosistenza in un passo che suona come una confessione: “Ciò che è
accaduto, nel corso della mia vita, ricapitola quanto è accaduto ai miei
antenati. Nessuna promessa fu mantenuta con loro, nessuna promessa è stata
mantenuta con me, né posso consigliare a coloro che verranno dopo di me, né ai
mia consanguinei nel mondo, di credere a una sola parola pronunciata dai miei
connazionali moralmente falliti e disperatamente disonesti”. La scrittura non è
soltanto lo strumento per fissare e rileggere le circostanze, la storia, perché
“si scrive solamente in base a una cosa, la propria esperienza”, ma anche il
modo per rispondere a quello che James Baldwin chiama “l’unico vero dovere dell’artista:
ricreare dal disordine della vita quell’ordine che è l’arte”. Wole Soynka
scrisse che James Baldwin era troppo affascinato “dalle ambiguità delle scelte
morali nei rapporti umani per pensarle in crudi termini conflittuali” e gli Appunti
americani non fanno altro che
confermare l’ampiezza di quel pensiero perché “in sostanza è vero, l’apparenza
cambia in continuazione, con ogni generazione che accoglie con esultanza
effimera le aggiunte sempre più abbaglianti alla nostra famosa facciata. Ma il
ghetto, l’ansia, l’amarezza e la colpa continuano ad alimentare un
indescrivibile complesso di tensioni. Ciò che il tempo porterà agli americani
sarà finalmente la loro identità”. In un altro mondo, sarebbe un libro di
testo, obbligatorio.
lunedì 21 aprile 2014
John Jeremiah Sullivan
Meno
caleidoscopico di David Foster Wallace, meno caustico di Hunter Thompson, agli
estremi della non fiction americana, John Jeremiah Sullivan è premuroso nel
centellinare l’espressione dello stile e della personalità, che appaiono
evidenti con l’esposizione dei fatti e delle cronache. La sua è una scrittura
che prende dal pop e si nutre di quell’essenzialità e dei suoi cliché,
incastrandoli ed elevandoli in un linguaggio e in un’analisi più complessi.
John Jeremiah Sullivan armeggia con la materia con tutte le cautele del caso,
sa fin dove spingersi e dove fermarsi prima che il suo saggio si trasformi in un articolo o
confonda l’originalità della prosa, sempre brillante, con il dovere della
semplice cronaca. Gli argomenti sono tra i più disparati, dal suo bizzarro
mentore all’uragano Katrina, dalle utopie di Disney alla plasticità fenotipica
e John Sullivan si destreggia con una leggerezza che è il principale tratto del
suo stile comune a tutti i brani di Americani. Descrive come non è riuscito a nessuno due casi
umani inenarrabili del calibro di Michael Jackson e Axl Rose (e per estensione
Kurt Cobain) compresa quella perfetta definizione dei Guns N’Roses che li
ritrae come “l’ultima grande rock’n’roll band che non trovava imbarazzante
essere una rock’n’roll band. Ci sono migliaia di band al mondo che non trovano
affatto buffo il rock, ma di rado ce n’è una buona. Con i Guns, non importava
quanto ti sentivi sofisticato in fatto di gusti musicali pop (lasciando da
parte per il momento la natura paradossale di questa categoria sociale), non
potevi liquidarli”. Anche l’incontro con Bunny Wailer, uno dei resoconti più
densi e coloriti di Americani è la
dimostrazione di un modello di reportage che privilegia ancora l’esperienza
diretta, sul campo, il toccare con mano perché poi John Jeremiah Sullivan
scopre che “il vero regalo che mi ha fatto è stato quello di dire no”. La
scrittura è pulita, rigorosa, concreta, senza fronzoli, con molte idee e
qualcosa da dire anche se John Jeremiah Sullivan si concede, spesso e volentieri,
piccole partenze per la tangente e salutari divagazioni per non restare
imprigionato nella realtà e nelle sue perversioni. In effetti, Americani offre una delle più efficaci letture e analisi del
mondo dei reality mai viste: “Siamo tanto fragili? Dev’essere così. Ce ne sono
troppi, semplicemente, troppi programmi e troppa gente nei programmi, perché
non stiano rivelando qualcosa di endemico. Siamo noi: un popolo di selvaggio
sentimentalismo che piange e solleva pesi”. Da Disney alla scoperta della
wilderness americana attraverso la figura di Costantine Samuel Rafinesque, in
contrasto con quella ormai istituzionale di Lewis & Clark, o quella
dell’apocalittico Marc Livenwood (sempre ammesso che esista) John Jeremiah
Sullivan scopre soltanto, come scriveva Rafinesque, che “tutte le storie
d’America non sono che frammenti o sogni”. Come direbbe uno dei suoi Americani, un
personaggio che ama risolvere le
questioni schiacciandole con un timbro gigante: approvato.
martedì 15 aprile 2014
Philipp Meyer
Questa è l’America e Il figlio ha il coraggio di dirlo
senza patemi, con grande chiarezza e uno stile che avvinghia il lettore
dall’inizio alla fine. Con Philipp Meyer, la costruzione di una nazione
attraverso la distruzione di una famiglia: la trama di questo splendido romanzo
è tutta condensata nello sviluppo di un’idea di America molto realistica, molto
concreta, molto poco diffusa e che invece scoperchia quei pozzi nelle cui
profondità sono nascoste alcune ineluttabili verità. Scomode, senza dubbio: Il
figlio
si annoda e si scioglie proprio come una treccia attraverso l’alternarsi del
racconto dei tre protagonisti della famiglia McCullough, lungo il border tra il
Texas e il Messico. Ne arriverà un quarto, alla fine, ma questo sta al lettore
scoprirlo. Il capostipite è Eli McCullough: rapito dai Comanche dopo che gli
hanno massacrato la famiglia, vivrà con loro gran parte della sua vita. Già in
questa fase Il figlio sfata il mito del buon selvaggio e dell’uomo bianco crudele
(che pure ci sta) perché prende forma una sorta di spietata democrazia quando
“il sangue che scorreva nella storia poteva rimpiere tutti i fiumi e gli
oceani, ma nonostante quell’ecatombe, tu eri lì”. Eli (o Tiehteti nella lingua
Comanche) diventerà poi un ranger, quando la sua tribù verrà sterminata dal
vaiolo, e infine un petroliere. Non riuscirà a tramandare al figlio Peter,
ancora legato all’agricoltura e all’allevamento, lo stesso spirito avventuroso
e aggressivo, destinato piuttosto alla nipote prediletta Jeanne Anne. Sono loro
due gli altri protagonisti attorno ai quali ruota lo sfruttamento
indiscriminato della terra, e delle sue risorse, così come quello degli esseri
umani (in particolare degli immigrati messicani) che è alla radice della
formazione americana. Philipp Meyer lo concentra in una frase laconica, che
condensa tutto Il figlio in due righe: “Diventeremo padroni di tutto. All’infuori,
ovviamente, di noi stessi”. E’ proprio per questo che, per seguire la saga
della famiglia McCullough, più che un albero genealogico, serve una mappa.
Bisogna districarsi nel significato estremo della frontiera, che è il confine,
è il border ed è un mondo e un nemico diverso da scoprire ogni volta. Ad
ammettere il senso ultimo del limite, implicito nel confine, reale o
immaginario che sia, è Jonas, figlio di Eli e fratello di Peter, che osserva
con disincanto il mito dell’America: “Non so che fine farà questo posto, ma al
momento non ne vedo i vantaggi. Non è abbastanza popolato per avere una
cultura, ma nemmeno così selvaggio da essere interessante. E’ solo una
provincia”. Lo dice di ritorno dall’Europa devastata da quella seconda guerra
mondiale che è stata la fortuna economica e industriale dell’America e dei
McCullough, ma anche una maledizione infinita. Con Il figlio, Philipp Meyer ha il dono
di riuscire ad allineare due secoli di storia spesso crudeli, sempre
contraddittori, senza timori reverenziali, senza esitazioni trasformandoli in
un romanzo che, nella sua semplicità e con le sue imperfezioni, si avvicina
parecchio a un’idea edificante di letteratura.