La giornata deve essere stata difficile. Nemmeno un cavallo giusto. La birra calda. Le donne più nervose del solito. La cassetta della posta piena di lettere di rifiuto. Il deserto nel portafoglio. Gli hippie e lo zio Sam. I Rolling Stones. Troppo anche per “un vecchio sporcaccione” abituato a tutto e così quando il tramonto riempie il cielo di Los Angeles di vaniglia calda, il “factotum” della poesia, si siede al tavolo in cucina, stappa una bottiglia di Beaujolais e comincia a martellare sui tasti perché scrivere “è una funzione fisiologica. Senza mi ammalerei o morirei. E’ una parte di noi come il fegato o l’intestino, altrettanto affascinante”. Con la notte che arriva, e il carburante che entra in circolo, Bukowski diventa un guerriero delle parole, un vendicatore (neanche mascherato) armato d’inchiostro e di vino, un teppista pieno di sogni e di poesie che mette in fila, as usual, i suoi bersagli preferiti: la maggioranza silenziosa e benpensante, i politici (potenti o meno), l’università, gli editori che non pagano e quelli che non rispondono, gli imitatori e gli scocciatori, gli hippie, e i jazzisti e tutti gli outsider come lui perché, ammette con quella crudele innocenza che gli è sempre stata propria “noi siamo il premio di una mente contorta, pezzi sporchi d’argilla che siedono e aspettano a un tavolo imbeccile di un’imbecille oscurità”. Per merito anche dell’eccellente lavoro di assemblaggio e di selezione svolto da David Stephen Calonne, il Buk è più in forma che mai: questa è la “sua” guerra (la parte più corposa della raccolta risale agli anni della guerra del Vietnam) e nello spazio breve degli articoli, delle prefazioni, delle lettere non ha limiti (se mai ne ha avuti) e ci va giù duro. E’ un Bukowski sprezzante e filosofo quello che emerge con prepotenza, persino apocalittico (“Siamo circondati da morti, che ricoprono ruoli di potere perché per ottenere questo potere è necessario che essi muoiano. I morti sono facili da trovare, sono tutti intorno a noi; il difficile è trovare i vivi”) o crepuscolare (“Credo che l’unica cosa che possiamo fare sia scattare le nostre istantanee, aspettare, e poi andarcene”) in certi passaggi. Raccolti e curati da David Stephen Calonne questi frammenti inediti dell’epopea bukowskiana, pur provenendo dalle fonti più disparate e in un arco di tempo che va dal 1944 al 1990 costituiscono un perfetto vademecum filosofico del buon vecchio Hank. Ci si ritrova il polemista migliore, quello caustico e radicale che spiega senza esitazioni cos’è il jazz (“Il jazz non dovrebbe andare a braccetto con la poesia. Il jazz può essere vitale, stimolante. Può essere folklore e può essere ingerito, a volte, come arte, ma il jazz non è una vera forma d’arte. Il jazz è pulsione, il jazz è apparenza, il jazz è brutto, ma il jazz nonostante tutte le sue pretese, è debole e limitato e inconsistente, prende a prestito trucchi dai classici, ma non impara mai”) o come si si sente con il tipico esaurimento psicofisico imposto dai Rolling Stones (grande fin dal titolo il capitolo che gli dedica, Jaggernaut) o cosa di debba intendere per stile (“Stile significa non avere scudo. Stile significa non avere facciata. Stile significa massima naturalezza. Stile significa un uomo solo circondato da miliardi di uomini”). Quest’ultimo passaggio introduce il Bukowski più sorprendente, quello più “politico”, proprio perché per niente politico, quello che non sa né cosa vuole dire “common sense” né cosa sia un “common man”. O meglio lo sa a modo suo: “Quando vedi il municipio in centro e tutte quelle persone per bene, non farti assalire dalla malinconia. C’è una marea di persone, intere specie di gente pazza, che muore di fame, ubriaca, stolta e miracolosa. Ne ho viste tante. Sono uno di loro. Ne verranno altre. La città non è ancora stata presa. La morte prima della morte è ripugnante. I tipi strambi terranno duro, la guerra continuerà”. Da sempre in conflitto aperto con ogni tipo di ordine precostituito, con qualsiasi routine che non sia la sua (dormire fino a mezzogiorno, una bottiglia al pomeriggio, le corse ai cavalli, il pieno alla sera, scrivere tutta la notte: non è poi così difficile) Bukowski mette in questi appunti, nero su bianco, la sostanza della sua ideologia: “In qualsiasi città, il buon gusto e il buon senso non sono rappresentati da quel che vedi e che fai, ma più da quello che non vedi e non fai. Quello che ci sta intorno è molto meno importante di ciò che c’è dentro di noi, ma vi assicuro che dobbiamo vivere anche con quello che ci circonda”. E così in un crescendo di frasi sferzanti (dove non nasconde nemmeno il suo trucco principale: “Il genio potrebbe consistere nell’abilità di dire una cosa profonda in un modo semplice, o perfino di dire una cosa semplice in modo ancora più semplice”) il Buk arriva al proclama finale della sua bellissima rivoluzione: “Si tratta solo di fare quello che si vuole: neanche un uomo su mille fa quello che vuole. La mia sconfitta sarà la mia vittoria. Non c’è rifiuto. Sono tutto ciò che potrei essere in questo momento”. Un manuale d’addestramento per i loser, gli outsider e per tutti quelli che puntano sempre sul cavallo sbagliato. Stappatevi una bottiglia: si può essere felici lo stesso.
martedì 12 gennaio 2010
Charles Bukowski
Cormac McCarthy
Nella vita dei “topi di fiume” c’è chi caccia tartarughe, chi pesca conchiglie in cerca di perle, chi insegue la luna, chi va in cerca del colpo grosso, chi gioca d’azzardo. Mangiano piatti improbabili e bevono whiskey illegali, scompaiono in grotte e buchi nella terra, finiscono spesso e volentieri in gattabuia o in ospedale, con la testa spaccata. Vivono ai margini della città sulle rive di un fiume che è nello stesso tempo pieno di vita e inquinato da morire. Un fiume che non è metaforico e non scorre per niente tranquillo perché ogni giorno ha la sua pena e la lotta nella marginalità, contro gli elementi, la fame, la sventura sfianca tutti quanti. Suttree, “un uomo che non aveva propositi, né di tornare da dove era venuto né di raccontare quello che aveva visto”, vive in una casa galleggiante, così dentro al fiume che è difficile distinguerlo dal paesaggio. E’ un uomo dal passato ingombrante che cerca di rendersi più semplice il presente. Vorrebbe pescare le sue carpe e i suoi pesci gatto, venderli al mercato e lasciare passare la giornata bevendo (birra e/o whiskey) e guardando il fiume scorrere. Glielo impedisce un’armata di disperati e di perdenti che a vario titolo compaiono alla sua porta. Si va da Harrogate, giovane desperado che farebbe di tutto per fare soldi senza lavorare, all’intera famiglie di pescatori (e pescatrici) di perle che dragano tonnellate di conchiglie e molluschi in cerca di un tesoro che non arriva. Senza contare il suo inner circle di outsider devastati dall’alcol, una specie di circolo chiuso di emarginati in cui cova un’endemica vocazione alla violenza e alla sconfitta. “Un uomo è tutti gli uomini” scrive Cormac McCarthy nel centro del romanzo e non c’è dubbio che Suttree sia il personaggio che, “accennando a disturbi dell’anima e fatti della notte”, riesca a sublimare e rendere leggibile l’intera comunità che va attorno alle rive del fiume. La “voce” di Cormac McCarthy è forte, densa e trascinante anche se non è ancora armoniosa e precisa come nei libri che verranno. A volte s’inerpica in disgressioni ad un passo dal dialetto (e qui il traduttore deve aver fatto le acrobazie per rendere l’idea), altre sceglie parole e frasi cercate nell’abbondanza dei vocabolari e spesso, non senza un piglio visionario, intreccia una lingua che sembra confinata in quell’area specifica. Bisogna immergersi e seguire passo per passo l’andatura sbilenca di Suttree, arrancando soprattutto nel primo centinaio di pagine. Una volta nel fiume, la vita (del romanzo e di Suttree) avanza selvaggia e fragrante di umori, deliri e sapori. Allora sarà facile scoprire che Cormac McCarthy è sempre grande, anche quando descrive una scoreggia. Provare per credere.