sabato 28 gennaio 2012
Edgar Lee Masters
martedì 24 gennaio 2012
Jack Kerouac
lunedì 23 gennaio 2012
William Carlos Williams
La visione di un mondo e della sua evoluzione attraverso l’avventura di una scrittura rigogliosa, ricca in ogni sua frase di un segmento, di una porzione, di un fetta importante della torta terrestre americana. Nelle vene dell’America spiega come “gli americani abbiano perduto la consapevolezza che, fatti così come siamo, ciò che siamo ha origine in ciò che la nazione è stata nel passato; che c’è una fonte nell’America per tutto ciò che pensiamo o facciamo; che la morale influisce sul cibo e il cibo sulle ossa, e che, infine, non abbiamo la minima idea di ciò che s’intende per morale, dal momento che non riconosciamo come nostro alcun fondamento; e che questa rozzezza poggia tutta sul carattere non studiato dei nostri inizi”. William Carlos Williams non fa sconti: scrive con la proprietà di uno storico che ha verificato e scandagliato fino alle radici tutte le informazioni e da ogni fonte ha voluto trarre “una cosa specifica, lo strano fosforo della vita, senza nome sotto un nome vecchio e sbagliato”; polemizza come un elettore che ha avuto la fortuna di un colloquio libero e privato con il presidente (il tono è quello) e vuole “prendere ciò ch’è mio con la sola mia forza, loro invece con la stortura della loro legge”; viaggia nel tempo e nello spazio americano con l’arguzia di un filosofo e la grazia di un poeta, dispensando “l’aroma di una genuina peculiarità, la forma caratteristica prodotta dalla forza singolare”. E’ una musica del deserto con cui William Carlos Williams incide parola dopo parola l’intima conoscenza di una realtà che soltanto lui aveva intravisto, di cui aveva coscienza, una realtà complessa come l’America. “L’illusorio, luminoso futuro della fondazione di un grande impero” dalle prime tribù nordiche che solcarono l’Atlantico ai conquistadores lascia nelle vene dell’America un torbido, infinto virus: “la storia comincia per noi con l’assassinio e la schiavitù, non con la scoperta” dice lapidario William Carlos Williams. Tutti i tentativi per fuggire a questa indiscutibile verità sono una lunga teoria di fallimenti tanto che “il quadro dominante dell’America è quello di una terra esteticamente soddisfatta da surrogati provvisori”. L’immagine è ancora più pertinente oggi di allora ed è sufficiente pensare alle plastiche proiezioni dell’industria cinematografica per cogliere in tutta la sua forza la lungimirante percezione di William Carlos Williams: “L’America adora la violenza, sì. Davanti ai grandi incendi e alle esplosioni prova un brivido di emozione. Così dev’essere la magnificenza! I migliori spegnitori d’incendio del mondo. Noi viviamo avendo, non meno incendi, bensì di più, eccitandoci nel vedere delle cose angosciose fatte bene, perfino con disinvoltura. Ma abbiamo la violenza a scopo di servizio, badate bene. Navi da guerra a scopo di pace. La forza imprenditoriale allo scopo di portare banane alla nostra tavola”. Il poeta è prigioniero della sua sconfitta, che è quella di tutti perché Nelle vene dell’America è l’antico testamento della letteratura americana.
martedì 17 gennaio 2012
Steve Erickson
lunedì 9 gennaio 2012
Stephen King
22/11/’63 è uno spettacolo pop e popolare “all american” che rimane irrisolto proprio nel suo snodo fondamentale, ovvero le circostanze e le conseguenze di un viaggio nel tempo. Forse non era nemmeno quello l’obiettivo di Stephen King visto che all’inizio le sue proiezioni scelgono di infilarsi nel passato “non foss’altro che per sentire Little Richard quand’era un eroe da classifica”, che potrebbe pure essere un motivo più che sufficiente. Arrivato nel 1958 passando per un varco temporale Jake Epping alias George Amberson è tentato di cambiare il corso storico degli eventi magari con l’idea di migliorarli, ma “il passato è in armonia con se stesso, cerca sempre di trovare un equilibrio, e quasi sempre ci riesce”. A Stephen King preme raccontare il mondo com’era, e un po’ anche com’è, attraverso una profonda conoscenza della cultura popolare americana, o forse sarebbe meglio dire degli usi e dei costumi nonché del folklore. Dallo sport alla cena take away (per non dire del rock’n’roll) sono un’infinità le tracce sparse alla ricerca dell’identità di una nazione prigioniera di un passato che somiglia moltissimo al presente. A ogni azione corrisponde una reazione, i ricordi sono dinamici e in questo Stephen King ha buon gioco a rivedere e a rileggere il passato recente dell’America lungo due punti critici, la crisi dei missili dell’ottobre 1962 e il 22 novembre del 1963. Forse c’era il bisogno di confrontarsi con l’omicidio di JFK, come hanno fatto Don DeLillo con Libra e Norman Mailer con Il racconto di Oswald e non sono gli unici scrittori evocati: Stephen King cita Paul Bowles, Thomas Hardy, John Steinbeck, Ed McBain, Chester Himes, Irwing Wallace, John Irwing e soprattutto se stesso. Se si cambia qualcosa è facile vedersi proiettati in scenari degni di L’ombra dello scorpione e il viaggio nel tempo porta a Derry cioè a It, un altro modo per dare al lettore un punto di riferimento, un punto di arrivo. In realtà Stephen King ammette tutti i limiti dei suoi flashback, anche se lo fa in modo inconsueto. C’è una storia d’amore nell’intimo del “ritorno al futuro” di Stephen King ed è l’impedimento perché il destino fatale si compia: quello che succede tra Jake Epping alias George Amberson e Sadie Dunhill già signora Clayton sovverte l’ordine delle idee e sviluppa un mondo parallelo più resistente dei calendari e dei libri di storia. E’ la parte più convincente di 22/11/’63 perché poi come direbbe Bruce Springsteen “è buffo, il passato. Tiene unita la nostra esistenza, i nostri ricordi e le nostre esperienze, ma è anche qualcosa che ci può ostacolare impedendoci di scoprire quanto di nuovo c’è nella vita”. Quello che non cambia è Stephen King: leggerlo è come ritrovare un vecchio amico di cui si conoscono le consuetudini o bere una birra che è sempre la stessa (anche se nel passato, sembra, era molto più buona). Per qualcosa di più, bisogna passare a con Indietro nel tempo di Jack Finney, a cui Stephen King fa esplicito riferimento, non senza una certa onestà.